venerdì 31 dicembre 2010

Diario - 30 dicembre 2010


 Galaverna su pini loricati - foto by Indio; sotto: 1. piccoli abeti lungo le sponde del tratto finale di F. Iannace; 2. Piano di Iannace innevato: da notare il luccichìo dei granelli al sole;3. loricato monumentale sul crestone nord di S. delle Ciavole; 4. veduta dalla sommità della cresta; 5. panoramica; 6. l'autore (autoscatto)

Notturna di Fosso Iannace, crestone nord di Serra delle Ciavole
Fine anno: l’ultima settimana di dicembre ci ha regalato tre giorni di bel tempo. Le previsioni mettevano sole fino al 30. Con un amico avevamo programmato un’escursione alla cima del Monte Pollino per quel giorno, ma l’amico all’ultimo momento s’è ritirato. 
Non volevo comunque perdere l’occasione di  un’escursione nella neve con il bel tempo, e perciò ho deciso per una solitaria, ma cambiando destinazione. L’obiettivo era arrivare alla cima di Serra delle Ciavole dalla cresta nord, anche se coi tempi stretti che ho avuto a disposizione mi è stato possibile  arrivare solo sulla sommità del crestone nord. Le escursioni con la neve non sono uno scherzo e richiedono il doppio del tempo e della fatica di una normale escursione estiva. Ho portato con me tutta l’attrezzatura necessaria per affrontare neve e ghiaccio: ghette, ramponcini da tacco, ramponi, racchette. Sebbene molto impegnative, le escursioni invernali regalano emozioni uniche: gli scenari che offre il Pollino d’inverno sono davvero maestosi. La fatica è allora ampiamente ricompensata. Sono partito due ore prima dell’alba e risalgo il sentiero di Fosso Iannace in pieno buio. Le formazioni di ghiaccio del torrente risplendono alla luce della mia lampada frontale. 
Agli scarponi ho messo i ramponi da tacco, economici e utili per non scivolare. Uno dei ponticelli del torrente è sommerso dal ghiaccio. L’aria è gelata e la si sente nei polmoni. Gli abeti di Fosso Iannace sembrano solo delle ombre e si stagliano contro il cielo  rischiarato appena dalla luna, allineata al centro della gola. Via via che procedo nel percorso il bosco comincia a schiarirsi lentamente con il  sorgere del sole. Giungo all’ultimo ponte e la luce della lampada non serve più. Mi avvio verso Piano Iannace. Lungo il sentiero incontro delle impronte. Sebbenes non si distinguano perfettamente nella neve farinosa, guardandole bene sembrano proprio le caratteristiche impronte del lupo. A Piano Iannace osservo la cima del Monte Pollino, avvolto dai primi raggi del sole. Il sole spunta improvvisamente da Serra di Crispo e assisto ad uno spettacolo formidabile: i granelli di giaccio risplendono di luce e sembra che il pianoro sia punteggiato di diamanti. Qui indosso le ciaspole, perché la neve è alta e asciutta. Ho una certa sete e devo fare rifornimento alla sorgente che si trova sotto la  strada, appena entrati nel bosco. L’acqua è ghiacciata   e devo bere a piccoli sorsi. La cosa migliore da fare con un tempo così rigido  è portarsi un bel termos pieno di tè caldo; così si scongiura il rischio di raffreddori e bronchiti.
Anche la mia macchina soffre il freddo. Noto che l’otturatore è lento e il computer dà un segnale d’errore. Allora metto la macchina al collo chiudendola nella mia giacca di pile, per farla stare al caldo: classico sistema per fotografare sottozero. Procedo nella ripida salita che conduce al Piano di Toscano. I faggi a ridosso di Serra Crispo sono ancora ricoperti di neve. Piano di Toscano è immerso in un’atmosfera magica, come sempre quando il paesaggio d’alta montagna è modellato dalla neve. Il silenzio sembra dominare l’immensa area selvaggia dei Piani di Pollino e oltre a me non sembra esserci nessun altro. Alla Grande Porta la galaverna ancora resiste sui pini loricati e il vento fa staccare i pezzi di ghiaccio che cadono a terra. Mi tolgo la giacca a vento, perché oltre a non esserci alito di vento, il sole è ormai alto e comincia a riscaldare l’aria; così mi avvio verso la cresta nord di Serra delle Ciavole. Tolgo le ciaspole, perché il terreno si fa più roccioso e rimetto i ramponi da tacco (che si riveleranno molto utili, a dispetto della loro economicità); i ramponi veri e propri ora sono inutili, perché la neve è così asciutta da impedire la formazione di vetrato.
Mi aspetta una bella e facile arrampicata sul crestone nord, popolato di caratteristici esemplari di pino loricato, abbarbicati sulla roccia. Mentre salgo, un corvo imperiale, incuriosito forse dalla mia presenza, volteggia gracchiando sopra di me. Già, sono davvero solo, ma il disagio sparisce di fronte allo spettacolo delle cime innevate. Resterei qui fino al tramonto e magari anche per i giorni successivi se potessi. Arrivo sulla sommità della cresta e mi fermo a ridosso di una roccia per il “pranzo”: fichi secchi, panettone e acqua, all’impiedi, come sempre. E’ quasi l’una e seppure vorrei, non posso proseguire fino alla cima, perché non mi rimangono molte ore di luce. Così decido di scendere ai piani, aggirandomi tra i monumentali loricati del fianco nord-ovest. Rimetto le racchette e mi avvio tranquillo sulla via del ritorno. Su Serra di Crispo vedo la figura lontana di un escursionista, l’unico essere umano incontrato in questa giornata di solitudine…



sabato 18 dicembre 2010

Un canto nella notte



registrazione dei versi - by Indio
«Da ottanta milioni di anni gli uccelli attraversano i cieli, superano le montagne, sorvolano terre e mari. Ogni primavera essi coprono distanze enormi per raggiungere i luoghi in cui nidificare. E in autunno si involano di nuovo a ritroso lungo le stesse rotte. La storia degli uccelli migratori è la storia di una promessa, la promessa del ritorno. Miliardi di uccelli delle specie più varie ogni anno si spostano con l'alternarsi delle stagioni: viaggi interminabili, da un continente all'altro, da nord a sud, colmo di pericoli con un unico scopo: proseguire il ciclo della vita.
Un volo infinito, un volo di speranza»
dal film Il popolo migratore,  regia di Jacques Perrin (2002)

