Oltre l'approccio sportivo: l'escursione come esperienza per avvicinarsi al mistero e alla bellezza della natura - sulla cresta nord-ovest del Monte Pollino - foto by Indio
“Riuscite
a vedere quello che vedo io?”
(dal film
Into the Wild, di Sean Penn)
L’uno di febbraio. Vedo
in televisione l’ultima tragedia in montagna. Una valanga travolge due
alpinisti cittadini.
Mi colpiscono molto le immagini di una
parte del paesaggio del Gran Sasso
mostrate in TV. Impianti di risalita che hanno squarciato un tratto della
foresta. Cemento e ferro dappertutto. Il soccorso alpino che va a rischiare la
pelle per rimuovere i corpi dei due poveri alpinisti. E’ una storia che si
ripete, all’infinito. Ho sempre riflettuto, anche perché li pratico, sugli
sport di montagna, sui loro obiettivi e sul loro rapporto con l’ambiente
montano. Ne ho discusso con amici e conoscenti, scontrandomi anche con punti di
vista opposti ai miei. Da queste
riflessioni ho buttato giù, senza un destinatario preciso, quest’articolo, che
è il mio modo di comunicare agli altri cos’è per me la montagna e come vorrei
che gli altri la vedessero. O meglio, vorrei tanto che gli altri vedessero
quello che io penso di essere riuscito a vedere …
Si
può concepire il trekking come sport
fine a se stesso? Ecco, questo è il punto da cui voglio partire per una
riflessione sul rapporto tra l’escursionista e l’ambiente naturale della
montagna.
Lo
sport si sa, implica dei record, delle vittorie, delle performance. La
mentalità sportiva di certo ha a che fare volenti o nolenti con la montagna, in
quanto l’escursionismo e l’alpinismo implicano una serie di tecniche ed
attrezzature per affrontare cime e pareti. Comportano lo sforzo, l’allenamento. In particolare
l’alpinismo contempera la preparazione atletica volta ad affrontare ore e ore
di lunghe salite, l’accuratezza delle tecniche e dei movimenti della
progressione su neve e ghiaccio, o quelli che interessano l’arrampicata su
roccia. La domanda che mi pongo è questa: si può avere unicamente un approccio sportivo alla montagna? La montagna può
essere considerata solamente una "palestra naturale" per le nostre performance? E
se l’escursionismo viene considerato uno sport, in questo sport si vince davvero
qualcosa?
Bisogna
partire da un fatto: la rincorsa smodata al record, alla sfida, al
raggiungimento della cima a tutti i costi o la scalata di pareti impossibili, l’accanimento nello spostare il limite sempre più in avanti fanno parte
della storia dell’alpinismo e hanno seminato tra gli alpinisti una competizione
che ha anche prodotto atteggiamenti meschini, bugie e rancori di ogni sorta. Io le chiamo “miserie
dell’alpinismo”. Basti pensare alle falsità e alle recriminazioni che
accompagnarono la scalata del Cerro Torre in Patagonia, a cui Messner ha
dedicato un libro ultimamente. Per citare Mauro Corona spesso lo stasus degli
alpinisti diventa quello di “narcisisti”, ovvero di atleti che mettono avanti soprattutto la loro vanagloria personale e la collezione di imprese
sempre più difficili. Alla fine se si pensa solo a se stessi e alla scalata non
si fa altro che perdere di vista... proprio la montagna! Non è solo una questione
filosofica esente da conseguenze pratiche. Perché la ricerca smodata del
superamento del limite ha purtroppo avuto (ed ha tutt’ora) come conseguenza, anche
la perdita di migliaia e migliaia di
vite umane. Gli sport della montagna hanno avuto una diffusione di massa e da
ciò che si legge nelle cronache dei quotidiani sembra sia subentrato quasi un
approccio “nevrotico” alla montagna: si vedono tanti individui improvvisarsi alpinisti senza che abbiano conoscenza
ed esperienza dell’ambiente alpino o appenninico. Spesso sono cittadini che
cercano sfogo dall’alienazione metropolitana fuggendo sulle cime. E si vede di
solito come terminano le cose: gite e scalate improvvisate che vanno purtroppo
a finire in tragedia.
