lunedì 29 dicembre 2008

Diario - 24 dicembre 2008

pini immersi nella nebbia - foto by Indio
Loricati nella nebbia - Serra di Crispo dalla cresta nord Dopo tre mesi di assenza dalle mie montagne ho deciso che il 24 era un giorno ideale per andare sulle cime, viste le fosche previsioni meteo dei prossimi giorni. Con quest'escursione ho voluto scalare la ripida ma non difficile cresta nord di Serra di Crispo. Sono partito di notte, con la lampada frontale, verso le quattro; tanto qualche ora di buio bisogna farsela in escursioni compiute a dicembre, o prima dell'alba o di sera poco importa. Percorro la solita strada che faccio sempre a piedi. Dalla strada partono poi dei sentierini di pastori che portano verso Acqua Tremola. Col buio, pur avendo la lampada frontale, è difficile seguire questi sentieri alquanto approssimativi; ma li ho percosi talmente tante volte, fin da piccolo, che riesco a trovare la strada quasi per istinto, anche col buio, un po' come un animale notturno nel suo territorio di caccia. Nulla si muove. Solo ad un certo punto sento i muggiti di una mandria di mucche e l'abbaiare dei cani da pastrore che si sono accorti della mia presenza. Sopra di me c'è un bellissimo cielo stellato e mi capita di notare alcune stelle cadenti. Arrivo alla faggeta e una civetta col suo richiamo acuto mi fa sobbalzare. Al limite della faggeta vedo uno strano lampione... Intanto il cielo si sta rischiarando. Noto subito dopo che il lampione è la luna che fa capolino all'orizzonte. E' l'alba e il sole sonnecchia ancora dietro le montagne, colorando di rosso l'orizzonte. Ho la sensazione che sole e luna siano apparsi assieme per farmi luce... Eccomi ad Acqua Tremola. Mi avvio per la strada che mi porterà a Piano di San Francesco. Ancora è buio e devo stare attento a dove metto i piedi, perchè la strada è ingombra di lastre di ghiaccio scivoloso. A Piano di San Francesco, la bella radura attorniata da monumentali abeti bianchi, abbandono la strada e mi butto nella foresta di abeti, seguendo un valico che conduce nei pressi della cresta nord, congiungendosi quindi al sentiero che porta a Pietra Castello. Intanto il sole dell'inverno, con la sua luce tersa e rossastra sta cominciando ad illuminare gli alberi e le rocce della montagna. Si sale! La neve nel primo tratto è poca, farinosa e scivolosa. Successivamente incontro le prime aree di vetrato, il ghiaccio che si forma sulle creste. A questo punto è d'obbligo indossare le ciaspole coi ramponi e tirare fuori la picozza. La dorsale nord è davvero selvaggia e si gode da qui un panorama eccezionale: la foresta immensa di faggio e abete circonda le pendici e i crinali di Serra di Crispo e alcuni pini loricati secchi spuntano fuori dalla foresta come relitti di un'era ormai remota. La colonia di pino loricato qui sulla cresta è molto rada, costituita da esemplari piccoli ma caratteristici, che resistono sul crinale roccioso funestato dai venti. La dorsale ad un certo punto è ricoperta dal bosco di faggio. poi si sbuca nell'ultimo tratto, molto ripido, per giungere sulla soglia della montagna, a più di 2000 metri. Incontro sul mio percorso le impronte della lepre e quelle di un grosso lupo. Non incontrerò nessun animale, a parte uno scoiattolo che si arrampica su un pino loricato. Tutto è avvolto dall silenzio della montagna innevata. Tuttavia mai come in inverno si apprezza la bellezza della montagna... In questa stagione essa rivela le sue immagini più affascinanti e misteriose... La nebbia intanto ha cominciato a calare già prima di arrivare al giardino degli dei, la sommità di Serra Crispo. I pini qui sono ricoperti dalla neve ghiacciata, e assumono quella forma particolare che li rende simili a dei coralli giganteschi. L'intenzione era di scendere per la dorsale sud-ovest, la "Timpa del Ladro" secondo il gergo popolare, ma la nebbia è talmente fitta che non si vede nulla e non riesco ad individuare il punto da imboccare per seguire in discesa il crinale. Tento di trovarlo ma mi dirigo in realtà verso i dirupi rocciosi che sovrastano Piano di Toscano sui quali appaiono come tanti fantasmi i pini loricati. La nebbia si fa sempre più fitta. Anche i pini loricati si sono rarefatti, tanto che si mostrano solo come delle sinistre ombre scure. Non mi resta che seguire la via classica per la cima e poi dirigermi al piano di Toscano. Rinuncio così a discendere il crinale sud- vest: la zona è ripida e accidentata, a volte ingombra dai faggi, per cui rischierei davvero di sarrirmi tra le rocce senza sapere dove andare. La nebbia è uno degli elementi più temibili in montagna, capace di far perdere l'orientamento anche agli escursionisti più esperti. Così mi dirigo verso la cima. Mi affaccio per vedere sotto e noto che si vede nient'altro che un vuoto fatto di un biancore di nebbia e neve! Il paesaggio sembra annullato d'un colpo, inghiottito dalle nuvole... Ma ho come punto di riferimento i miei amici loricati della cima, conosco le loro sagome uniche e ognuno di loro mi indica in che posizione sono! Proseguo seguendo il crinale, mi congiungo a Serretta della Porticella, (che non riesco a scorgere nemmeno) e poi da lì al piano di Toscano. Qui la nebbia si è diradata e posso proseguire facilmente verso Piano Iannace e poi Piano di San Francesco...

