venerdì 25 maggio 2007

Grizzly Man - Werner Herzog

Grizzly Man è il capolavoro tra i documentari del regista Werner Herzog. E' anche un esempio di come il documentario possa ergersi al livello di genere cinematografico a sè stante, dotato di piena qualità e dignità artistica. Grizzly Man risulta un capolavoro anche e forse soprattutto rispetto alla realizzazione tecnica, essendo stilisticamente perfetto. Il documentario è incentrato sulla figura del naturalista Timothy Treadwell, il quale passò tredici estati in una parte incontaminata dell'Alaska, per studiare e filmare la vita degli orsi grizzly . La sua vicenda finirà tragicamente, perché verrà sbranato assieme alla ragazza proprio da quegli orsi che lui amava tanto. Herzog ripropone nel suo documentario molte scene tratte dalle oltre 100 ore di filmati realizzati da Treadwell nel corso della sua permanenza nella terra dei grizzly. Grizzly Man si impone subito come una profonda riflessione sulla natura selvaggia e sugli uomini che la amano e che vogliono rifugiarsi in essa fuggendo la misera realtà del mondo civilizzato. Si comprende subito che Treadwell in realtà più che un naturalista rigoroso è un sognatore, un anti-eroe che detesta il mondo civile e che cerca di essere accolto dalla "comunità" degli orsi, tentando di diventare loro amico. Le immagini più frequenti di Treadwell sono quelle in cui lui parla alla telecamera a pochi metri dagli orsi grizzly o quelle relative ai suoi tentativi di avvicinarsi agli orsi quasi per toccarli. Treadwell non cerca, da come si evince nella maggior parte delle scene, di filmare la vita degli orsi da osservatore esterno, ma di raccontare nelle immagini la "sua" interazione con questi animali, il rapporto empatico che intrattiene con loro e con altri animali come le volpi (stupende e commomenti le immagini delle volpi che corrono e giocano con Treadwell). Anche la motivazione che spinge Treadwell a a stare tanto tempo con gli orsi è piuttosto ambigua: Treadwell pensa di assolvere un grande compito, che è quello di difendere gli orsi dai bracconieri; motivazione futile in quanto, da come si nota dalle interviste ad alcuni ecologisti, l'orso grizzly non è minacciato e vive libero nei parchi nazionali. Come giustamente gli ecologisti fanno notare, gli orsi vanno studiati a distanza e senza avvicinarli; anche perchè sono animali che possono diventare estremamente pericolosi. Ma Treadwell non bada a tutto questo, proprio perchè non è uno scienziato ma un sognatore, un amante della natura che paradossalmente non fa che andare "contro natura".Treadwell vorrebbe vedere nella natura solo il bene, solo l'armonia; di sicuro non è però un ingenuo e riconosce di essere costantemente in pericolo , di correre il rischio di venire sbranato dagli orsi e lo dice ad alta voce in più occasioni . Ma questa coscienza non supera la volontà di credere nell' illusione di una natura che possa mostrarsi miracolosamente benigna( vicina cioè ai canoni di ciò che noi uomini consideriamo "bene"), che venga incontro ai nostri sogni. Treadwell non riesce ad accettare la morte di un orsetto ad opera di un maschio adulto della stessa specie; invoca rabbioso Dio (anche se è ateo) di far piovere, perchè altrimenti gli orsi con il letto dei torrenti a secco non potranno pescare i salmoni e patiranno quindi la fame; piange e si dispera quando trova, dopo il ritorno nella terra degli orsi alcuni animali morti per la fame e la siccità, in un'atmosfera di desolazione e di morte. Treadwell sembra ostinarsi a non voler accettare che la natura, come invece dice Herzog, sia "caos, conflitto e morte" e non armonia. Si potrebbe dire che in natura in realtà c'è un'armonia, ma la conflittualità, la lotta per la sopravvivenza, sono alla base dei cicli naturali di quel sistema complesso dove ogni elemento interagisce con un altro fino a formare una specie di "ordine". Treadwell sembra costantemente non volere accettare tutto ciò. Treadwell è un utopista, un eroe folle che oltrepassa i limiti imposti proprio dalle leggi inesorabili della natura. E' un sogno che accomuna tutti quelli che vogliono fuggire, anche se per breve tempo, dalle regole imposte dalla cività e confrontarsi con le leggi ben più ferree della natura per interagire con gli elementinaturali e assistere agli spettacoli che il wild ci regala. Desiderare la wilderness significa seguire i nostri istinti primordiali che ci conducolo inevitabilmente al contatto con la terra, con la vita selvaggia di animali e piante: una dimensione "altra" che, come diceva Treadwell ci fa sentire liberi e partecipi dello splendore del mondo... La natura non è nè buona nè cattiva e noi dobbiamo avvicinarci ad essa con timore e rispetto, consapevoli del fatto che oltrepassare i suoi limiti potrebbe significare la morte per noi. Ma questo è un discorso razionale ed era compreso solo in minima parte per Treadwell. Timothy TreadWell era consapevole dei rischi che correva, ma era una consapevolezza effimera, che non lo fermava, che non lo conduceva ad avere paura... Se c'è una cosa che a Treadwell non mancava era proprio il coraggio, un coraggio ai limiti della follia. Trweadwell si configura così come uno dei tanti anti-eroi del cinema di Werner Herzog, uomini folli che sfidano se stessi, spinti ad agire da formidabili sogni; uomini "diversi" e proprio per questo autenticamente "umani", dotati di una sensibilità del tutto particolare e seguiti dall'ombra della sconfitta, che si staglia inesorabilmente sulle loro illusioni...