Sono quasi le dieci di sera e il vento finalmente si è calmato un po', dopo la giornata tempestosa di oggi. Mia sorella esce un attimo e mi comunica che si sentono degli strani rumori… Esco subito fuori. Ascoltando attentamente, si ode un insolito gracchiare, che echeggia nei dintorni.  Sembrerebbe che degli strani uccelli si siano appollaiati sugli alberi, da qualche parte… Ritorno in casa e prendo il telefonino, per memorizzare quei versi, esco fuori di nuovo e mi porto al centro dell’orto. Non smetto di volgere lo sguardo al cielo, perché è da lì che il coro di voci sembra provenire. Forse ho già capito di cosa si tratta...
 Le nuvole corrono velocemente spinte dal vento, sotto la volta delle limpide e geometriche costellazioni. Il canto va e viene, risuona in più direzioni, ora si fa più sommesso, ora più vicino... 
Guardo in direzione della luna. 
Ed eccoli finalmente... riesco d’un tratto a scoprirli: la luna viene coperta da una nube e proprio là,    appare una linea nebulosa a forma di freccia, distinguendosi nettamente nel  momentaneo spazio di luce. E'  una visione di sublime bellezza,  che si consuma nell'immediatezza di un attimo. Posso fotografare la scena solo con i miei occhi e memorizzarla nella mente...
L'origine di quel canto si è materializzata nella perfetta e simmetrica schiera di uccelli che volteggiano sopra di me, in questa parte di cielo. Sono le gru, ed è da tempo, da quando ero bambino, che non mi capitava di assistere a questo spettacolo. Pur nell’oscurità, riesco a distinguere ancora la formazione nel suo passaggio tra il biancore delle nuvole.
Più che attraversare il cielo in linea retta,   sorvolano il villaggio avanti e indietro... sembra che vogliano esplorare i dintorni aerei della valle. Il coro che ho avuto la fortuna di ascoltare risuona a me come inedito, e sembra provenire da mondi lontani.
E poi col tempo il canto svanisce nelle tenebre, portando la schiera di viaggiatori alati verso altri cieli e altre terre…



mercoledì 15 dicembre 2010

"Deserto solitario", di Edward Abbey

Edward Abbey - sotto: la prima edizione di "Desert Solitaire"; uno scorcio degli "Arches"; Abbey mentre fa il tiro al bersaglio; nei pressi della diga Glen Canyon Dam; Brice Canyon.

“No, la natura selvaggia non è un lusso, ma una necessità dello spirito umano, vitale per le nostre esistenze quanto l’acqua e il buon pane. Una civiltà che distrugge quel poco che rimane di essa, di quello che si è conservato nel tempo, delle cose che erano in origine, si separa volutamente dalle sue radici e tradisce il principio stesso su cui essa si basa”

“Se riuscissimo ad imparare ad amare lo spazio con la stessa intensità con cui siamo ossessionati dall’idea del tempo, potremo scoprire un nuovo significato della frase ‘vivere come uomini’”
(Edward Abbey)

Desert solitaire. A season in the wilderness del 1969, pubblicato in Italia da Franco Muzzio Editore, è un libro di Edward Abbey, lo scrittore e ambientalista americano famoso soprattutto per The monkey wrench gang, romanzo cult che divenne un manifesto della controcultura americana degli anni ’70, e che precedette e ispirò l’azione diretta di organizzazioni ambientaliste come Earth First.  Abbey può essere considerato uno degli ultimi grandi wilderness visionaries americani del Novecento (accanto a nomi come Leopold, Douglas, Olson ecc.). Un pilastro fondamentale, quindi, del Movimento Wilderness.  Il libro è basato sull’esperienza che lo stesso Abbey fece negli anni Sessanta come guardiaparco, abitando per mesi in una roulotte, nel territorio degli Arches National Monument, un'area meravigliosa che purtroppo si preparava proprio allora a subire l’invasione del “turismo industriale su larga scala”. Il libro di Abbey è un inno al deserto e alla sua dignità di luogo selvaggio che merita di essere preservato nella sua integrità contro l’invasione della civiltà consumistica. Desert solitaire è insieme un diario di esplorazioni avventurose  ed esperienze solitarie nella natura, un racconto sulla vita di cowboy e indiani, un saggio di ambientalismo radicale e una riflessione sul rapporto tra la società industriale e la natura selvaggia.