Oltre il confine di Cormac Mc Carthy





“El lobo es una una cosa inconoscible, disse. Le que se tiene en la trampa es no mas que dientes y forro. El lobo proprio no se puede conocer. Lobo o lo que sabe el lobo. Tan como preguntar lo que saben las pietra. Los arboles. El mundo.”
“Non aveva modo di sapere quanto tempo fosse rimasto da quelle parti, ma per tutto quello che aveva visto, di buono o cattivo – cose sulle quali meditava cavalcando – sapeva di non temere più nulla di ciò che avrebbe potuto trovarvi.”

Cormac Mc Carthy è un autore americano ormai di fama mondiale e il suo ultimo libro, La Strada, è uno dei best-seller del momento. Da Non è un paese per vecchi, uno degli ultimi libri di Mc Carthy (una violentissima e cupa vicenda che ci riporta ai mali della società americana e alla sua perdita dei valori), è stato tratto il bellissimo film dei fratelli Cohen, diventato ormai un cult-movie... Su quest’autore schivo e introspettivo c’è da dire subito che i suoi libri non sono di così facile e immediata lettura. Come è stato rilevato da più parti è una scrittura non scorrevole, asciutta, essenziale, in alcune parti rivela un’attenzione descrittiva molto accentuata, quasi ridondante. Soprattutto le opere della sua fase giovanile, come Meridiano di sangue e Fratello di Dio, pubblicato recentemente, fanno riferimento a storie cupe e sanguinarie, con un’attenzione ai dettagli di scene sanguinose e violente che può apparire quasi compiacente. Nei libri degli anni novanta, che sono quelli che gli hanno dato fama e successo, come Cavalli Selvaggi e Oltre il confine del quale mi accingo a parlare, il carattere cupo, amaro e visionario della sua narrativa non scompare, ma viene accentuata anche quella dimensione, l’altra parte importante della sua narrativa, che fa riferimento al paesaggio, a un protagonismo preminente della natura (presente comunque in tutti i suoi libri) delle sue forze e dei suoi elementi. Quest’aspetto si nota bene in Oltre il confine, il quale rappresenta il secondo capitolo della Trilogia della Frontiera (il primo è Cavalli selvaggi, il terzo Città della pianura). E’ il paesaggio ad emergere preponderante nei capitoli di questo libro ed esso diventa un’arena potente, un protagonista del libro non solo quindi il semplice sfondo delle vicende dei personaggi del romanzo. Il paesaggio di cui si parla è poi particolare, perché stiamo parlando della grande vastità del sud-ovest americano, con le sue le praterie, i deserti immensi e le montagne… Una terra sconfinata dove l’uomo è un puntino disperso nello spazio infinito. Un paesaggio che è testimone delle vicende umane ma che sembra sommergerle nell’incessante fluire dei cicli della natura. Proprio nella descrizione di questo territorio selvaggio e dell’eterno girovagare dei protagonisti Mc Carthy raggiunge i livelli più alti di lirismo narrativo. Ecco ad esempio alcune descrizioni della natura…

“Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro. Li colse poco prima che facesse buio. La pioggia squarciava il deserto, facendo alzare in volo stormi di colombe selvatiche; i due penetrarono quel muro di pioggia e si trovarono istantaneamente fradici.”
“Le guardò. Le gru stavano migrando a sud e lui le osservò volare in formazioni lineari lungo invisibili corridoi, disegnati nel loro sangue da centinaia di migliaia di anni”
…oppure la rievocazione dei bivacchi notturni dei cowboys nella prateria:
“In quell’altopiano selvaggio rimase a lungo coricato nel freddo e al buio ad ascoltare il vento e a guardare le ultime scintille del fuoco che si spegneva e le crepe rose nei carboni di legna che si spezzavano lungo venature inattese. Come se dal legno che si consumava emergessero geometrie nascoste, il cui ordine poteva venire completamente rivelato soltanto, così va il mondo, nel buio e nella cenere”…
Tutta la struttura del romanzo, nelle quattro parti in cui è diviso, appare come un incessante vagabondare dei protagonisti attraverso il sud-ovest, in un’epoca in cui il west non è più una terra di conquista (la vicenda è ambientata infatti negli anni quaranta del Novecento, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale). Il confine tra Stati Uniti e Messico diventa una frontiera, simbolica più che materiale, un luogo mitico in direzione del quale è intrapreso il viaggio iniziatico del giovane Billy Parham, tra vicende umane di dolore e violenza, di crescita personale, di amore per la libertà estrema e di conoscenza degli uomini. La prima volta Billy attraverserà il confine per liberare una lupa catturata dal padre sulle montagne del Messico, poi assieme al fratello Boyd per dare la caccia ai ladri di bestiame responsabili della morte dei genitori.. e altre volte ancora, in un susseguirsi di vagabondaggi a cavallo attraverso i pascoli e i deserti del sud-ovest, tra villaggi, haciendas e gost town, nel Messico antico dei peones degli indios e dei vaqueros, violento e ancestrale… Il Messico così assume le sembianze di quella terra verso cui rivolgere il proprio sguardo sperimentando il girovagare continuo senza meta, un luogo mitico dove perdersi e ritrovarsi allo stesso tempo. Fondamentali e di alta pregnanza simbolica appaiono le figure incontrate da Billy, tra cui spiccano il cacciatore di lupi, l’indio, l’eremita, il cieco e lo zingaro. Potremo identificare questi personaggi come una sorta di schiera di filosofi che Billy Parham incontra idealmente nel suo lungo vagabondare. Gli incontri con questi personaggi sono nella struttura del romanzo altrettanti stadi di passaggio in cui Billy si ferma ad ascoltare. Attraverso la loro voce e i loro racconti si disvela la coscienza profonda dei luoghi, la memoria storica e la testimonianza del passaggio dell’uomo sul mondo, con le sue speranze, le sue battaglie e le sue sconfitte... Ma soprattutto si giunge alla conclusione che il mondo vero è inconoscibile, nonostante l’uomo cerchi di dare un ordine alle cose…

“Disse che il lupo è un essere di ordine superiore, che sa cose che gli uomini non sanno: che non c’è ordine nel mondo salvo quello dettato dalla morte… Vedono le azioni delle proprie mani, oppure vedono ciò che nominano e si chiamano per nome l’un l’altro, ma il mondo lì in mezzo per loro è invisibile”

“Perché questo mondo che ci pare una cosa fata di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. E’ questa in fondo la lezione. Non si può fare ameno di nulla. Nulla può venire disprezzato.”
“Somos dolientes en la oscuridad. Todos nostro. Me entiendes? Los que pueden ver. Los que no pueden. Il ragazzo osservò la maschera alla luce della lampada. Lo que debemos entender, disse il cieco, es que ultimamente todo es polvo. Todo lo que podemos ver. En éste tenemos la evidencia mas profunda de la justicia, de la misericordia. En éste vemos la bendiciòn mas grande de Dios.”

“Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la terza storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo con tutto questo?”