lunedì 14 maggio 2007

The White Diamond - Werner Herzog

Esistono uomini che hanno un grande sogno nella loro vita e, nonostante le sconfitte, le delusioni e le rinunce e a volte persino le tragedie, lo perseguono con caparbietà (che sfiora la follia) per tutta la loro vita. E' il caso dell'ingegnere Dorrington, che, innamorato del volo e della natura ha l'obiettivo di volare con un piccolo dirigibile su una parte incontaminata della foresta amazzonica, sfiorando la nebbia che avvolge le cime dei suoi maestosi alberi. Dorrington ha fatto già un tentativo una volta, accompagnato dal regista Dieter Place, il cui colmpito era di filmare l'impresa. Il tentativo finisce in tragedia perchè il piccolo dirigibile si sfracella e il regista muore precipitando da un albero tra i cui rami i resti del veivolo erano rimasti impigliati. Il senso di colpa dell'ingegnere per quella tragedia pervade tutto il film...ma non ci si può arrendere, nonostante il rimorso e la sconfitta. Così l'ingegnere ritenta il volo, accompagnato dal grande regista Werner Herzog. Dopo vari tentativi infruttuosi alla fine il volo riesce. "Era come se mi trovassi in paradiso" dice Dorrington "è stato bellissimo, se chiudo gli occhi ancora mi sembra di stare volando". E' un minatore detto Barbarossa , che partecipa alla spedizione, a dare il nome di Diamante Bianco al piccolo dirigibile che vola basso e senza far rumore sulla foresta, un uomo solo e un saggio conoscitore della foresta e dei suoi segreti, come le proprietà officinali di alcune piante. Stupende sono le immagini del film, come quelle dell'altissima cascata, su cui si gettano roteando centinaia di migliaia di rondoni. Dietro di essa si nasconde una caverna nella quale questi uccelli fanno il loro nido, che rappresenta il loro inviolabile regno segreto. Bellissime le immagini degli stormi di rondoni che volano intorno alla cascata e quelle riprese dal dirigibile... una foresta immensa... le nuvole che la avvolgono e che diradandosi lasciano intravedere le cime maestose degli enormi alberi. "Sembrava di essere in paradiso" dice Dorrington, un paradiso reale, presente qui sulla terra, e che le forze cieche dell'economia di mercato stanno distruggendo, giorno dopo giorno, lentamente ma inesorabilmente... Senza luoghi così suggestivi non si potranno nemmeno aver sogni come quello dell'ingegnere Dorrington, e senza sogni che ci elevino dalle miserie della vita quotidiana, la vita appare molto più banale e insensata...

mercoledì 2 maggio 2007

Diario - 13 aprile 2007

foto by Indio
Mare di nubi - Scalata di Serra del Prete
Da casa mia posso osservare molto bene questa montagna. La veduta col binocolo della sua cima innevata e la ripida salita per arrivare in vetta non possono che spingere a voler fare una bella scalata... A Colle Impiso c'è ancora parecchia neve. Dato che la temperatura è mite la neve è marcia. Le mie racchette sono perciò d'obbligo. Il sentiero è segnalato bene, per cui arrivo facilmente al crinale seguendo il quale si arriva in vetta. Il crinale è coperto dalla fitta faggeta fino ad un certo punto. Usciti dal bosco inizia la salita spettacolare che condurrà fino in vetta. La neve si presenta più consistente sul terreno scoperto dagli alberi. La salita è abbastanza faticosa, e segue il cornicione di neve che siè formato lungo il crinale. Se la neve fosse ghiacciata credo proprio che le racchette servirebbero a poco. Ci vorrebbero ramponi e picozza. In queste condizioni questo tratto potrebbe ben definirsi "alpinistico". Un piede dopo l'altro e la cima si avvicina. Di fronte a me si erge maestoso il Monte Pollino, il vero dio di questo olimpo della natura... Raggiungo la cima dopo circa tre ore, segnalata da un bastone in mezzo ad un mucchio di pietre. Sono a 2127 metri. Appena raggiunta la sommità ecco subito uno spettacolo da mozzare il fiato: sotto di me, a sud, si estende un vero e proprio mare di nubi. Io sono sopra di loro... Il loro orizzonte sembra sconfinato. Un altro piccolo spettacolo è rappresentato da centinaia di coccinelle ammucchiate sulle pietre che segnalano la cima. Che ci faranno là così in tante? Mi riposo un pò e mangio la mia colazione composta come al solito da fichi secchi, biscotti e cioccolata. Sarebbe bello seguire il crinale sud , che scende a Gaudolino, ma ci vuole tempo e devo rispettare gli orari. Seguo la pista dell'andata ripercorrendo le mie tracce. Levo le racchette, perchè in discesa sono scomode, usando solo gli scarponi e poggiando il piede sui gradini scavati dalle racchette all'andata. Mi lascio così alle spalle la cima della montagna, con quella splendida visione, quel mare di nubi sospeso nel cielo...

martedì 17 aprile 2007

Diario - 07 aprile 2007

foto by Indio
Un mare di neve - escursione a Serra delle ciavole
Un’escursione sulla neve è sempre faticosa. Il tempo impiegato per arrivare sulle cime raddoppia o quasi. Parto perciò prima dell’alba con la lampada frontale, anche se quasi non ce ne sarebbe bisogno visto che la luna piena illumina la stradina… Camminare al buio da solo mette sempre un po’ di soggezione. Forse quella del buio è una paura atavica o forse, ancora più plausibile, l’uomo contemporaneo si è disabituato all’oscurità, visto che è ormai avvezzo a vivere in città perennemente illuminate. Non incontro nessun animale selvatico; sento ogni tanto il rumore degli uccelli tra i rami dell’albero che ancora stanno dormendo, spaventati dalla mia presenza. Prendo la strada per il Piano di Jannace , nei pressi di Acquatremola. Comincia ad albeggiare quando arrivo al pianoro di San Francesco. Ho la luna di fronte e nuvole rossastre nella direzione dove sorge il sole. Davanti a me, lontani, i pini loricati di Serra Crispo, avvolti nella nebbia che avvolge i crinali delle montagne all’alba. La neve comincia via via ad ingombrare la strada forestale. Metto le ciaspole ai piedi e comincio a salire. Gli occhiali da sole in giornate di sole con la neve sono obbligatori. Piano Jannace è immerso nella neve. Fotografo le strane linee parallele che si sono formate sul bianchissimo manto nevoso. Arrivo alfine al Piano di Toscano. Qui la neve è ancora ghiacciata, quindi si sale senza difficoltà. Le racchette hanno anche i ramponi e perciò sono adatte anche ai pendii ripidi. I Piani di Pollino sembrano un mare di neve… in alcuni punti la neve arriva anche a un metro e mezzo. Prendo il sentiero che sale alla Serra delle Ciavole. Dato che è sommerso dalla neve riconosco di alcuni pini loricati che fanno da riferimento. I pini più in alto sono ancora pieni di neve e di ghiaccio… ricordano vagamente i coralli del mare. Seguo la cresta e arrivo alla cima. Mangio un po’ di fichi secchi e di cioccolata, cibi che danno molta energia. La sommità della serra è pianeggiante per un certo tratto poi, cominciano ad ergersi delle rocce rotonde attorniati da pini loricati secchi, che formano una visione molto suggestiva. Proseguo per un po’ nel seguire la cresta e fotografo i pini accasciati a terra che hanno assunto tale forma a causa del vento impetuoso delle creste. Lungo la cresta allungata di Serra delle Ciavole la neve ha formato delle cornici molto alte. Se andassi sopra di esse la neve non reggerebbe il mio peso e precipiterei giù per centinaia di metri. In questi casi bisogna stare attenti perché la neve ricopre tutto e spesso non si sa cosa c’è sotto. E’ ora di scendere, giù, per tornare ai piani di Pollino. I pendii sono ripidi e trovo difficoltà con le racchette a scendere, ma senza di esse sarebbe ancora peggio. Ai piani incontro dei giovani sciatori e un escursionista solitario come me che si dirige verso la Grande Porta. Avverto i primi segni di stanchezza. La neve col sole è diventata marcia e si sprofonda di più. Qui si che siamo davvero immersi nella natura e nel suo silenzio... altro che piste ed impianti di risalita! Proseguo per i boschi di faggio e abete. Ormai il pensiero è solo quello di arrivare a casa, perché sono molto stanco. Esco dal bosco di faggio e abete. Il paesaggio attorno al Monte Pilato è tutto segnato dal corso dei torrenti che discendono a valle e che portando giù la neve disciolta delle cime, di quel “mare di neve” che scomparirà con la fine della primavera…