Ma
vengo alla domanda a cui voglio rispondere. Con quale approccio dovremo vivere
la montagna? E’ una domanda che faccio anche a me stesso: sono il primo a fare
autocritica, perché anch’io ho commesso degli errori facendomi abbindolare a
volte dalla ricerca della sfida e della
performance a tutti i costi.
Sono
la conquista della cima, la tecnica, la
competizione le cose più importanti oppure c’è qualcos’altro che nella montagna
vale la pena di sperimentare? Parto da un’osservazione. L’escursione su un
sentiero che conduce alla base di una cima viene detto nel gergo alpinistico “avvicinamento”,
un concetto base dell’alpinismo ma che io ritengo banalizzi parecchio la realtà della montagna ... Un sentiero, che
per arrivare alla base di una parete attraversi una foresta selvaggia con
alberi secolari, può valere più della scalata alla cima,
indipendentemente dalla scarsa difficoltà che può presentare! Percorrerlo non rappresenta
solo un “avvicinamento”, ma un’esperienza che può suscitare in noi profonde
sensazioni. Ecco che arriviamo ad un punto chiave della questione: se lo scopo
sia la difficoltà fine a se stessa o, come
io invece sostengo, se la difficoltà
della salita sia in realtà solo un mezzo
per scoprire la bellezza di alcuni angoli incantati e selvaggi della montagna… se
sia un mezzo cioè per entrare in sintonia con la natura.
Se consideriamo questo concetto l’escursione
può diventare interessante e capace di suscitare emozioni intense anche se
stiamo percorrendo quel comodo sentiero cui
facevo cenno sopra, che attraversa una immensa foresta di faggi e abeti: lungo il suo percorso possiamo sentire per
esempio lo scrosciare dei torrenti di montagna… se siamo fortunati incontreremo
il piccolo scoiattolo meridionale che si arrampicherà furtivo per sfuggire alla
nostra vista; ecco il cielo che diventa nuvoloso, si approssima un temporale e
la foresta diventa scura, tenebrosa… direi misteriosa; ma magari rispunta il
sole e mentre stiamo al tramonto la luce rossastra filtra tra gli alberi
facendo brillare le loro foglie; e se ci sorprende il buio potremo ammirare la
vota del cielo stellato, o la luna che fa capolino sulla foresta. Ecco, sono
anche queste, sensazioni belle da provare, oltre a quelle indubbiamente sublimi
della scalata della vetta... e sono queste emozioni che a mio avviso danno senso
all’escursione…
Queste
considerazioni sono importanti, perché si dà così valore alla montagna nel suo complesso, non solo all’
“altitudine” delle vette. La stessa cima
non ha valore perché arrivando a 2000 o
3000 o 4000 metri abbiamo vinto o conquistato
qualcosa (ho sempre trovato ridicole in proposito le bandiere poste sulle
cime dopo una scalata!). L'ascesa di una difficile cresta ghiacciata ad esempio, ha valore non
perché ci conduca alla cima tra mille difficoltà, ma per ciò che proviamo lungo
il percorso della cresta; per quello che vediamo, che ascoltiamo; per la
bellezza misteriosa e selvaggia che si rivela in questi momenti, per la
sensazione che si prova di essere soli alla mercè delle grandi forze della natura…
Lo dico per esperienza: lungo le faticose ascese invernali al Pollino non è la
mia performance che mi interessa, non è dimostrare a qualcuno di essere un
“duro”, ma il poter entrare in sintonia
con la dimensione selvaggia della nostra montagna, con la sua solitudine, il suo silenzio, il suo ambiente primordiale.
In parole povere con ciò che gli americani chiamano wilderness. Sono queste le cose che ci rendono ricchi
interiormente: poter ammirare i tesori naturalistici di una montagna non
oltraggiata dai segni dell’uomo, poterla vivere in libertà e in silenzio, senza
mete prefissate, senza catalogazioni, classificazioni o cifre... Certo, anche
la conoscenza tecnico-scientifica è
importante, ma non dev' essere una mania. Quando vado in montagna non voglio pensare ai
numeri, non mi interessa il valore numerico di un dislivello o di una cima… Se dovessi ragionare come molti alpinisti
ossessionati unicamente di arrivare sulle cime di 7000 o 8000 metri
delle Ande o dell'Himalaya dovrei considerare il Pollino, le cui
cime superano appena i duemila metri, un massiccio quasi insignificante. Ma
ragionando diversamente io considero il Pollino la montagna più bella, perché è la “mia” montagna… e non la scambierei con nessun’ altra.