Le tante storie di donne e uomini incontrati lungo la strada si intrecceranno con la vicenda di Billy e del fratellino Boyd. Nella prima parte vediamo Billy nel tentativo disperato di salvare la lupa dalle grinfie di alcuni messicani che vorrebbero usarla per spettacoli da baraccone. Fallirà nel suo intento ma riuscirà comunque a strappare la lupa, dopo averla uccisa, dalla schiavitù dell’uomo per seppellirla sulle montagne. Alla ricerca degli assassini dei loro genitori e dei cavalli rubati Billy e il fratello si imbatteranno in pistoleri senza scrupoli. I bandidos spareranno a Boyd che poi si riprenderà ma fuggirà assieme ad una ragazza messicana. Billy si ritroverà da solo, tornerà al ranch del padre per poi ripartire di nuovo oltre il confine, alla ricerca del fratello scomparso. Alla fine si ritroverà da solo a vagabondare di nuovo tra deserti e montagne, a lavorare come cowboy per i rancheros più disparati. Nell’emblematica conclusione del romanzo Billy lungo la strada si riparerà in un edificio diroccato e incontrerà un cane vecchio e malato. Lo scaccerà via brutalmente pentendosi subito dopo di quello che ha fatto e chiamando il cane ormai fuggito nell’oscurità


“Mentre correva sollevò di lato il muso e ululò di nuovo emettendo un suono terribile. Qualcosa che non apparteneva a questa terra. Come se un terribile cumulo di dolore si fosse insinuato dal passato. Trotterellando risalì la strada nella pioggia con le gambe ferite, continuando a ululare tutta la disperazione che aveva nel cuore, fino a che non scomparve nel tutto; poi svanì anche il suo ululato.”

La scena ci riporta alla solitudine e al dolore, e a quel male di cui, come sembra suggerire lo scrittore in tutto il romanzo, è intessuto questo mondo. Ma il mondo non è mai perduto se alla violenza e alla sofferenza si oppongono i sentimenti umani e quei gesti di solidarietà che Billy e Boyd troveranno nelle persone incontrate durante il cammino: l’ospitalità dei tanti campesinos messicani che danno da mangiare ai due vagabondi senza parola proferire, i braccianti che accorrono per aiutare Boyd, il dottore messicano che salva Boyd o ancora lo zingaro che cura il cavalo di Billy. E alla fine anche le gesta di Billy andranno in questa direzione, come quando tenterà di ridare libertà alla lupa o come quando egli riporterà nella terra dov’era nato il fratellino, nei dintorni del ranch della famiglia… Lo scrittore non lo rende esplicito, ma sono queste scene ad imprimere nella mente del lettore che l’idea della speranza (anche se è retorico potremo dire “in un mondo migliore”) non è svanita e sopravvive proprio in quei gesti…



