L’ultima
wilderness: girovagando sul versante est di Serra delle Ciavole
Il demone mi avrebbe riportato;
Un pinnacolo svettante circondato
Da balaustre in marmo esposte al vento.
Ai suoi piedi si estendeva un labrinto
Di torrioni e cupole, sul mare sconfinato,
E io sarei rimasto lì, ammaliato,
Ascoltando la risacca da quel picco.
Come promesso mi accompagnò al tramonto,
Fra i laghi fiammeggianti oltre il bastione
Fra i troni rossi di déi senza più nome
Che strillano per il fato del mondo.
Poi un abisso nero, i rumori del mare:
"Era la tua casa", rise "quando avevi occhi per guardare!"
H. P. Lovecraft, "Ritorno a casa"
Non esiste un termine per etichettare il girovagare liberi per foreste, crinali e versanti montuosi, senza percorso obbligato. Non si segue né l’itinerario prestabilito e né la “via alpinistica” già percorsa da altri, non ci si preoccupa della linearità dei percorsi. É un girovagare che somiglia un po’ all’attività dei cercatori di funghi e dei cacciatori. Andare in montagna con questo approccio è ovviamente una pratica che si può fare occasionalmente da soli o in piccolissimi gruppi, la norma canonica da seguire dovrebbe essere, soprattutto se parliamo di fruizione turistica, per una questione sia di sicurezza che di impatto ambientale, di non uscire dai percorsi segnati. Sarebbe bene poi evitare le pareti nei periodi di nidificazione, seguendo le regole stabilite dal Parco.
È pur vero che la montagna in certe situazioni si difende da sé, solo pochissimi e poche volte all’anno ne frequentano i versanti più selvaggi e pericolosi.
Le pareti e i canaloni più impervi, non addomesticati da impianti di risalita e bivacchi, frequentati ancora oggi da sparuti gruppetti di alpinisti/escursionisti, rappresentano perciò la vera ultima e autentica “wilderness” montana.
Era da anni che mancavo sui versanti est di Serra delle Ciavole; complice l’inoltrarsi dell’autunno coi suoi colori, decido per una solitaria senza percorso obbligato; ciò che mi interessa non è seguire una via alpinistica predeterminata, ma cercare scorci selvaggi da fotografare, punti di vista inediti, contrasti di luci e di colori… in una parola visioni di wilderness. L’ambiente del versante est è impervio, sebbene i terrazzi e i pascoli erbosi siano luoghi rassicuranti rispetto ai sottostanti o sovrastanti salti a ridosso delle pareti a strapiombo.
La luna si inserisce, come un quadretto, sopra i pini loricati nel cielo azzurro, il mare nell’insenatura del golfo è uno specchio del sole e brilla così all’orizzonte, chiuso dai rilievi azzurri e scuri; la faggeta sottostante risplende del giallo e verde chiaro di inizio autunno. L’escursione è un continuo saliscendi, fatto di tentativi, a volte riusciti e a volte falliti, per superare un determinato passaggio e spostarsi altrove. Pini loricati dalle forme bizzarre, secchi o ancora vivi sono i dominatori di questi aspri pendii. Ma facendo attenzione si notano anche altre specie arboree che non ti aspetteresti di trovare in questi luoghi, come una colonia di pioppi tremuli sopra una sporgenza o un isolato abete bianco che cresce a ridosso di una parete di roccia. E ovviamente ecco i sempre “ignorati” ginepri, che con le loro sagome basse sembra quasi che vogliano tenersi in disparte, proprio per non essere vistosi.
Il sole risplende sopra di me, alle sue spalle la mia ombra è una sagoma scura che si proietta sul paesaggio selvaggio: un’ombra che assume quasi una valenza simbolica; siamo passeggeri fuggevoli, come fantasmi in un cosmo che ci sovrasta con le sue immani forze. E la geologia di questa montagna sembra ricordarlo ad ogni passo compiuto con attenzione sui ripidi pendii . E allora non c’è più verità e sostanza in quell’ombra dalle sembianze umane, apparizione fugace di un essere vivente, come tutti destinato al suo breve passaggio nel mondo e ad un destino di oblio? Ma, da un’altra e più radicale prospettiva, si potrebbe obiettare che anche la nostra semplice ombra è pur sempre una manifestazione dell’essere, e l’essere non viene dal nulla per tornare nel nulla... è un qualcosa che rimanda al concetto di eterno...