martedì 3 aprile 2007

Un recupero della sacralità della natura

Per chi è appassionato di montagna e di natura in generale, sarà successo a volte, nelle proprie escursioni a contatto della natura selvaggia di avere la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di sublime e di elevato, che va oltre i semplici canoni di giudizio estetico con cui guardiamo e “ritagliamo” parte della natura, in base ai nostri modelli culturali. Forse è un dato di fatto che popoli e culture diverse nel tempo e nello spazio hanno sempre guardato con soggezione e con un senso di rispetto a montagne, rocce, colline. Basti pensare alle montagn sacre dei Tibetani secondo i quali “le montagne sacre sono i dei del paese o i signori del luogo; sono considerate ora i pilastri del cielo ora i pioli della terra”; basta pensare all’inviolata Kailash, considerata la montagna più sacra del Tibet, alla quale viene dedicato ogni anno un pellegrinaggio che si snoda attorno ad essa… La società occidentale capitalistica assume qualsiasi cosa in termini economicistici. Il lavoratore ad esempio non è un individuo con un suo mondo interiore e con le sue potenzialità creative, ma un mezzo da utilizzare nella produzione, da sfruttare e che comporti il minor costo possibile. Così anche l’ambiente naturale, il quale non è guardato come qualcosa che ha un valore in sé, ma come una risorsa da utilizzare comunque in qualche maniera. Il paradosso è che anche la salvaguardia dell’ambiente e la creazione dei Parchi Nazionali se vista solo come occasione per sfruttare l’ambiente dal punto di vista turistico può portare a conseguenze nefaste: nel tentativo di voler valorizzare l’ambiente così lo si può anche deturpare. Esempi di questo atteggiamento ne abbiamo tanti. In molte aree delle Alpi l’ambiente alpino originario è stato abbruttito e cementificato con alberghi, strade e impianti di risalita, secondo quello che viene definito dai sociologi “urbanizzazione della montagna”. La montagna non è più tale, perché per essere fruibile da certa gente bisogna trasferire su di essa tutte le comodità della città. Così c’è bisogno dell’impianto di risalita, della funivia, della strada che porta all’impianto sciistico, perché la gente non vuole camminare, dell’albergo a cinque stelle d’alta quota, perché il turista dei tempi moderni non si accontenta dell’alberghetto dei paesini di montagna o del rifugio costruito con pietre e travi di legno. Ovviamente ci sono molte altre zone d'Italia dove le montagne non hanno fatto questa tragica fine. Ma anche nei parchi nazionali spesso ha luogo la costruzione di strutture finalizzate ad attrarre i turisti che alla fine non fanno altro che deturpare i paesaggi originari delle montagne. Spesso si sente parlare di valorizzazione. Ma questo termine può avere significati assai diversi, con le rispettive implicazioni e conseguenze. Anche la valorizzazione ambientale ai soli fini turistici è economica. E’ ovvio che un parco nazionale debba anche creare occasioni di sviluppo economico, ma lo sviluppo deve obbligatoriamente conciliarsi con la tutela dell'ambiente. Ciò significa che bisogna anteporre innanzitutto il valore intrinseco della natura, il valore in sé, al valore prettamente economico. Chi ha interiorizzato il valore opposto a quello utilitaristico, sa che per andare in montagna non servono né impianti, né strade né funivie. Servono un paio di buone scarpe da trekking, uno zaino e una tenda, e la voglia di stare a contatto con una natura non sopraffatta dall’alterazione delle attività umane più distruttive. La questione investe il campo dei valori ed è quindi di natura culturale. In una società come la nostra, dominata dall’individualismo più sfrenato e da una cieca volontà distruttiva intrinseca al sistema socio-economico attuale, per cui ogni cosa ha un valore solo in termini economici, l’ambiente naturale è solo una “risorsa”, (termine quest’ultimo che difatti ha origine nella scienza economica). Chi come me si è trovato a fare discorsi del genere con alcune persone è stato bollato (anche a fin di bene) come un “romantico”, un “idealista”, un “sognatore”. In un’epoca circondata dallo squallore di una vita passata nel traffico e nell’affollamento delle città, dove i bambini non hanno mai visto una farfalla o uno scoiattolo, nella quale anche le vacanze sono organizzate secondo i ritmi frenetici della vita moderna, appellativi del genere non possono che rallegrarci. Tuttavia la questione non riguarda il “romanticismo” ma cose ben più concrete. Il problema dell’inquinamento oggi sta investendo tutta la società mondiale. Stiamo finalmente cominciando a capire che i ghiacciai si stanno sciogliendo ed essi non rappresentano un valore solo per qualche alpinista “romantico”, ma sono importanti per l’equilibrio del sistema climatico mondiale. Oggi l’uomo comincia a provare sulla propria pelle come qualsiasi danno fatto alla natura ricade su se stesso, sulla propria vita materiale. I popoli bollati come “primitivi” avevano capito che invece la natura va rispettata, non tanto perché rappresenta qualche divinità da onorare, ma perché noi siamo parte di essa e qualsiasi danno fatto alla natura lo facciamo a noi. Distruggere e alterare l’ambiente naturale significa poi privarci di un riferimento che è pregno di valori simbolici e culturali e che riguarda il cordone ombelicale che ci lega alla terra e agli altri esseri viventi. Come potremmo fare a meno di un paesaggio infinito fatto di montagne incontaminate, o di foreste dagli alberi secolari o della varietà di animali dai colori