martedì 9 dicembre 2008

Racconti - Il demone bianco

Eppure io porto anche qui i miei antichi, soavi fardelli, Li porto, uomini e donne, li porto con me dove vado, Dichiaro che mi è impossibile riuscire a disfarmene, Io sono colmo di essi, e li colmerò a mia volta. (Walt Whitman) "...c'era al suo proposito un altro pensiero, o piuttosto un orrore vago, senza nome, che a volte soverchiava completamente tutto il resto con la sua intensità; eppure era tanto mistico e quasi indicibile ch'io quasi dispero di renderlo in forma comprensibile. Era la bianchezza della balena che sopra ogni altra cosa m'atterriva” (Herman Melville)
Mise la sveglia alle quattro di mattina. Preparò lo zaino, con tutti gli accessori. Era puntiglioso in questo, e divideva i vari reparti dello zaino così come indicavano i manuali. Le cose più pesanti al centro dello zaino, sopra, le provviste di cibo sotto, chiuse in sacchetti di plastica. Il telo termico di emergenza, l’accendino, la mappa e il taccuino degli appunti. La macchina fotografica protetta dal fagotto della giacca a vento. Non aveva sonno, ma sapeva che per affrontare l’escursione avrebbe dovuto dormire un po’. Quella notte si svegliò più di una volta. Aveva un po’ di tensione. Tutte le paure tornavano col calare delle tenebre, facendo la loro apparizione nei pensieri che gli si affollavano durante il sonno. Sognò distese di neve ghiacciate e vette mai viste prima. Sognò la foresta buia e quei sentieri che si sovrapponevano come un labirinto senza uscita. Si svegliò l’ultima volta prima dello squillo della sveglia, nel pieno della notte. Le paure sarebbero svanite quando egli si fosse levato dal letto e il suo corpo si fosse messo in movimento, per affrontare il freddo gelido della strada. Non fece rumore per non svegliare i suoi. Non gli aveva detto dove andava; gli aveva solo detto che sarebbe partito e poi ritornato la sera tardi. Non dovevano preoccuparsi, sarebbe tornato a casa. Questo poteva bastare. Si vestì, fece colazione e si mise lo zaino in spalla. Sentì la sicurezza delle sue forze, l’energia nei suoi muscoli, l’avventura di un giorno non vuoto, che sicuramente non avrebbe dimenticato. Uscì nell’aria gelida, nelle strade del villaggio deserte. Abbandonò la strada asfaltata e si avviò nell’oscurità di una stradina che portava verso i boschi. Quella era l’ingresso nel suo solitario mondo appartato, dal quale entrava e usciva ogni tanto. Tutto era oscurità e silenzio, e persino il rumore dei suoi passi e l’affanno della salita facevano parte di quel silenzio. Camminare in solitudine non significa essere solo, perché il cammino che si percorre è la compagnia della propria anima. E poi aveva il suo zaino, i suoi scarponi, che durante il cammino sono i compagni a cui fare riferimento. La sua macchina fotografica, che era l’occhio con cui avrebbe comunicato al resto del suo mondo ciò che avrebbe visto: alla fine nient’altro che dei miseri ritagli per farsi accettare dagli altri. Sentiva gli animali muoversi nel bosco. Sbucò su un promontorio e il richiamo squillante di una civetta lo fece spaventare. Il buio mette sempre paura, pensò, e si domandò perché. Ma non si può sconfiggere la paura senza provarla. Stava avvicinandosi alla foresta. Cominciò a camminare nel terreno coperto dal manto nevoso. Si era lasciato alle spalle il terreno scoperto e adesso si incamminava in un territorio ingombro da neve ghiacciata. La luna e il biancore della neve illuminavano il suo cammino. Incontrò finalmente la foresta ed entrò nei suoi