Già in prima pagina Abbey comunica immediatamente la sua passione per “il deserto di rocce lisce”… che per egli si configura come “il più bel posto sulla terra”. Abbey mostra un aspetto che ricorre in molti altri naturalisti ed esploratori americani, quello di legarsi ad un luogo in particolare piuttosto che alla natura selvaggia in generale. Così, come per John Muir il luogo preferito era idealmente la Valle dello Yosemite, con Abbey entriamo invece negli scenari maestosi e desolati di canyon e archi di pietra.  “Ogni uomo, ogni donna, porta dentro di sé l’immagine di un posto ideale, quello giusto, la sua vera casa, conosciuta o sconosciuta, reale o immaginaria (…) Per quanto mi riguarda scelgo Moab, nello Utah. Non intendo la città in se stessa,  naturalmente, ma il territorio che la circonda - la terra dei canyon. Il deserto di rocce lisce. La polvere rossa e le rupi bruciate e il cielo solitario, tutto ciò che si trova aldilà della fine delle strade.” La propensione che questo luogo ispira ad Abbey è quella di un’immersione totale nella natura primordiale del deserto, di un contatto diretto e vissuto in solitudine, cercato non solo per evadere dal caos della civiltà urbana, “ma anche per confrontarmi, immediatamente e direttamente se sarà possibile, con gli elementi primi dell’esistenza, con il primordiale e il fondamentale, con la solida base che ci sostiene”... con una natura denudata delle categorizzazioni umane in cui “l’io nudo si mischia a un mondo che non è umano e che tuttavia, in qualche modo, sopravvive incontaminato, individuale, separato.” Un mondo che non tutti riescono a capire e che pertanto cercano di ridurre e “addomesticare” a dimensioni e categorie umane: anche perché forse, come suggerisce Abbey, questo mondo “spaventa non per i suoi pericoli e per la sua ostilità, ma per qualcosa di molto peggio, per la sua implacabile indifferenza”. Il territorio degli Arches per Abbey rimanda alla consapevolezza del “meraviglioso”,  dimensione reale, tangibile, così diversa dagli spazi in cui l’uomo vive abitualmente ma facilmente a portata di mano,  se  la si sa comprendere. “Un oggetto naturale strano, bello e fantastico come Delicate Arch ha la curiosa abilità di farci ricordare - lo stesso avviene con la roccia, la luce del sole, il vento e i paesaggi selvaggi - che laggiù c’è un mondo diverso, di gran lunga più vecchio, più grande e più profondo di quello in cui viviamo (…) Per un po’ siamo di nuovo capaci di vedere, così come vede il bambino, un mondo di meraviglie”. 
 Per Abbey il vero Paradiso è in terra, “se solo avessimo occhi per vederlo”... ed è l’unico Paradiso di cui abbiamo bisogno. 
Il mondo selvaggio, nella sua vastità, ridimensiona la necessità umana di vivere in società e seppure la solitudine conduca a momenti di sofferenza  (“ ci sono ore in cui ci si sente soli. Come posso negarlo?”), nella wilderness sembrano allentarsi i vincoli che ci  legano al mondo civile; la solitudine diventa così la via privilegiata per “ritrovare se stessi”: “ma in mezzo a tale estensione era impossibile pensare ad Albuquerque. Tutte le cose umane si mischiavano con il cielo e scomparivano oltre le montagne e sentivo, come sento ancora - che un uomo non può mai trovare, né avere bisogno di, compagnia migliore di quella di se stesso”. Abbey aggiunge anche che “meglio della solitudine, l’unica cosa meglio della solitudine, è la società”. Abbey riflette proprio sul rapporto tra natura e società, non rifiutando la società in sé, anche perché società non si identifica solo con il frastuono delle città e con tutte le limitazioni e imposizioni subite dai singoli, ma anche e soprattutto con “la convivenza umana in generale. Io intendo la compagnia di un amico o di più amici o di una donna affettuosa”. Per Abbey inoltre, lo stesso sentimento di amore per il selvaggio non è estraneo alla "civiltà": "come potrei essere contro la civiltà se tutto quello che difendo e venero come me stesso - incluso l'amore per la natura allo stato primitivo - è compreso in quel termine?" La questione non è porsi contro l'umanità, la teconologia e la scienza in sè, ma contro "la mania dell'uomo di considerarsi al centro dell'universo, all'antropocentrismo, all'opinione che il mondo esiste unicamente a suo beneficio; non avevo nulla contro la scienza, ma contro la scienza applicata male".  Abbey in un passo contrapporrà Civiltà contro Cultura, intendendo il termine civiltà in un'accezione positiva: "Civiltà è la forza vitale della storia umana; cultura è quell'inerte massa di istituzioni ed organizzazioni che si accumula intorno al progresso vitale e tende a farlo retrocedere..." . Si può dire in sostanza che la Civiltà, per Abbey, racchiuda ogni spinta critica e libertaria dell'individuo tesa a a resistere e far valere le proprie ragioni contro il "potere".
 L'uomo vive dunque in società, l’uomo è un “animale gregario” ma non si può accettare, per Abbey, che egli abbia bisogno  di vivere sempre a distanza ravvicinata con gli altri per sentirsi al sicuro. Altrimenti gli uomini dovrebbero essere equiparati agli ungulati, ad un “gregge di pecore”. E se non si può accettare questo, per vivere autenticamente come uomini  è allora necessario che esistano i luoghi selvaggi. Ecco così che la natura diventa una necessità imprescindibile per l’uomo... "vitale per le nostre esistenze come l'acqua e il buon pane" . Per Abbey abbiamo bisogno dei luoghi selvaggi anche se non entreremo mai in contatto con essi. L’importante però è che quella possibilità sia garantita a tutti. 
“Abbiamo bisogno di un rifugio anche se non ce ne serviremo mai. E’ possibile, per esempio, che durante la mia vita io non vada mai in Alaska, ma sono grato che sia lì. Abbiamo bisogno della possibilità di fuggire così come non possiamo sicuramente fare a meno di sperare…”. Abbey arriva anche a prospettare la funzione “politica” che i luoghi selvaggi potrebbero un giorno detenere, nel caso fosse necessario fuggire da regimi oppressivi ed autoritari: una tesi un bel po’ fantasiosa ma che in fin dei conti ha un fondo di verità... basti pensare, come dice Abbey riferendosi a Vietnam e Cuba, agli eserciti guerriglieri che "nei luoghi selvaggi hanno avuto la loro base logistica per la resistenza al potere centralizzato". 
La wilderness diventa uno spazio-limite,  “altro”, estraneo alle categorizzazioni della civiltà e per questa stessa ragione luogo di libertà per l’individuo che vuole ritrovare il contatto con gli elementi primordiali del mondo in cui vive. Abbey è uno spirito anarchico e ribelle, e sembra annoverare la distruzione e addomesticamento dei luoghi selvaggi come una delle tante manifestazioni del potere totalizzante della moderna “civiltà industriale”. In effetti questo libro di Abbey appare un po’ come il canto del cigno di un' area selvaggia che sta quasi per scomparire. E’ Abbey stesso a dirlo nell’introduzione: “la maggior parte delle cose di cui parlo in questo libro è già scomparsa o sta scomparendo in fretta. Questa non è una guida di viaggio, ma un’elegia. Una commemorazione. Avete in mano una pietra tombale”. I luoghi di cui parla Abbey in Deserto solitario cominciarono a subire l’invasione del turismo di massa e dell’industrializzazione. Nel territorio degli Arches verranno costruiti parcheggi e strade asfaltate per favorire il turismo di massa, mentre il corso del fiume Colorado sarà ostacolato dall'enorme diga di Glen Canyon. Un capitolo del libro (Giù per il fiume)  è proprio dedicato al racconto del trekking in canoa compiuto da Abbey assieme ad un suo amico, lungo le meraviglie del corso del Colorado. “Il mondo del canyon diventa ogni ora più bello, man mano che ci avviciniamo alla sua fine. Crediamo di aver dimenticato ma  non possiamo dimenticare - la coscienza alloggia come lo stronzio nel midollo delle nostre ossa - che per il Glen Canyon è stata pronunciata la condanna a morte”.