e dalle forme innumerevoli? Senza la natura l’uomo diviene più povero interiormente, viene slegato da quello che era il suo ambiente primordiale cioè l’ambiente in senso proprio, fatto di alberi, fiumi, animali,montagne e introdotto in un ambiente artificiale dove predomina il cemento e l’elettricità, file di auto impazzite e un cielo che di notte diventa rosso per lo smog. Il ritorno alla natura, e quindi anche ad uno stile di vita che non crei un impatto distruttivo per l’ambiente e più in armonia con i cicli naturali, rappresenta un’inversione di tendenza irrinunciabile rispetto al trend attuale della fuga nelle megalopoli del mondo, dello spreco energetico, dell’inquinamento della terra. Il riferimento alla natura rappresenta anche l’occasione di una sorta di recupero del concetto di “sacro”, proprio delle culture tribali, degli Indiani d’America e di tanti altri popoli che vivono ancora allo stato “primitivo”. Il termine è denso riferimenti alla religione e alla religiosità e quindi non va usato a vanvera. Tuttavia anche oggi “sacro” potrebbe però benissimo riferirsi ad alberi, montagne, deserti, animali, a qualcosa di animato o inanimato, degno di rispetto e ammirazione in quanto parte di questo mondo, in quanto elemento inserito nella dinamica del divenire cosmico, genuino, libero dalle alterazioni della modernità. E’un concetto che useremo in un’accezione che riguarda propriamente la natura selvaggia e pertanto è intercambiabile con quello di “sublime”, “elevato” “di un valore supremo”. E’ ovviamente un’accezione che ha implicazioni filosofiche più che religiose. Ciò a cui io penso non riguarda il soprannaturale, ma la stessa materia, gli elementi nel loro stato originario: acqua, terra, fuoco, aria…libere dalle contaminazioni umane (perchè sebbene l'uomo faccia parte della natura è anche vero ma è l'unico essere che è riuscito ad alterarla profondamente nel corso dello sviluppo della civiltà). Non si può dire che un paesaggio sia solo “bello”, perché la natura non è un’opera d’arte fissa su un muro, ma qualcosa di vivente, che cambia, si trasforma, in un cerchio ciclico che implica un perenne ritorno, il quale rappresenta la dinamica i cui si produce il mutamento attraverso le stagioni. La natura è qualcosa con cui si può venire in contatto e che può essere vista da varie prospettive. C’è stato un tempo in cui le comunità umane vivevano in armonia con la natura, sottraendole ciò che bastava per le esigenze della propria cultura. Non si può e non si deve tornare all’età della pietra, ma bisognerebbe recuperare, in modalità ovviamente diverse, proprio quel senso di rispetto e venerazione per l’ambiente naturale che caratterizzava le culture di un tempo. Gli esquimesi hanno sempre cacciato la foca, ma appena catturato un esemplare, si scusavano con lo spirito dell’animale per avere compiuto quel gesto. Si cacciavano le foche necessarie a sopravvivere.Oggi ancora c’è la caccia alle foche, organizzata secondo metodi industriali, per il profitto e la distribuzione su grossa scala. E c’è da ridere se si pensa che alcuni ambientalisti integralisti hanno lottato per impedire di cacciare le foche agli esquimesi odierni… Lo stesso esempio si può fare per il bisonte, che rischiò alla fine dell’ottocento di estinguersi, per la caccia smodata che venne praticata a quest’animale. Gli Indiani utilizzavano il bisonte come fonte di cibo e di vestiario, mentre gli occidentali prelevavano solo la pelliccia lasciando le carcasse a marcire sotto il sole della prateria. Per gli Indiani non era solo un ammasso di carne, ma un animale sacro come del resto tutti gli altri animali che popolavano i boschi e le praterie. Questi popoli avevano acquisito quella profonda coscienza del legame che ci unisce a tutti gli esseri viventi e alla terra. E’ vero che la società sta prendendo coscienza del problema dei disastri ambientali. Se ne parla tutti i giorni in tv e sui giornali. Ma non si fa nulla per cambiare le cose. Il potere economico e politico resta nelle mani di una classe di privilegiati la quale non è per nulla intenzionata a invertire la rotta disastrosa che l’umanità ha preso. Si può ribaltare la situazione solo se ritroveremo la forza di cambiare la società e ricostruire da capo su nuove basi un sistema diverso, che ci permetta di ricreare quel legame che ci lega indissolubilmente alla "Grande Madre Terra".

domenica 1 aprile 2007

Sui Sentieri del Pollino

Sui sentieri del Pollino - G. Braschi - Edizioni Il Coscile 1993 "Cercate di "sentire" la natura che vi circonda, di entrare in sintonia con le sue Grandi Forze, quelle del sole e delle nubi, del vento e delle acque, quelle pulsanti di vita del bosco e dei suoi abitanti, quelle profonde e misteriose delle rocce e della terra. Con l'abitudine e un pò d'attenzione non è difficile riuscire a percepirle. Sono tutte quelle forze sottili e grandiose al tempo stesso che gli asceti orientali chiamano "il Respiro del Cosmo". Se riuscirete a percepirle, ogni escursione diverrà fonte inesauribile di forza d'animo, libertà interiore e gioia di vivere" Giorgio Braschi E’ IL libro che dovete assolutamente leggere per iniziare a conoscere il Pollino. All’interno sono descritti una miriade di itinerari che attraversano i luoghi più suggestivi e spettacolari del massiccio. Ovviamente troverete foto splendide scattate dall’autore nelle sue innumerevoli escursioni. Il libro è poi anche un curatissimo manuale di trekking che offre utili consigli per vivere nel modo migliore le proprie escursioni sul Pollino, in tutte le stagioni...