meandri: era arrivato al secondo stadio del suo cammino di allontanamento dal mondo. Pensava intanto ai suoi affari quotidiani, al lavoro, agli amici e all’amore, al suo ruolo nella collettività e al suo posto nel mondo. Pensò che noi ci portiamo i nostri fardelli ovunque e liberarsene è impossibile. Ci allontaniamo dal mondo e il mondo si dilata dentro noi stessi, vi si espande e diventa anche opprimente. Ce ne vorremmo liberare, ma è come se volessimo liberarci di noi stessi… Arrivò in una radura ai piedi delle montagne. Il sole sorgeva alle sue spalle colorando di rosso il cielo, e gli enormi abeti vi si proiettavano come ombre nere. Sorrise all’apparizione di quelle rocce che dominavano le valli, con i pini secolari austeri e regali. Sembrava proprio di stare in uno dei suoi sogni. Nella neve si sprofondava e si mise le racchette ai piedi. Sbucò ai piedi delle montagne e cominciò a risalire la dorsale della montagna ammantata dai faggi piccoli e fitti. Impiegò tanto tempo per salire ed una fatica immane. Il sudore gli colava dalla fronte e gli faceva bruciare gli occhi. Sbucò dal bosco e si ritrovò sulla cresta ghiacciata. Tutta la fatica svanì alla vista dei pini secolari, aggrappati alla roccia. Il mondo civile in quell’istante si era fatto lontano, e ciò che contava era dimenticare per un momento il suo ruolo nella vita, sì, il mondo, il cui ricordo lontano prendeva la forma dei piccoli paesi inghiottiti dalla vastità di quel silenzio. Ciò che contava ora era contemplare quello spettacolo. Ciò che contava era salire sulla cresta innevata. I luoghi inospitali sono una casa ideale se ci si adatta alle loro regole. Il crestone era ripido e ghiacciato e non gli era permesso di scivolare, perché si sarebbe schiantato sulle rocce dei dirupi sottostanti. Aggrappato al ghiaccio come un puntino nero nella vastità della montagna, egli poteva fare affidamento solo sulla sicurezza dei suoi passi. Un passo dopo l’altro nella salita, era unicamente quello che poteva fare. La picozza affondava nel ghiaccio duro e il suo manico era l’unico appiglio che lo reggeva alla cresta. Poi finalmente sbucò sopra, tra le cornici di neve e gli apparve la cima della montagna. Dovunque si girasse c’erano solo le montagne a chiudere la visuale del mondo in un orizzonte di rocce, alberi e neve. I passi si erano fatti pesanti per la stanchezza. Procedette verso la cima e quando vi arrivò si ritrovò immerso nella nebbia. Sembrava che ormai stesse a camminare in un luogo remoto tra le nuvole. Tutto era bianco, dovunque volgesse il suo sguardo. Cominciò a scendere lungo l’altro versante, scavando coi talloni i gradini nella neve, adesso scivolosa. Non aveva ancora mangiato. Trovò un grosso masso libero dalla neve e si sedette. Prese dallo zaino della frutta secca e cominciò a mangiare, mentre il vento freddo gli accarezzava il volto. Le nuvole intanto scendevano sulla cresta che aveva scalato, e le sagome scure dei pini apparivano e sparivano come fantasmi. Mai come in quel momento si sentì così solo. Eccolo, un uomo sperduto, senza casa né legami di sorta, appoggiato sulla nuda pietra, a contemplare quella primordiale desolazione di bellezza e armonia. Se si cerca la solitudine è perché la si vuole combattere. E alla fine il demone si rivela, si nasconde in noi stessi e d’un tratto ce lo troviamo davanti… Ma quello fu solo un attimo, risistemò lo zaino, si guardò attorno e sorrise. Adesso non gli restava che scendere pazientemente l’altra dorsale per avviarsi sulla strada di casa…