Nel capitolo “Una polemica”, Abbey farà il punto sulla gestione della natura nei parchi nazonali dell’epoca. Egli sottolinea come le politiche dei parchi siano dirette a mercificare i territori selvaggi, aprendoli a quello che egli chiama “turismo su scala industriale”. Il turismo di massa comporta la costruzione di strade asfaltate con parcheggi, biglietterie e sentieri attrezzati: tutte cose che sviliscono, deturpano e offendono la bellezza monumentale degli Arches. E i soldi per costruire strade asfaltate, dice Abbey,  saltano sempre fuori, mentre magari non esistono per il personale atto a garantire i servizi informativi e protettivi nel parco. Abbey non è un integralista e pone come alternativa un turismo diverso, che non comprometta l’ambiente integro dei luoghi selvaggi. Nel libro, Abbey faceva proposte concrete, che argomentava in alcuni punti: “1. Niente più automobili nei parchi nazionali. Che la gente cammini. O vada a cavallo, in bicicletta, a dorso di mulo, di cinghiale - qualsiasi cosa- purchè lascino fuori automobili e motociclette e qualsiasi altro veicolo a motore (…) 2. Nessuna strada nuova nei parchi nazionali (…) Dove ci sono già strade asfaltate quelle saranno riservate alle biciclette e ai mezzi necessari per espletare i servizi essenziali dentro i parchi, come i bus navetta…(…) 3. Mettere al lavoro i ranger (…) la gente avrà bisogno di guide. Ci sarà sempre una minoranza avventurosa ansiosa di procedere da sola, e nessuno dovrebbe porre ostacoli al suo cammino; che tutti si assumino i propri rischi, per l’amor di Dio, che si perdano, che si buschino qualche insolazione, che vaghino sperduti, che anneghino, che siano mangiati dagli orsi, sepolti vivi sotto le valanghe; sono tutti diritti e privilegi di ogni americano libero. Ma gli altri, la maggioranza, in gran parte nuovi a queste attività all’aria aperta, avranno bisogno di assistenza e la richiederanno, insieme a un’adeguata istruzione e guida (…) Oltre a questo tipo di aiuto pratico il ranger sarà anche un po’ naturalista, in grado di edificare il gruppo che gli è affidato con la storia umana e naturale della zona, nei dettagli e a grandi linee”. Gli ammonimenti e le proposte di Abbey suonano terribilmente attuali ancora oggi, a quarant’anni di distanza, perché i problemi che egli sollevava in questo libro non sono scomparsi nei parchi nazionali, dell’Italia e del mondo. Con tutta la sua lungimiranza,  l’amore e passione per la natura selvaggia, il suo irriducibile spirito libertario e anarchico, ma anche la sua ironia e simpatia, Abbey ci ricorda che per vivere autenticamente da “uomini” non possiamo non prendere a cuore il grido d’aiuto della natura che risuona dovunque anche oggi (per chi riesce a sentirlo) nelle ultime aree incontaminate del pianeta…



venerdì 3 dicembre 2010

Un vagabondo nella wilderness - John Muir, "La mia prima estate sulla Sierra" (Vivalda edizioni)


John Muir in contemplazione. sotto: panorama di Yosemite, in una foto di Ansel Adams;
Muir assieme al presidente Roosvelt; Muir da giovane; cartina della John Muir Wilderness Area, in California; francobollo americano con John Muir.




"Mai, per quanto stanco, cadrà lungo la via colui che ha avuto la grazia di un giorno di montagna; quale che sia il suo destino, lunga o breve la vita che gli è data in sorte, tempestosa o quieta, egli è ricco per sempre."