Perché su questa montagna io sono vissuto
e qui sono vissuti i miei padri, l’ho scoperta a poco a poco fin da bambino ed ho avuto la
fortuna di poter ammirare i suoi angoli più suggestivi e selvaggi, sulle
cime come negli anfratti più nascosti della foresta.
Ciò che
vale è la continua scoperta della natura, quello che la natura ci permette di
poter vedere e ascoltare. Ciò che mi interessa è carpire il senso di un luogo
selvaggio, è confrontarmi con la multevole varietà della montagna nel corso
delle stagioni, con la ricchezza di forme, di colori, di ambienti e di
atmosfere… In montagna voglio sfidare me
stesso e i miei limiti fisici certo, ma voglio anche stupirmi di fronte alla
bellezza della natura, voglio poter sorridere e voglio potermi commuovere. No,
la montagna non si identifica solo con cime o pareti. La montagna è più di questo
e va oltre concetti come tecnica, record, difficoltà… va oltre le
categorizzazioni sportive. E la montagna è “vera” quando non è piegata alle
necessità, alle stravaganze e alle comodità del turista. Quando è se stessa,
quando non è addomesticata, quando non è
svilita, quando si rispetta la sua natura, che è poi fondamentalmente la sua dimensione selvaggia. Ecco perché ad un
approccio basato sulla “conquista” della montagna ne preferisco uno che faccia
leva sulla pura contemplazione, che privilegi una “via interiore”… “Pensare come una montagna” diceva Aldo
Leopold. E’ necessario vedere la complessità della montagna. Tutta la vita che
pullula e che si perpetua in simbiosi con la forza degli elementi: animali
selvaggi, insetti, fiori, piante rare, alberi, rocce e gole scavate da
torrenti, paesaggi geologici con le loro forme uniche… Tutto questo è "montagna".
Per
capirci i miei maestri non saranno mai quegli alpinisti che hanno conquistato
tutti gli ottomila della terra ma montanari come Mauro Corona o Giorgio
Braschi, che hanno esplorato le “loro” montagne cercando di sentire quell’anima che, come dice lo stesso Braschi,
si può recepire solo nelle atmosfere di particolari momenti. Coloro i quali, aggiungo, che oltre a vivere la montagna si sono prodigati per
proteggerla e tutelarne i suoi immensi
tesori naturali. Ma non solo. Se avete letto qualche libro di Mauro Corona noterete
che egli racconta le storie di boscaioli,
pastori, massaie e contadini… E’ importante infatti considerare la cultura
della montagna. Non si può infatti dissociare la montagna dall’ aspetto culturale, ovvero dalle
tradizioni e dalla storia delle comunità locali che in montagna hanno da sempre
vissuto e lavorato. La montagna è
inseparabile dai montanari, da coloro che pur tra tante avversità
continuano a vivere nelle sue valli. E bisogna anche preservare sempre la memoria dei
nostri avi. Ecco allora che un semplice sentiero nei boschi oppure il rudere di
un ovile di pastori acquistano valore anche per essere dei muti testimoni della vita delle generazioni passate,
di contadini, cacciatori e pastori; di uomini come di donne…
Un'altra questione va sollevata. L’approccio
meramente sportivo o atletico ha a mio avviso causato un sacco di danni anche
allo stesso ambiente naturale della montagna. E purtroppo Pollino a parte,
montagna (per fortuna) ancora salvaguardata nella sua dimensione selvaggia e
incontaminata, molte altre montagne italiane sono state piegate alle esigenze
dello sport di massa. E mi riferisco
alla proliferazione dei rifugi d’alta quota, la costruzione di strade asfaltate,
gli impianti di risalita, funivie e piste da sci, alberghi e strutture
ricettive tipicamente urbane piene di borghesucci (modello Cortina per
intenderci), sentieri ipersegnalati con bollini e numeri dappertutto, con
informazioni dettagliatissime riguardanti lunghezza e difficoltà dei percorsi…
La cosa sconcertante è che tutto ciò sia stato permesso anche nei Parchi
Nazionali, cioè in quelle aree montane di cui era stata designata la tutela
proprio per preservarne gli immensi tesori naturalistici e paesaggistici… Lo spirito conservazionista con cui alcune
montagne italiane si volevano tutelare è stato spesso soverchiato dalle
esigenze economicistiche del turista sportivo, dello sciatore portato in cima
con l’ausilio della ferraglia, dell’alpinista che vuole solo arrivare alla base
della cima, magari in funivia, per poterla
poi scalare e “conquistare”.