venerdì 28 novembre 2008

Racconti - L'inganno

(vincitore alla VII edizione del concorso letterario nazionale "Il Fauno d'Oro" di Contursi Terme - 3°classificato) La sera si approssimava gelida. Al crepuscolo l’aria fredda della neve era calata sulle valli. Il cacciatore aggiunse legna secca al fuoco. Doveva essere un bel fuoco quello, in modo da creare tanta brace. Quando la brace si formò abbondante uscì fuori e andò nell’orto a cercare un masso. Portò la grossa pietra nel caminetto, ponendola sui carboni ardenti. La temperatura fuori continuava a calare con il passare delle ore. L’aria era gelida, secca. Uno strato di vetrato scivoloso ricopriva la strada. La pietra cominciò a diventare rossa, ardente per il forte calore. Il figlio guardava quelle strane operazioni, chiedendosi a cosa servisse quella pietra. La guardava, osservandola brillare di luce rossastra. Il padre uscì poi di nuovo e tornò con un sacco, di quelli che solitamente si adoperavano per il grano. Il sacco non era vuoto e sbirciando all’interno, il figlio vide che era pieno di paglia. Il padre poi levò la pietra ardente dal fuoco spostandola sullo scalino del caminetto. La pietra ora doveva raffreddarsi. Il figlio domandò al padre a cosa servisse quella pietra e quel sacco pieno di paglia, ma egli non rispose. Poi il padre sganciò il fucile dal muro su cui era appeso, lo aprì e cominciò a pulirlo. Possedeva un fucile classico, con i due cani che si alzavano col pollice della mano destra. Aveva preso dalla scatola delle munizioni le cartucce più piccole, quelle che servivano per gli animali di piccola taglia. La madre e la sorella erano intanto occupate a preparare la cena e non badavano a quelle operazioni. Il padre uscì di nuovo e andò nella dispensa a tagliare un pezzo di lardo. Poi tirò un po’ di brace, e vi posò il pezzo di lardo, poggiandolo su un piccolo treppiedi. Il grasso cominciò a sciogliersi e a colare sulla brace, diffondendo un fumo dall'odore forte di rancido. “A cosa serve questo?” disse il bambino. “Questo è l’inganno” rispose il padre sorridendo. La pietra s’era raffreddata e il cacciatore la inserì nel sacco pieno di paglia. “La pietra deve raffreddarsi, altrimenti la paglia prende fuoco” spiegò al figlio. Tolse il lardo dal fuoco, ormai ben arrostito, poi si procurò della carta e lo avvolse in essa. Lo inserì nella tasca del giubbotto verde che portava sempre per andare a caccia. Si mise il fucile a tracolla e il sacco in spalla. Uscì fuori nell’aria secca e fredda, sotto lo sguardo curioso del bambino; il cane del cacciatore era rinchiuso nella bottega e guaiva per non poter partecipare alla battuta di caccia. Dalla strada principale sbucò in un viottolo in discesa, che portava al torrente. Sentiva solo lo scricchiolio della neve ghiacciata sotto i suoi scarponi pesanti; per il resto non v’era altro rumore: il villaggio era sommerso dal silenzio, come una coperta lo avvolgeva nella calma serata invernale. Scese nel greto del torrente e prese la torcia, perché ormai la luce dei lampioni era lontana. Il torrente era ghiacciato, anche se sotto la coltre vitrea l’acqua scorreva silenziosa per sbucare di tanto in tanto e riprendere il suo cammino sotterraneo sotto il ghiaccio. Tolse il lardo dalla carta e lo pose su una pietra. Poi si allontanò e si sedette sopra un masso, nascosto dai rami di alcuni alberi, in un punto dove avrebbe potuto tenere la visuale del letto del torrente. C’era la luce della luna e il biancore della neve permetteva di notare qualunque animale si fosse avvicinato. Prese il sacco e vi inserì le gambe. La pietra arroventata avrebbe tenuto caldi i suoi piedi. L’aria era gelida e doveva forse stare fermo per ore, immobile, perché non poteva permettersi di fare rumore. Appoggiò il fucile carico all’albero e mise le mani nelle tasche del giubbotto. Restò un’ora in quella posizione, quando finalmente sentì il rumore di un animale sulla neve. La volpe come al solito scendeva lungo il fossato, avvicinandosi al territorio degli strani dèi che vivevano nelle valli; con la neve il cibo era scarso e sapeva che là avrebbe potuto predare quei goffi uccelli che non sapevano volare, ammucchiati dentro le costruzioni degli strani dèi della valle. Era stata attratta dall’odore denso della carne bruciata e non sapeva che là ad aspettarla c’era la morte… Il cacciatore vide la sagoma scura della volpe avvicinarsi nei pressi della pietra dove aveva posto l’esca. Puntò il fucile tenendolo stretto sulla spalla destra, accarezzò il grilletto, mirò e fece fuoco. Allo sparo si accompagnò solo un breve guaito e poi il tonfo della volpe sulla neve ghiacciata. Il cacciatore svuotò il sacco e lo utilizzò per porvi la piccola volpe. Suo figlio era andato a letto ma era rimasto sveglio. Sarebbe voluto andare con suo padre per partecipare a quell’insolita battuta di caccia. Sentì uno sparo lontano squarciare la calma gelida della notte e capì che proveniva dal fucile di suo padre. Attese il suo ritorno. Il padre rientrò a casa, lui sbucò dal letto e si rivestì per andargli incontro. Gli domandò cosa avesse cacciato e il padre rispose che aveva cacciato una volpe. “Andiamo, te la voglio far vedere”. Il cacciatore portò il figlio nel magazzino dove scuoiava la cacciagione e gli mostrò la preda che aveva catturato. “E’ una volpe rossa, con la punta della coda bianca; ci stanno altri esemplari di volpi qui da noi che invece sono di taglia più grande e con il pelo grigio” disse. “Il pezzo di lardo che avevo preparato è servito da esca. La volpe ha sentito l’odore e si è avvicinata, per questo ti parlavo prima di inganno” aggiunse il padre. Il bambino continuò a guardare un po’ malinconico la bella volpe dal pelo rosso. Avrebbe desiderato che non fosse morta, avrebbe voluto che si ridestasse da quel sonno per potergli accarezzare il morbido e caldo mantello…

martedì 21 ottobre 2008

Racconti - Guerra di lupi

(ispirato alla figura di mio nonno, di cui porto il nome)