Scorciatoia per il Nirvana

La Montagna Sacra - prof. Giacinto Bollea La montagna ha partorito il topolino? Questa è la prima (e non mediata) impressione che nasce dalla lettura di "Scorciatoia per il Nirvana" di Dario Guidi (EDT Editore. Torino). Perché bisogna dire subito che la montagna è nientemeno che il Kailash, in Tibet: e allora scriviamo Montagna (con la maiuscola) e ricordiamo almeno che essa è sacra a quattro religioni - forse anche perchè dal suo territorio nascono quattro grandi fiumi dell'Asia e forse principalmente perché intorno ad essa si può chiudere un cerchio di cammino, dunque senza essere, propriamente, alpinisti.Già queste minime considerazioni possono far presumere, forse incautamente, che un viaggio al Kailash si muti in un pellegrinaggio o equivalga in qualche modo ad esso. Incautamente perché non necessariamente un periplo intorno alla montagna, compiuto dagli occidentali, è inteso o vissuto come un pellegrinaggio, mentre questa è la regola - si direbbe assoluta - per una quantità di asiatici di ogni provenienza che vi accorrono ogni anno. Un viaggio di questa natura concede comunque, di questa montagna, un possesso che possiamo dire "territoriale" e che va oltre quello visivo senza essere alpinistico. Ci si potrebbe quindi aspettare che esso sia esperito, vissuto e "sentito", se si accetta la parola in qualche modo del tutto particolare.Ora, il libro in parola è piuttosto il resoconto "comune", ordinario, di questo viaggio, certamente, assolutamente sui generis, che non la esplicitazione di sentimenti, intuizioni - diciamo anche illuminazioni o rivelazioni? - che (sempre presumendo) da esso dovrebbero nascere, originarsi e quasi sprigionarsi. Il libro (un volumetto che si legge in due ore) descrive dunque il viaggio che, lungo una celebre quanto disagiata strada, al Kailash conduce dalla lontanissima Lhasa; il periplo della montagna non ha in esso, come tale, un particolare rilievo.Nulla esiste al mondo, come si sa, che non meriti una bibliografia: in questa, per definizione, tutto deve avere una collocazione che vorrei intendere attiva e proficua. Questo libro fa giustamente pensare, in particolare, alle infinite cose alle quali, in una prospettiva mitico-religioso-naturalistica della montagna, fatta centro del viaggio, di solito non si pensa come si dovrebbe: la povertà estrema della gente nomade dei luoghi, la sua commovente e quasi stupefacente ricerca di tutto ciò che per i ricchi viaggiatori occidentali è il nulla di un oggetto da abbandonare dopo l'uso... E poi le difficoltà, anche banalmente fisiologiche, della quota ed dell'adattamento alla medesima, la sporcizia dilagante, esplicita, quasi esibita en plein-air, dei luoghi di sosta, la ottusa, implacabile occupazione cinese tesa a distruggere, giorno per giorno. Una cultura che è unica anche per l'ambiente che, ospitandola, ha contribuito a determinarla. Lo stile del libro é, quasi corrispondentemente, semplice, quasi dimesso, scarno, di basso profilo: anche quando, ben s'intuisce, l'autore ha a che fare con luoghi e paesaggi che sono eccezionali e che scatenerebbero diversamente il concorso delle sensazioni e degli aggettivi.Si potrebbe tranquillamente concludere che ciò che si è sopra ricordato merita ampiamente un libro, e si vorrebbe anzi che questo fosso più ampio ed esauriente sotto ogni aspetto, a cominciare da tutto ciò che riguarda l'occupazione cinese e il suo futuro ormai prevedibile e quasi incombente. E tuttavia anche (o proprio) a chi questo viaggio non potrà mai compiere, il Kailah qualcosa deve concedere in termini di riflessione immaginativa ed estetico-naturalistica, e se si vuole dì suggestione mitico-religiosa. Questo, in fondo, anche perché del Kailash, non è dato sentire discorsi in termini propriamente alpinistici, essendone vietata la salita.Se ne potrebbe dunque parlare, in primo luogo, in termini dI immagine: ma non è opportuno insistere sulla "bellezza" della montagna - neppure discutibile, in verità, per quanto la parola sia notoriamente acritica - quale essa appare dalle tante fotografie che sono proposte da libri e riviste. Non mi sembra un caso, d'altra parte, che il libro in parola, privo di fotografie, non riporti il Kailash neppure in copertina. Qualche altra considerazione, allora, s'impone come per naturale conseguenza; e non può che raccogliersi, se mi si passa l'espressione, sul versante sacro della montagna. Può destare una certa - forse compiaciuta curiosità il fatto che guardiamo (più esattamente: immaginiamo di guardare!) la montagna con gli occhi dei pellegrini (o dei viaggiatori) e non con quelli degli alpinisti, cosa che concede, forse, un certo privilegio nei confronti di questi ultimi. Non si può certo dire che sarà sempre così - si pensa in primo luogo, per esempio, ai cinesi, ma s'intuisce subito, lungo questa strada, in che cosa può consistere, che cosa può significare una profanazione: ed è appunto significativo che si senta che la cosa può valere indipendentemente dalla religione che si professa (o che non si professa).Ma proprio in questo senso, a dire il vero, si urta contro una difficoltà apparentemente insuperabile: la sacralità si esperisce (o si comunica) con il rito e con la parola, qui si cammina ritualmente per giorni intorno alla montagna, si recitano fiumi di preghiere e si lasciano innumerevoli "bandierine di preghiera" al valico più elevato del periplo: ma di queste plurime preghiere, voglio dire, non abbiamo, con parole nostre, la consapevolezza di ciò che significano, di ciò a cui mirano, delle intenzionalità che esprimono.Si può ovviamente rispondere che questa sorta di pretesa è assurda (al di là del fatto che la lingua dei pellegrini è, quasi in assoluto, ignota ai viaggiatori). Pretesa assurda, intendo (e forse anche un po' arrogante), perché sottende la riduzione di questi particolarissimi stati di coscienza degli altri ai nostri, che si nutrono di autocoscienza, come noi diciamo. Forse la presenza propria del pellegrino al quale non si può certo negare una consapevolezza, autenticamente si nutre della preghiera, affidata all'onnipresente vento e del gesto che depone al passo più alto la bandierina che reciterà al vento - e qui così essa presenza acquisisce il massimo di se stessa in un modo saziante e ottimale, che forse noi non giungiamo a comprendere pienamente. Io e montagna divinizzata (o sacralizzata) possono per così dire congiungersi, coincidere mediante un gesto di passo e di parola: altre parole sono ancora necessarie? Questa esperienza, che può essere irrinunciabile quanto poco o niente dicibile, può essere naturalmente anche collettiva: in essa il singolo deve cedere, sacrificare qualcosa di sé alla presenza degli altri, come a questi a poggiandosi nel lunghissimo cammino intorno al monte. Dice un altro viaggiatore: "Incontrerete paralitici, vecchi e bambini (...). Al termine avrete espiato i peccati della vostra esistenza, ma avrete anche vissuto un'esperienza unica al mondo." E' spiegabile dopotutto che il cerchio della perfezione si chiuda anche in una dimensione collettiva: perché la perfezione (questa perfezione) dovrebbe essere riservata al singolo? La salvezza non dev'essere comune? Sulla montagna non si può vivere, ma ci si può avvicinare al luogo degli dei, sia pure con le struggenti difficoltà che ciò comporta: e ciò è vita e vittoria, festa e liberazione, progetto e compimento, fede e santità.S'incontra qui, dunque, con ogni evidenza, qualcosa come il sacro. Non so certo definirlo e meno che mai oserei tentare di farlo in una pagina. Qualche idea sparsa, tuttavia, si può allineare. Per esempio quella che il sacro si può incontrare ed esperire prima che descrivere: che, dunque, si può vivere "sul campo" e anche insieme agli altri. Dunque esemplarmente, per quel che si vuol dire qui, partecipando a un rito, qual è in sostanza l'ascesa a una montagna o il suo periplo. Bisogna farsi pellegrini, per capire qualcosa di tutto questo? Forse ha qualche senso dire che la sacralità vissuta dagli altri può essere fatta propria (se vale l'espressione), anche se non pienamente compresa come tale, già per una forma di rispetto che è di per sé quasi partecipativo.Ora, se così difficile da accettare, più che da comprendere, una sacralità priva di dei e di religione, ci si deve conseguentemente affidare all'unica entità o realtà che può diversamente sorreggerla, la natura: qui esplicitata, esemplificata, raccolta, condensata nella montagna, in una montagna. Bella o meglio affascinante a quel che dicono anche le immagini, per la forma quasi perfetta (ricorda una piramide), per la immensa e raccolta potenza che esprime, per i ghiacci che ordinatamente la ornano.Dall'antico si onorano rocce e pietre, e le si fa partecipi della valenza generale dell'elevazione ponendole in verticale. Qui la dimensione verticale è naturale e associata a ciò che è massiccio e dunque possente, e anche calmo ed equilibrato fin nelle sue nascoste radici rocciose. Certo una montagna così, essendo uomini, non può essere, in assoluto, ignorata: non è all'apparenza selvaggia come una infinità di altre per creste, pareti e dirupi. Potrebbe invitare alla salita la vetta è una cupola regolare che, a suo modo, riposa gli sguardi e invita alla presenza. Qui furono posti gli dei e potrbbe essere bello credere che ancora vi risiedano, così che ogni altra presenza sarebbe inopportuna e insostenibile. Ma credo sia importarte riflettere che si accetta benissimo questa assenza di uomini anche se non si crede nella presenza degli dei: l'essenza della presenza sta nel suo essere pensata, anche il nostro alpinismo tradizionale riposa su questa assunzione a priori.Così, anche in questo modo - per mezzo di una montagna - natura e cultura s'incontrano: perché è proprio la montagna che può unire in modo ottimale, entrambe.