"Qui non v'è affanno nè ora vuota; non v'è timore del passato, nè cura del futuro. Questi monti benedetti sono così colmi della bellezza di Dio che non v'è spazio per le nostre meschine speranze ed esperienze personali."
(John Muir)

John Muir, di origini scozzesi, emigrato all'età di undici anni in America, dopo aver fatto  innumerevoli mestieri, nel 1869, all'età di trentuno anni,  partì "in cammino con un gregge di pecore" per le montagne della Sierra, facendosi impiegare come aiuto-pastore. Non avendo un soldo in tasca, Muir trovò così il modo per raggiungere quello che desiderava: vagabondare nella wilderness alla ricerca della "bellezza". 
Muir è il prototipo del "Tramp": "...parola cara alla tradizione americana: evoca grandi spazi e uomini che li percorrono a piedi - una tradizione, letteraria e non, che dai primi pionieri arriva fino ai poeti beat di questo secolo" (dall'introduzione). Lo spirito del "Tramp" è ben esemplificato in questa frase di Muir: "buttare una manciata di foglie di tè e un po' di pane in un vecchio sacco e saltare il cancelletto del giardino di casa".
Il libro "My first summer in the Sierra", si rifà proprio al diario che Muir tenne giorno dopo giorno nel periodo del suo vagabondare tra le montagne dello Yosemite. 

Grande è l'abilità descrittiva di Muir, che con dovizia di particolari, riporta osservazioni dettagliate su piante fiori e animali incontrati nel corso del suo vagabondare. 
Ma, seppure egli mostri grandi doti di naturalista (ne sono un esempio le osservazioni sull'origine glaciale della Valle di Yosemite),  l'approccio di Muir è quello del "mistico", del contemplatore della natura, dell'uomo che ricerca lo stupore che la wilderness è capace di infondere nell'animo umano con le sue meraviglie; Muir è un escursionsita instancabile e non si fa scappare nessuna occasione per lasciare il gregge di pecore e partire solitario all'esplorazione di montagne, valli e cascate. Come afferma Paola Mazzarelli nell'introduzione: "dietro il naturalista che minuziosamente, anche pedantemente riporta particolari, affiora il mistico cui l'esperienza del tutto offre l'estasi". L’esaltazione per la bellezza della natura e per la visione dei suoi scenari maestosi ripercorre un po’ tutte le pagine del libro. Ecco alcuni dei tanti passaggi riferiti alle emozioni suscitate in Muir dalla visione della valle dello Yosemite; stati d’animo in cui si potrà ritrovare chiunque abbia vissuto personalmente l’euforia e la gioia suscitati dal contatto con gli scenari selvaggi…
 “Mai mi sono trovato dinanzi a tanto impotente spettacolo, a tanta illimitata profusione di sublime bellezza montana. A chi non abbia almeno una volta ammirato un simile panorama con i propri occhi nessuna descrizione, per quanto elaborata, potrà comunicare neppure un’idea della grandiosità e spiritualità che da questa veduta emana. In un empito di irrefrenabile entusiasmo urlo e gesticolo, con grande meraviglia del San Bernardo Carlo...”

“Ogni volta, ritiratomi da quei punti di osservazione entusiasta della veduta, mi dico: ‘Ora basta, non tornerò più sul ciglio’. Ma che può il consiglio della cautela di fronte allo spettacolo di Yosemite? Sedotto dall’incantesimo il corpo va dove più gli s’aggrada, mosso da una volontà sulla quale apparentemente abbiamo poco potere”.
Muir richiama la sacralità della natura selvaggia, e in più occasioni  userà termini come “templi” e “cattedrali” con riferimento ai luoghi selvaggi. “Non stupisce che monti e boschi siano stati i primi templi di Dio; più li si taglia e li si abbatte per costruire chiese e cattedrali più lontano e opaco appare il Signore. La stessa cosa si può dire per i templi di pietra…”
Muir, sebbene occidentale, era un uomo lungimirante, che andava oltre la mentalità dominante della sua epoca (caratterizzata proprio dalla febbre della conquista del West, per il “progresso della civiltà”), perchè già aveva compreso l’importanza di pensare alla natura come a qualcosa che detenesse un “valore in sé”; indipendentemente dal suo uso per fini utilitaristi e per il soddisfacimento, invece, dei bisogni emotivi dell’uomo. “Come tante altre cose la cui utilità all’uomo non è evidente, questa pianta ha pochi amici e si sente spesso ripetere l’ottusa domanda ‘Perché è stata creata?’. Non viene mai in mente a nessuno che forse è stata creata innanzi tutto per se stessa”. Il “valore in sé” della natura rimanda a quella concezione fiolosofica che ha poi costituito la base fondamentale del movimento conservazionista americano, di cui Muir fu uno dei primi pionieri. Un uomo lungimirante dicevamo, che aveva già intuito gli aspetti consumistici del modaiolo turismo cittadino, che all’epoca cominciava a invadere l'immacolata Valle di Yosemite. Muir vede il turista benestante come un individuo che quasi non riesce ad apprezzare la bellezza dei posti che visita, preoccupato com’è delle pratiche sportive in cui è impegnato. “Pare strano che i turisti in visita a Yosemite siano così poco commossi da tanta inusitata grandiosità, quasi avessero gli occhi bendati e le orecchie tappate (…) Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di verme su pezzi di filo di ferro ricurvi, allo scopo di catturare trote. Questa attività chiamano sport".
Muir è  anche così sensibile dal lamentarsi più volte del devastante calpestio del gregge nelle valli fiorite dello Yosemite, che lui stesso accompagna!
 Forse si può unicamente rimproverare a Muir la scarsa considerazione con cui egli valuta i  nativi americani in alcune pagine, visti come non “più naturali” dei bianchi civilizzati, e di cui non sopporta la “sporcizia” (è sicuramente da considerare l'impatto che la civiltà dei bianchi ebbe sulle abitudini degli indiani).  Muir comunque ammetterà anche che: “forse se li conoscessi meglio li apprezzerei di più”. Ma non si potrà certo accusare Muir di discriminazione, visto che altrove è cosciente della perfetta armonia dell’indiano con il resto della natura, in contrasto con l’uomo bianco, che per Muir lascia dovunque segni distruttivi. “Gli indiani hanno il passo leggero e feriscono il paesaggio poco più degli uccelli e degli scoiattoli; le loro capanne di fronde e corteccia durano più o meno quanto i nidi delle arvicole e anche i loro monumenti più durevoli svaniscono in un paio di secoli tranne le tracce lasciate nella foresta dagli incendi…”