Concludo esortando gli amici del Pollino che
seguono il mio blog e che io ammiro tanto, di adoperarsi sempre per la difesa e la salvaguardia del
Pollino: questa è la “nostra” montagna, diventiamone i suoi custodi gelosi e
non permettiamo mai per nessuna ragione che venga offesa, danneggiata o
banalizzata!
Indio
Vincenzo A.:
RispondiEliminaNon posso che condividere in pieno: tecnica e primati non hanno nulla a che vedere con la concezione spirituale di cui la montagna è una splendida incarnazione.
Bellissime riflessioni.
Grazie!
Io da scout non posso che dire che l'importante non è la meta, ma il cammino, non è la conquista del punto più alto ma il come ci si arriva.
RispondiEliminaDa scout vorrei che i sentieri del Pollino fossero segnati, perchè quello non sarebbe piegare la montagna all'esigenza dello sport di massa, ma un modo per agevolare chi viene da lontano e, puntualmente, si perde perchè non è molto avvezzo alle carte - che tra l'altro non sono neanche aggiornate. Ora questo forse non ha nulla a che fare con ciò di cui parlavi tu, ma mi pare essenziale promuoverlo 'sto Pollino, non per la massa ma per chi della montagna carpisce il vero spirito.
Sono daccordissimo con te, Giulia! Anch'io mi sono sempre lamentato per la non manutenzione e non segnalazione dei sentieri. I sentieri rappresentano un patrimonio culturale e vanno mantenuti efficienti... Mi riferivo all'ipersegnalazione. Quello che vlevo dire era solo non piegare la montagna alle esigenze del turista: nel senso che non bisogna pensare che al turismo tutto si possa sacrificare; per intenderci io pensavo più che altro alle pressioni che si creano nei parchi per la costruzione di impianti di risalita e strutture in cemento in alta quota...Poi se un turista se ne va a piedi per i fatti suoi che male c'è!
RispondiEliminaUn caro saluto, indio
perfettamente d'accordo ... ciao ciao
RispondiEliminaanche per me la bellezza della montagna è insita nella sua capacità di suscitare emozioni legate alla dimensione spirituale e rabbrividisco all'idea del suo utilizzo come strumento per il turismo di massa. Penso che chi ama gli sport di montagna, e non avventurieri da settimana bianca che vanno a sciare perchè fa moda, entri nella magia emozionale di cui parli. Tuttavia ritengo che la tutela della natura, la realizzazizione dell'equilibrio, passi per una sua valorizzazione, naturalmente eco compatibile.