sabato 31 marzo 2007

Diario - 13 gennaio 2007

Il regno del cinghiale

Ultimamente ho fatto un’escursione a Timpa della Madonna di Pollino, il grande sperone roccioso sulla cui cima è edificato lo storico santuario mariano. La zona è ricordata per la festa della Madonna più che altro, ma offre dei percorsi di trekking spettacolari. In passato non esisteva la strada che conduce fino al santuario; al suo posto c’era un sentiero che oggi è stato recuperato, anche se la sua manutenzione lascia a desiderare. Il percorso è molto bello, perché si svolge in una zona rocciosa, percorsa da fossati e caratterizzata da dirupi rocciosi ricoperti da faggi e dal leccio sempreverde. Prendo il sentiero all’altezza del Piano del Cerro, arrivando dalla cresta che ho seguito partendo dalle rocce che sovrastano le sorgenti del Frida. Proseguo fino al rifugio e prendo il sentiero dei pellegrini che scende per andare alla base della Timpa, a Frangiosso. Ma purtroppo il sentiero ad un certo punto si interrompe. Questo è un sentiero che andrebbe recuperato, non solo perché è molto suggestivo in quanto attraversa una zona molto selvaggia, ma anche perché rappresenta un pezzo di memoria storica della vita dei contadini del Pollino, che arrivavano fin qui per chiedere grazie alla Madonna, nella speranza di una vita migliore. Non mi resta che scegliere la strada da solo, per arrivare alla base della cresta senza percorso obbligato e andarmene poi verso le sorgenti del Frida. Incontro una debole traccia, forse ciò che resta di un vecchio sentiero percorso dai pastori e inizio a seguirla. La zona è molto selvaggia; passo a lato di bastioni rocciosi verticali, procedendo in diagonale. Una vera area “wilderness” e quindi anche pericolosa. Si racconta che da queste parti un uomo in passato precipitò mentre tagliava i rami di leccio da dare al bestiame e morì sbattendo la testa su una roccia. Il terreno è tutto percorso da tracce di cinghiale, che formano delle vere e proprie rotte le quali si sovrappongono a volte a quelle del sentiero. Ho la sensazione di trovarmi in un mondo estraneo. Qui il padrone di casa è un altro. Vive in questa zona impervia in cui nessuno viene mai a disturbarlo e ha tracciato innumerevoli sentieri. Le tracce sono fresche, ed è quindi probabile che lo incontri. Ad un certo punto infatti, me lo trovo dinanzi. E’ un grosso esemplare, sicuramente un giovane maschio, dal pelame grigio chiaro. Non ho tempo di avvicinarmi per fargli una foto. Ha notato subito la mia presenza e si allontana correndo nella boscaglia. Come tutti gli animali selvatici ha paura. E dire che se volesse potrebbe farmi a brandelli. Invece scappa, impaurito da quell’essere strano che gli è sbucato di fronte. Non è difficile incontrare un cinghiale. A volte lo si può vedere anche mentre attraversa una strada provinciale. Ma fa un altro effetto, incontrarlo a casa sua, lontano dalla civiltà, nel suo “regno”…