Il diario di viaggio di Muir è anche una descrizione avventurosa della rude vita dei montanari, per niente idilliaca, di pastori che vivono in solitudine, “instupiditi dalla fatica” e  dagli abiti così sporchi da formare una stratificazione di interesse quasi “geologico”; di situazioni in cui il pane scarseggia e lo si sogna la notte. E poi vi sono gli attraversamenti del gregge dei torrenti e le incursioni degli orsi nella notte, e i bivacchi notturni all’aria aperta sotto la luce della luna.
E’ a Muir che si deve la designazione delle prime aree protette in America. Come afferma la curatrice del libro nell’introduzione: “ lo schivo amante della wilderness dedicherà gli ultimi quindici anni della sua vita a combattere per la creazione di aree protette. Tutti i parchi americani i stituiti in quegli anni, a cominciare da quello di Yosemite, devono la loro esistenza in gran parte alla sua opera”. Muir condurrà la sua battaglia contro gli interessi di speculatori, industriali e allevatori che minacceranno la distruzione dei grandi santuari della wilderness americana.
Muir è uno dei “grandi padri” del Movimento Wilderness; in lui i quattro poli della fiolosofia wilderness: l’ esperienza nella natura selvaggia, il sentimento, la conoscenza scientifica e la lotta per la conservazione si intersecano, nel suo contributo culturale e umano da egli dato alla comprensione e conservazione della natura selvaggia.

venerdì 12 novembre 2010

Uno studioso nel Tibet ignoto - Giuseppe Tucci, "Il paese delle donne dai molti mariti"

"...lo sprone della scienza secondava in me una nativa volontà d'evasione, un istintivo amore della libertà e dello spazio, il capriccio del fantasticare e del sognare che lo si soddisfa lontano dall'umano consorzio, quando si è soli fra la terra e il cielo, oggi qui domani là in un paesaggio quotidianamente nuovo, tra gente nuova ma radicata dappertutto su questa terra antica..."
(Giuseppe Tucci)


Giuseppe Tucci, al centro 

immagini sottostanti: pastori nomadi in Himalaya, eremo di Milarepa, il Monte Kailash, dvinità del Kailash in un'immagine sacra, maschera demoniaca buddista

Giuseppe Tucci, come qualche studente di filosofia e letterature orientali saprà, è considerato uno dei massimi studiosi di lingue e culture orientali del nostro paese, fondatore nel 1933 dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente e organizzatore di numerose spedizioni in Tibet, Nepal, Pakistan e Afganistan, dagli anni '30 agli anni '50, che ottennero numerosi risultati scientifici. Il libro che mi appresto a presentare non è però un testo scientifico, in quanto raccoglie numerosi articoli di viaggio che apparvero su alcune riviste dell'epoca. "Il paese delle donne dai molti mariti" (Neri Pozza 2005) raccoglie appunto quelli che erano, come dice il curatore dell'opera, "articoli anche corposi, accompagnati da fotografie stupende di cui non avremmo saputo nulla se fossero rimasti negli archivi (...) Leggendoli la prima volta ci ronzava ancora per la testa quella qualifica di "divulgativi" adoperata in Italia fino a non molti anni fa dai baroni del potere accademico per boicottare tutte le forme di sapere che non passassero attraverso loro (...) Un intreccio unico di dottrina, passione ed empito visionario che aveva il ritmo delle carovane così amate dal professore: un lento, meraviglioso e quasi incantato avvicinamento a un mondo agli antipodi di quello occidentale, che veniva svelato vallata dopo vallata finchè la carovana non aveva raggiunto il passo..." In effetti in questo libro si parla molto di montagna, di carovane e di viaggi alla scoperta dei remoti paesaggi e delle antiche culture dell'Himalaya. Natura e Cultura vanno così di pari passo: accanto ai resoconti di culture, tradizioni, popoli incontrati nelle sue spedizioni, v'è anche la descrizione della vita nomade a contatto con la natura  selvaggia e misteriosa degli altipiani del Tibet.  Un'opera non diretta esclusivamente agli eruditi in storia delle filosofie orientali dunque, ma un libro di viaggi  che può stare nella biblioteca di qualsiasi appassionato di montagna, che sia cosciente dell'importanza dei segni dell'uomo, e delle culture che si sono sviluppate tra i popoli delle "alte quote".

Un libro che raccoglie scritti che vanno dagli anni '30 agli anni '50, ma che forse risulterà molto più avvincente di tante recenti opere di avventurieri sulle moderne spedizioni nell' Himalaya. Più che fare una sintesi, attraverso le mie parole, del contenuto di questo interessante (e forse poco conosciuto) libro, ne parlerò riportando stralci dagli articoli in esso contenuti.

Evocative sono le pagine in cui Tucci si sofferma sul significato profondo della vita errabonda lungo le piste, come in uno scritto del 1956, Vita Nomade :


Ma quando avete una carovana tutto è diverso; vi sentite padroni del mondo (...) oggi qui domani non sapete dove, dove c'è erba e acqua e dove vi incanta la bellezza dei luoghi, la maggior delizia per il poeta che in fondo a noi, se non siamo divenuti come i bruti torpidi e sprovveduti, sempre vigila e sogna. Soltanto allora trovate e godete la libertà, non quella di cui tutti oggi parlano ed è sempre soggezione, perchè libertà nel vivere consociato vuol dire soltanto piegarsi alle consuetudini o alla volontà della maggioranza e della forza, o quel consenso con l'opinione comune che significa di fatto non avere la propria: e non c'è nessun arzigogolo filosofico che mi abbia mai persuaso del contrario; perchè libertà è quella dell'uomo che parla con le stelle e contempla le montagne che si aprono al sorriso dell'alba e allora rivelano le loro resistenze e debolezze, o ascolta quella musica della natura che già commosse i filosofi della Cina antica...