Questioni filosofiche a parte, scendo e risalgo, mi porto su spuntoni rocciosi che disvelano anfiteatri di aspre e alte pareti e vuoti di centinaia di metri sotto i miei piedi. Sono a pochi metri dall’aprirsi del baratro, è terribile solo pensare come sarebbe rotolare giù, cadere aspettando l’urto letale di un corpo molle e fragile sulla durezza impassibile e compatta della roccia. È difficile anche immedesimarsi con l’immaginazione in tale situazione...
Per aggirare dei salti rocciosi devo a volte interrompere la camminata in diagonale sul versante della montagna e portarmi a ridosso della cresta, per poi scendere di nuovo verso altri terrazzi erbosi, sfruttando passaggi agevoli, alla ricerca di pini loricati e altri scorci inediti. Incontro una zona con rocce instabili, devo scendere e poi risalire, ad ogni passo le pietre si muovono e appoggiandomi alle rocce ogni appiglio va testato prima di affidargli la tenuta del proprio corpo. Sono pochi metri per arrivare ai pascoli, ma procedo lentamente. Una pietra inavvertitamente mi sfugge sotto lo scarpone e rotola giù, per centinaia di metri, forse. Arrivato alla zona di pascolo scendo di nuovo giù lungo un canalone che mi porta nelle vicinanze di pini loricati pluricentenari, uno dei quali davvero mestoso.
Costeggio delle pareti rocciose e osservo un fenomeno curioso: centinaia di api ronzano vicino alla parete rocciosa, all’inizio pensavo trattarsi di un drone, ma il ronzio continuo e sommesso arriva dagli insetti. Cerco di non avvicinarmi troppo, non si sa mai, non vorrei infastidirle. Come mi spiegherà un apicoltore è probabile che negli anfratti rocciosi ci sia un alveare, mentre il comportamento delle api è relativo alla loro biologia, le fratture delle rocce sono mete ambite per le api che sciamano; le api in montagna nelle ore più calde ne approfittano per uscire, facendo piccoli voli per soddisfare le loro esigenze fisiologiche.
Continuo a girovagare sfruttando adesso un tracciolino creato dalle vacche, venute sin qui a pascolare, evidentemente perché hanno trovato erba buona o anche l’acqua di una vicina sorgente. La debole traccia dello stretto sentiero porta verso gli affacci di altri spettacolari dentoni e torrioni rocciosi e al margine dell’uscita da ripidi canali, si mantiene a mezza costa ed è come se fosse stato tracciato per ammirare i panorami che vi si aprono: mi sorprende sempre la “logicità” e la comodità dei sentieri creati dagli animali, domestici o selvatici che siano.
La luce si fa tersa, è giunto il primo pomeriggio. Mi affaccio dalla cima dei pinnacoli rocciosi, sotto di me centinaia di metri di pareti e canaloni scoscesi, colonie di pino inaccessibili dominano i crinali, la grande faggeta in basso si scurisce delle ombre delle nuvole. Sono a ridosso della cima meridionali delle Ciavole, noto qualche gruppetto lontano e degli amici (Mimmo con suo figlio e Fabio) che mi riconoscono, così salgo a salutarli.
Lo spettacolo è assicurato anche dalla prospettiva della sommità, la faggeta che ammanta le pendici del Dolcedorme brilla dei caldi colori autunnali alla calda luce del pomeriggio, che illumina le forme contorte dei pini loricati. È questa la wilderness più “accessibile”, frequentata da sempre dall’uomo, quasi accogliente rispetto all’impervio versante est. È così, non mi resta che scendere, mentre i colori e i contrasti di luce accompagnano il mio solitario cammino di escursionista errante sui sentieri del Pollino…
Saverio De Marco
Guida Ambientale Escursionistica
Consigliere Nazionale AIW, Associazione Italiana Wilderness
Presidente Gruppo Lupi San Severino Lucano








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