Discorso di Capo Seattle


Questo discorso fu fatto da capo Seattle all’Assemblea Tribale del 1854, in risposta ad una offerta di acquisto che il “Grande Capo” di Washington (Douglas) fece per una vasta area di territorio indiano in cambio di una riserva per il popolo indiano. La risposta del Capo indiano Seattle rimane ancor oggi il più bello e profondo documento ecologico mai scritto!
Capo Seattle

“Il Grande Capo a Washington ci manda a dire che desidera comprare la nostra terra. Il Grande Capo ci manda anche parole di amicizia e di buona volontà. Questo è gentile da parte sua perché noi sappiamo che egli ha poco bisogno della nostra amicizia in cambio. Ma noi prenderemo in considerazione la sua offerta. Perché sappiamo che se noi non vendiamo la nostra terra l’uomo bianco può venire con i fucili e prendersela.Come è possibile comprare o vendere il cielo, il tepore della terra? L’idea è estranea a noi. Se noi non possediamo la freschezza dell’aria e lo scintillio dell’acqua sotto il sole, come potete voi comprarli?Ogni zolla di questa terra è sacra al il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ed ogni ronzio di insetti è sacro nella memoria e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che scorre nel cavo degli alberi reca con sé la memoria dell’uomo rosso.I morti dell’uomo bianco dimenticano la loro terra natale quando vanno a passeggiare tra le stelle. I nostri morti non dimenticano mai questa terra meravigliosa, perché essa è la madre dell’uomo rosso. Noi siamo parte della terra e la terra è parte di noi. I fiori profumati sono nostre sorelle; il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli; le creste rocciose, il profumo delle praterie, il calore dei pony e l’uomo, tutti appartengono alla stessa famiglia.Per questo, quando il Grande Capo di Washington ci manda a dire che vuole comprare la nostra terra, ci chiede molto. Il Grande Capo ci manda a dire che ci riserverà uno spazio ove muoverci affinché possiamo vivere confortevolmente fra di noi. Egli sarà nostro padre e noi saremo i suoi figli. Prenderemo, dunque, in considerazione la sua offerta. Ma non sarà facile. Questa terra è sacra per noi. Quest’acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non è solo acqua, è il sangue dei nostri padri. Se vi venderemo la nostra terra, dovete ricordarvi che essa è sacra e dovete insegnare ai vostri figli che essa è sacra e che ogni riflesso spirituale nell’acqua chiara dei laghi parla di avvenimenti e di ricordi nella vita del mio popolo. Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, essi ci dissetano quando abbiamo sete. I fiumi trasportano le nostre canoe e nutrono i nostri figli. Se vi venderemo le nostre terre, dovete ricordarvi ed insegnarlo ai vostri figli, che i fiumi sono i nostri e i vostri fratelli e dovete usare per essi le stesse gentilezze che usereste per un fratello.L’uomo rosso si è sempre ritirato di fronte all’uomo bianco che avanzava, come la foschia delle montagne corre prima del sole del mattino. Ma le ceneri dei nostri padri sono sacre. Le loro tombe sono suolo sacro, e così queste colline, questi alberi, questa parte di terra è per noi consacrata. Sappiamo che l’uomo bianco non comprende i nostri costumi. Per lui una parte di terra è uguale ad un’altra, perché è come uno straniero che irrompe furtivo nel cuore della notte e carpisce alla terra tutto quello che gli serve. La terra non è suo fratello ma suo nemico e quando l’ha conquistata passa oltre. Egli abbandona la tomba di suo padre dietro di sé e ciò non lo turba. Rapina la terra ai suoi figli, e non si preoccupa. La tomba di suo padre, il patrimonio dei suoi figli cadono nell’oblio. Egli tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come cose da comprare, sfruttare, vendere come si fa con le pecore o con le perline luccicanti. La sua ingordigia divorerà la terra e lascerà dietro di sé solo deserto. Io non so. I nostri modi sono diversi dai vostri. La vista delle vostre città provoca dolore agli occhi dell’uomo rosso. Ma forse ciò è perché l’uomo rosso è selvaggio e non capisce. Non c’è nessun posto silenzioso nelle città dell’uomo bianco. Nessun luogo ove percepire lo schiudersi delle gemme a primavera, o ascoltare il fruscio delle ali di un insetto. Ma forse è perché io sono un selvaggio e non comprendo. Un assordante frastuono sembra insultare le orecchie. E quale significato ha vivere in quei posti se l’uomo non può ascoltare il grido solitario del caprimulgo o il chiacchierio delle rane attorno ad uno stagno? Io sono un uomo rosso e non capisco. L’indiano preferisce il suono dolce del vento che si slancia come una freccia sulla superficie di uno stagno, e l’odore del vento reso terso dalla pioggia meridiana o profumato dal pino pignone. L’aria è preziosa per l’uomo rosso, giacché tutte le cose condividono lo stesso respiro: gli animali, gli alberi, gli uomini tutti condividono lo stesso respiro. L’uomo bianco non sembra dare importanza all’aria che respira; come un uomo in agonia da molti giorni egli è intorpidito dal puzzo. Ma se noi vi venderemo la nostra terra dovrete ricordarvi che l’aria per noi è preziosa, che l’aria condivide il suo spirito con tutto ciò che essa fa vivere. Il vento che diede il primo alito ai nostri nonni è lo stesso che raccolse il loro ultimo sospiro. E il vento deve dare anche ai nostri figli lo spirito della vita. E se noi vi venderemo la nostra terra voi la dovete custodire divisa come sacra, come un luogo dove anche l’uomo bianco può andare ad assaggiare il dolce vento che reca le fragranze della prateria. Così prenderemo in esame la tua offerta di comprare la nostra terra. Se decideremo di accettare io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà trattare gli animali di questa terra come suoi fratelli. Io sono un selvaggio e non conosco altro modo. Ho visto migliaia di carcasse di bisonti imputridire sulla prateria abbandonati dall’uomo bianco che gli ha sparato da un treno in corsa. Io sono un selvaggio e non comprendo come il “cavallo di ferro” fumante possa essere più importante del bisonte, che noi uccidiamo solo per vivere. Che cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali scomparissero, l’uomo morirebbe per la grande solitudine del suo spirito. Perché quello che accade agli animali, presto accadrà all’uomo. Tutte le cose sono collegate tra loro. Dovrete insegnare ai vostri figli che il suolo che calpestano è la cenere dei nostri nonni. Affinché i vostri figli rispettino la terra, dite loro che essa si arricchisce con la dipartita dei nostri congiunti. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri figli: che la terra è la madre di tutti noi. Tutto ciò che accade alla terra, accade ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra essi sputano se stessi. Così noi sappiamo. La terra non appartiene all’uomo; l’uomo appartiene alla terra. Così noi sappiamo. Tutte le cose sono collegate come i membri di una famiglia sono legati dallo stesso sangue. Tutte le cose sono collegate. Tutto ciò che accade alla terra accade ai figli della terra. Non è l’uomo che tesse la trama della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò che egli fa alla trama lo fa a sé stesso. Persino l’uomo bianco, il cui Dio cammina e dialoga con lui come amico con amico, non può sottrarsi al destino comune. Dopo tutto, possiamo essere fratelli. Vedremo. Una cosa noi sappiamo che forse l’uomo bianco scoprirà un giorno: il nostro Dio è lo stesso Dio. Voi forse pensate che lo possedete come volete possedere la nostra terra; ma non lo potete. Egli è il Dio dell’uomo, e la Sua misericordia è uguale per l’uomo rosso e per l’uomo bianco. La terra è a Lui preziosa e nuocere alla terra è accumulare disprezzo sul suo Creatore. Anche i bianchi passeranno, forse prima di tutte le altre tribù. Continuate a contaminare i giacigli dei vostri focolari e una notte soffocherete nei vostri stessi rifiuti. Ma nel morire risplenderete luminosamente, infiammati dalla forza del Dio che vi ha portato in questa terra e per qualche motivo speciale vi ha dato il dominio su questa terra e sull’uomo rosso. Questo destino è per noi un mistero, perché non capiamo quando tutti i bisonti vengono massacrati, i cavalli selvaggi domati, i luoghi più segreti delle foreste violati da molti uomini e la vista delle colline fiorite rovinata dai fili che parlano. Dov’è il bosco? Andato. Dov’è l’aquila? Andata. Come dire addio all’agile pony e alla caccia? E’ la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza. Così prenderemo in considerazione la tua offerta di comprare la nostra terra. Se saremo d’accordo dovrai assicurarci la riserva che ci hai promesso. Là, forse, potremo finire i nostri brevi giorni come desideriamo. Quando l’ultimo uomo rosso sarà scomparso dalla terra e la sua memoria sarà solo l’ombra di una nube attraverso la prateria, queste spiagge e queste foreste conterranno ancora gli spiriti del mio popolo. Perché essi amano questa terra, come il neonato ama il battito del cuore di sua madre. Quindi se noi vi venderemo la nostra terra amatela come noi l’abbiamo amata. Abbiatene cura come noi ne abbiamo avuta. Conservate nella vostra mente la memoria della terra come è quando la prendete. E con tutta la vostra forza, con tutta la vostra mente, con tutto il vostro cuore, preservatela per i vostri figli e amatela … come Dio ama tutti noi. Una cosa noi sappiamo. Il nostro Dio è lo stesso Dio. Questa terra è preziosa per Lui. Nemmeno l’uomo bianco può essere esonerato dal comune destino. Possiamo essere fratelli, dopo tutto. Vedremo.”