e ancora sul significato della solitudine per il viaggiatore:

Voi sapete che a molti la solitudine, a lungo andare, riesce intollerabile e più di un viaggiatore ho incontrato che s'affrettava a tornare indietro preso quasi da vertigine innanzi a quelle voragini di silenzio e di deserto. Non a me; anzi vi dico subito che la solitudine mi è apparsa la miglior consigliera ed amica: estingue le diffidenze, i sospetti, quello stato di allarme continuo che, nella vita consociata, per la necessità della difesa e della vigilanza, rendono l'uomo guardingo: la vita all'aria aperta, fra gli alberi o le rocce, sotto il sole o lo stupore freddo della luna, restituisce all'uomo una serenità innocente.

Il ritorno agli archetipi della vita nomade era per Tucci anche dovuto alla presenza, in quei luoghi, di un'umanità "diversa":

... i ricordi più belli della mia vita sono quelli delle mie spedizioni, forse perchè alla sorpresa delle scoperte è commisto questo senso di ritorno alle origini: ed anche il ritrovarsi in mezzo ad un'umanità più semplice, più dolce, meno disposta all'offesa o all'inganno se non qualche volta, sulle prime, ostile, perchè sospettosa dello straniero, dei suoi modi, delle sue intenzioni; delle sue stranezze e soprattutto della sua abituale mancanza di rispetto per le tradizioni, i culti, gli dei suoi.

L'uomo del Tibet era segnato nella personalità dalla vastità della natura, che lo sovrastava ponendolo in un'atmosfera irreale, quasi onirica per il predominio assoluto di paesaggi che avvolgono continuamente l'uomo, con risvolti sul relativo adattamento culturale. Ecco come Tucci parla del Tibet nell'articolo "Il paese delle donne dai molti mariti":

Qui da noi il centro di tutto è l'uomo, e ogni cosa ci parla delle opere dell'uomo: di questo titano che in ardimenti demiurgici ha scatenato una tremenda battaglia contro la natura e le sue forze. Là nel Tibet è proprio il contrario: gli uomini sono scarsi, piccole comunità, spesso nomadi, che non hanno nessuna aderenza alla terra: e non potrebbero averla, tanto aspro è il clima e così restio a dare. Essi si piegano ai voleri della natura e non la contrastano: e se qualche volta vogliono allontanare certi aspetti che ad essi nuocciono, non ricorrono nè ad opere nè a macchine, ma a formule insegnate loro da santi e asceti: con quelle guidano, coartano e dominano gli ascosi poteri che essi immaginano regolino coscienti gli avvenimenti naturali.


 ...i tibetani hanno virtù innegabili. Frugali tanto che sembra quasi impossibile come in uno dei climi più duri della terra possano vivere con quel pochissimo che mangiano: farina di orzo impastato con acqua, una orribile mistura di infuso di tè, mescolato con soda, burro e sale, e, d'inverno, un po' di albicocche secche importate dal Ladak o dalle province meno alte: carne quasi mai e neppure verdure.


Tucci nei suoi resoconti non idealizza la vita religiosa del Tibet, che a quell'epoca, secondo le conoscenze dello studioso, avrebbe invece perso la gloria mistica e la ricchezza spirituale del passato.

La vita monacale, i grandi monasteri non sono più centro di vita spirituale come lo furono un tempo: il senso religioso della vita, l'ardore mistico, le ebrezze della fede stanno diventando cose rare anche nelle scuole monastiche del Tibet: fare il frate è un comodo sistema di risolvere il problema della vita. I conventi sono ricchi: d'inverno ci fa caldo, la fatica è poca e il prete è rispettato e temuto.

La vita religiosa del Tibet sembra coincidere per Tucci con le grandi tradizioni del misticismo, materializzatesi nei templi e nei monumenti sacri, sparsi per quelle lande desolate, un tempo grandi centri di vita spirituale. Come documentava Tucci, ancora non erano però del tutto scomparse le manifestazioni dell'antico e originario ascetismo:

vive ancora, fuori dai templi, nei piccoli romitori, negli eremi sperduti fra i monti, gente che si fa murare per dodici anni in una grotta e non fa altro che meditare, estrarre dal proprio corpo capacità e forze che a noi sembrerebbero miracolo, assoggettare il meccanismo del respiro ad acrobazie portentose che portano a strani domini delle funzioni fisiologiche e a sviluppi insospettati della vita cosciente (...) è proprio in queste figure che vive, non ancora fiaccata, la grande anima del Tibet, quel suo senso sacro delle cose, quella sua intuizione dell'unità fondamentale dell'essere e del pensare, dell'operare e del conoscere che ne fecero uno dei popoli più intimamente religiosi della terra.

Ma, per tornare al significato che aveva (ha) la natura e la montagna nelle culture dell'Himalaya, è opportuno citare alcuni stralci ripresi dalle più belle pagine del libro, quelle relative ad una delle montagne più famose dell'intera catena himalayana, il Kailash, una stupenda piramide di 6600 metri, sacra sia agli induisti che ai buhddisti, nota in Tibet come Karinpocè, "gemma del ghiaccio". E' da ricordare, come aneddoto della storia dell'alpinismo, l'esperienza di Reinhold Messner fatta a proposito di questa montagna (e raccontata nel suo 13 specchi della mia anima): il grande alpinista aveva deciso di scalarla, ma poi capì che quella montagna inviolata era sacra per le popolazioni dell'Himalaya; così Messner si "accontentò" di partecipare alla percorrenza del circuito ad anello della montagna,  assieme alle carovane dei pellegrini. Con umiltà e saggezza il grande eroe di tutti gli ottomila della terra, girò attorno alla montagna assieme ai pellegrini e al lago Marasarovar, partecipando seppur da straniero e da occidentale, ad una scalata forse più importante: quella dell'elevazione interiore.