RispondiEliminaCerto, Viaggio nel Pollino, anche la valorizzazione è importante. Il mio articolo voleva essere più che altro una riflessione generale sullo sport in montagna e sull'alpinismo... sul tipo di turismo praticabile nei parchi si apre un capitolo a parte. Rimanendo nel campo del turismo sportivo le linee guida della fruizione della natura sul Pollino erano state già tracciate da Giorgio Braschi nel suo Sui Sentieri del Pollino, dove si individuavano gli sport che permettevano di avvicinarsi alla wilderness del nostro parco, rifiutandone però la dimensione fine a se stessa (nel senso di sciare tanto per sciare ad esempio..): escursionismo, trekking di più giorni con tenda, canyoning, scialpinismo, alpinismo facile su ghiaccio e neve. Dopo si sono aggiunti i percorsi su mountain bike, che offre sul Pollino possibilità davvero enormi e sottovalutate, e parlo da biker che ha fatto percorsi meravigliosi! Si sono aggiunti il rafting e l'arrampicata sportiva nelle falesie a bassa quota, come a PetreLisce, che sarò lieto di affrontare quest'estate... Sono questi gli sport che in un discorso riferito al turismo, con le dovute accortezze e controlli, sono ecocompatibili sul Pollino. Accortezze e controlli significano in concreto: adeguata manutenzione dei sentieri senza stravolgimenti; maggiore ricorso alla conoscenza e all'esperienza delle guide ufficiali, per i turisti (così questi ultimi non si perdono e non fanno danni), servizi di vigilanza (guardia parco... solo da noi non esistono); divieto di costruzione di ulteriori infrastrutture turistiche in alta montagna: basta imbrattare, facciamo funzionare i rifugi già esistenti, coinvolgiamo i paesini e le frazioni nell'ospitalità ai turisti, aggiustiamo le strade provinciali. Invece del turismo modaiolo promuoviamo anche il tursmo culturale. Tu stesso hai parlato delle grotte rupestri: là un bel sentiero con dei tabelloni che valorizzino la storia di quei posti non sarebbe male...!
RispondiEliminaindio
Caro Indio non c’è che dire ti trovo molto ispirato…ahahahahah…battuta a parte non posso che concordare con te e con Giulia.
RispondiEliminaForse siamo noi uomini a dare un’anima alle montagne.
Andiamo tutti alla ricerca della spiritualità attraverso la montagna, i nostri blog ne sono una testimonianza. In molti però vedono nella montagna un modo per mettersi in mostra, parlano di battaglia, di sfida, di impresa, di exploit da raccontare agli amici al bar o alle amiche che tutte eccitate pensano di avere davanti chissà quale super-uomo. Voglio dire, se io mi cimento in qualcosa di rischioso e difficile vuol dire che io non ho paura, che sono sicuro di me, che sono coraggioso. Tutto è da ricercare nel mondo in cui viviamo, nella società attuale che guarda molto all’apparenza ma pochissimo all’interiorità. Purtroppo si insegue ciò che non costa niente. La montagna invece è sudore, fatica, ricerca di se stessi. Ciò fa paura alle giovani generazioni che sono nate al grido del “tutto e subito”. Queste giovani generazioni che ormai hanno tutto ma non sono contente di niente.
Per me la montagna è sempre stato un mezzo per misurarmi, un trampolino per salire sempre più in alto e guardare dentro me stesso. Forse la montagna, come la intendiamo noi, è una risorsa da insegnare: storia e cultura. Beh…propongo Indio come rettore dell’Università del Pollino. Bravo caro amico…bravo davvero.
Be' Caro Nuwanda, che dire, tu sei sicuramente più di me un escursionista che segue sempre la "via interiore alla montagna"... e questo lo si deduce da ciò che scrivi nel tuo blog. Noi "pollinesiani" ci differenziamo. E forse i sentimenti che abbiamo è la stessa nostra montagna che li fa emergere, con la sua bellezza che ci sa dare sempre nuove emozioni. Qualcuno potrebbe considerare riflessioni del genere troppo filosofiche... ma io credo che siamo sulla strada giusta; la sola che può generare input positivi che in futuro potranno generare risorse e creatività per la rinascita e lo sviluppo della nostra bella e (purtroppo) martoriata terra...
RispondiEliminaIndio
Lo sport estremo, "l’accanimento nello spostare il limite sempre più in avanti" non è poi così diverso dal cieco impulso consumistico. In entrambi i casi, si è alla ricerca di ciò che non si ha - ricerca per la quale si rischia di smarrirsi (o di perdere la vita, nel caso dell'alpinismo) e di non apprezzare ciò che è già a portata del nostro apprezzamento. Godersi la natura "qui e ora" è contentarsi di ciò che si possiede, è smettere di essere assillati dal desiderio - spesso indotto - di ciò che manca.
RispondiElimina