La natura nelle parole degli Indiani d'America

Io sono una roccia,ho visto la vita e la morte,ho conosciuto la fortuna, la preoccupazione e il dolore.Io vivo una vita da roccia.Sono una parte di nostra Madre, la Terra.Ho sentito battere il suo cuore sul mio,ho sentito i suoi dolori e la sua gioia. Io vivo una vita da roccia.Sono un parte di nostro Padre, il Grande Mistero.Ho sentito le sue preoccupazioni e la sua saggezza.Ho visto le sue creature, i miei fratelli,gli animali, gli uccelli, i fiumi e i venti parlanti, gli alberi,tutto quello che sta sulla Terrae tutto quello che nell'Universo è. Io sono parente delle stelle.Io posso parlare, quando conversi con mee ti ascolterò, quando parlerai.I o ti posso aiutare, quando hai bisogno di aiuto. Ma non mi ferire, perché io posso sentire, come te. Io ho la forza di guarire, eppure all'inizio tu dovrai cercarla.Forse tu pensi che io sia solo una roccia;che giace nel silenzio, sull'umido suolo. Ma io non sono questo.Io sono una parte della vita,io vivo, io aiuto coloro che mi rispettano.

(Penna d'Aquila Danzante, 1973 )

Le colline sono sempre più belle delle case di pietra.In una grande città la vita si riduce ad un'esistenza artificiale. Molti uomini sentono ancora a stento la vera terra sotto i piedi, vedono ancora appena crescere le piante, eccetto che in vasi di fiori, e solo di rado lasciano dietro di sé le luci delle strade, per lasciar agire su di loro la magia di un cielo notturno cosparso di stelle. Quando gli uomini vivono così lontano da tutto quello che il Grande Spirito ha creato, allora dimenticano facilmente le sue leggi.

(Tatanga Mani)

I vecchi dakota erano saggi. Loro sapevano che il cuore di un essere umano che si estranea dalla natura, s'indurisce; loro sapevano che la mancanza di profondo rispetto per gli esseri viventi e per tutto ciò che cresce, presto lascia morire anche il profondo rispetto per gli uomini. Per questo motivo l'influsso della natura, che rende i giovani capaci di sentimenti profondi, era un importante elemento della loro educazione.

(Orso in Piedi, Dakota)

Io sono nato libero, libero come l'aquila,che vola sopra il grande cielo azzurro; un vento leggero sfiora il suo volto. Io sarò libero.

(Dion Panteah, 15 anni, Pueblo Zuni)