Per Tucci:


il culto della montagna è elemento fondamentale nelle religioni di tutte le stirpi himalayane: ed è naturale, proprio perchè i montanari sono i più sensibili alle ineffabili bellezze di queste cime che toccano il cielo, e ne temono le insidie, e ne conoscono la terrifica maestà quando la tempesta si scatena sui dirupi, e il tuono urla di giogo in giogo, e i fulmini scoppiano sulle guglie mai violate dall'uomo.

 Così Tucci descrive il suo suggestivo  incontro con il Kailash:

io di montagne ne ho viste e ne ho scalate tante, che debbo essere creduto quando affermo che il Kailasha esercita su chi lo vede per la prima volta profilarsi all'orizzonte un'impressione di superba bellezza che non si può dimenticare. E si comprende che i pellegrini indiani, che affluivano dalle pianure attraverso le aspre giogaie himalayane, piegassero le ginocchia alla prima vista di questa montagna e la celebrassero come dimora dei loro dei.

In questo resoconto (Il Kailasha) Tucci scrive pagine di rara bellezza, sia nella descrizione della natura del posto che in quella dei momenti del pellegrinaggio...

Il cono adamantino del Kailasha si scopre per la prima volta da una ripido costone che separa il lago Manosarovar dal Raksas-tal: si vede lo scintillare della cima superba sotto un cielo di turchese, quasi solitaria vedetta fra un lento ondeggiare di altri giganti che fuggono verso nord in un indefinito susseguirsi di guglie e picchi. Visibile d amolti punti del Manosarovar, a Barka appare in tutta la sua magnificenza: Barka è una casa in mezzo ad accampamenti di pastori e di nomadi, sulla pianura che si protende immensa come una landa sconfinata; una sterpaglia folta e, vicino ai laghi e ai fiumi, pasture verdi dànno a questa distesa, che s'allarga a quasi cinquemila metri di altezza in mezzo a deserti rocciosi e dirupi selvaggi, un aspetto di sereno pascolo nostrano.


La pista sale su un costone che raggiunge i 5800 metri e che, dal nome della dea della salvazione cui è consacrato, è conosciuto come il "Dolmala"(Passo di Dolma). Su mucchi di sassi accatastati i pellegrini hanno piantato dei pali, hanno steso sulla cima una corda, e sulla corda hanno appeso banderuole di stoffa colorata, sulla quale sono stampate, con inchiostri neri o rossi, formule e preghiere. Il vento le agita, e chi ha appeso quelle banderuole alla corda è come se recitasse le preghiere ad ogni soffio d'aria che spira. L'ascesa di questa strada aspra e lunga è anch'essa un simbolo: simbolo della disciplina della vita, che prepara le beatitudini del nirvana. (...) Nello spirito di questa gente, in cui profondo è il senso religioso e connaturato il ragionare per simboli, nell'ascesa della montagna sacra si ripete quasi il dramma della vita. E solo quando il Passo del Dolma sia raggiunto con questa fede, la fatica dell'ascesa diventa purificazione dell'anima.




La grandezza del libro non si esaurisce nei resoconti delle esplorazioni di Tucci, in quanto gran parte dei vari resoconti si incentrano su argomenti come l'arte sacra del Tibet e il senso stesso della religiosità e filosofia buddiste tibetane; argomenti complessi che però possono essere, seppur debolmente per il profano, penetrati grazie alla capacità divulgativa dello studioso. Ecco, per fare un esempio come Tucci ci illumina sul significato profondo delle immagini sacre tibetane:

Ma fatti animo, interroga i monaci, leggi le scritture sacre e vedrai quelle immagine svanire, quegli dei dissolversi e questa religione che ti sembrava un polidemonismo esagerato svuotarsi per incanto dei suoi idoli, la fantasmagoria di figure sacre sparire, come le nebbie della notte alla prima luce dell'alba,  e la policromia dei mostri danzanti dileguare in un vuoto incolore e scialbo. Gli dei allora non ci sono più; quest'olimpo orgiastico o lugubre cede il posto ad una religione senza dei, anzi senza Dio, ad una contemplazione serena del vuoto, alla rivelazione di una luce implacabile, impassibile, abbagliante nel cui splendore immoto tutto si smarrisce e si scioglie come il sale nell'acqua. E ti ritrovi solo, tu che sei tutto; perchè tu sei quella luce; non più persona caduca con le sue limitazioni, il suo quotidiano soffrire e sperare, ma la  tua individualità irriducibile nella sua quintessenziale purezza. Quando la religione dissolve pure gli dei l'uomo è meno ancora che il sogno di un'ombra; come l'immagine della luna sul tremulo specchio d'acqua. Il tibetano vive  e muore nella certezza che il vero non è nelle cose che vede, in quelle che lo spaventano e lo turbano, lo fascinano e lo illudono, ma proprio in quel nulla che alita come un soffio ghiacciato ogni aspetto del mondo. E se gli domandi cosa c'è in fondo a questo mistero dell'universo, ti risponderà sempre: tompagnì, il vuoto, il nulla; tutti, dal sacerdote al carovaniere, dal principe al contadino. Anche gli dei dunque possono essere fatti di burro, perchè il vuoto del divenire tutto trascina e cancella (...) Bisogna arrivarci poco a poco, per una scala che ha molti gradini; e i gradini sono questi dei, queste immagini, questi simboli che nei primi momenti della nostra educazione spirituale prendiamo per veri e reali, eppoi, a poco a poco affinandosi la nostra nuda purità, vedremo dileguare come fuoco nel burro.