La notte ha invaso la foresta portando col buio l’aria gelida del crepuscolo. I due pastori sono accampati in una radura in mezzo ai faggi. Hanno acceso un fuoco per ripararsi dal freddo. Il bagliore del fuoco è un fascio di luce abbagliante che dipinge di rosso i tronchi dei faggi. Faville di luce volano disperdendosi tra i cespugli. Ombre scure si aggirano tutt’intorno come spettri. Trascorrono la notte assieme alle mucche e ai loro cani mastini. Lontane sono le loro case, giù al villaggio situato nella valle. Le loro mogli non sanno cos’è l’apprensione. Per questi uomini la montagna è una casa all’aria aperta. E’ normale che stiano qui. E’ tra queste distese fatte di pascoli e boschi, terreni arati, sorgenti e sentieri che si svolge la loro vita. Ogni posto qui ha un nome e una storia; non c’è un fazzoletto di terra su cui i pastori non abbiano posato i loro piedi callosi. La fibra di questi uomini sembra fatta della stessa materia della montagna. Hanno volti spigolosi come rocce e membra nodose come i rami di un albero secolare. Un po’ di pane e lardo, qualche pera, l’acqua delle sorgenti montane, basta a questi pastori per affrontare giornate intere sui pascoli d’alta quota. La loro vita sembrava destinata a non mutare, come non muta il tramontare del sole e l’avvicendarsi delle stagioni. Ma la Storia un giorno li ha strappati a quell’ esistenza chiusa tra villaggi, sentieri di montagna e ovili per catapultarli in una distesa infinita, da invadere attraverso schiere di uomini in divisa. Lo Stato, questo strano dio che esige sacrifici di sangue, li ha spediti al fronte per tre anni. Tre anni via da queste montagne, in un mondo tutto nuovo, per certi versi incomprensibile. Nuove terre, grandi città, distese desertiche e gelate, lingue e dialetti mai ascoltati prima. L’incontro con un nuovo mondo creato da divise e battaglioni, con cui travestire e nascondere la volontà di uomini inconsapevoli. E poi il tuono della battaglia, il rumore assordante dell’artiglieria, i fulmini di fuoco dei cannoneggiamenti, i corpi sfregiati dai proiettili, le granate, le urla, il sangue sulla neve e quel freddo che penetrava nelle ossa… il gelo tagliente della steppa. La morte che sorrideva beffarda, sempre in agguato ma sempre inaspettata. Essi non capivano. Come attori inconsapevoli erano parte di quello spettacolo. Al fronte la scena era occupata dalle forze titaniche di un regno infernale, che si materializzava sulla terra come un incubo recondito della storia. Il loro buon senso contadino era un residuo del tempo che fu ed essi uccidevano e morivano nell’insensatezza delle proprie azioni. Ma la montagna ha affogato questi tre anni nel ritorno alla vita di sempre. Il paese, i figli, le stagioni e i il lavoro paziente del contadino… lavori diversi per ogni stagione. L’aratura, i raccolti, e la neve dell’inverno, che addormenta i villaggi avvolgendoli in una distesa bianca e silenziosa. Ma quei ricordi sono ferite laceranti, che il silenzio e la muta bellezza di queste valli non riusciranno a rimarginare. Stanno parlando proprio della loro guerra i due pastori. Stare attorno al fuoco aiuta a rievocare quegli eventi terribili; e il suo calore rassicurante sembra quasi renderli meno dolorosi… La serenità del fuoco e la calma della notte sono però interrotti da qualcosa. Dei guaiti squarciano il silenzio della notte. Li conoscono ormai, ci sono abituati, ma ne sono sempre spaventati. Sembrano urla imploranti, ed è come se giungessero da qualche dimensione oscura della foresta. Un ignoto che non si può comprendere. Sono gli ululati e i guaiti del branco dei lupi, che attaccano la mandria. I cani digrignano i denti; all’odore e ai richiami di quel mondo selvaggio, hanno rizzato il pelo, seguendo un istinto di alleanza con gli uomini che si perde nei millenni. I due giovani pastori accorrono subito. Gli occhi dei lupi brillano nell’oscurità, il bestiame muggisce spaventato. I pastori cominciano a tirare sassi verso i lupi… Le pietre arrivano a tiro ma i lupi non vogliono lasciare la preda. Nonostante abbiano paura di quegli uomini non intendono fuggire. I loro guaiti si sono fatti angoscianti. Questa notte non vogliono proprio andarsene. Sembrano reclamare disperatamente la loro parte di sangue, la carne viva, che sola può acquietare la loro fame. Mentre lancia sassi e pezzi di legno, uno dei pastori vede ancora le immagini della guerra. Quei guaiti angoscianti sono urla di soldati, i battaglioni sono tanti branchi pronti ad assaltare, le grigie divise sono pellicce di lupo, la veste funeraria del soldato… e i militi sono bestie affamate e aggressive che si aggirano nelle bianche e anonime distese di neve. Nella sua mente affiora come un lampo inaspettato l’immagine di un vagone di soldati. In quel vagone c’erano tredici compagni. Avevano dormito là dentro affrontando una nottata con quaranta, cinquanta gradi sotto lo zero. Quando giunse l’alba gli unici a non avere le gambe congelate erano lui e altri due compagni. Era sopravvissuto, perché era forte, era montanaro, abituato al freddo come i lupi che gli stavano davanti. Viveva in quella terra percorsa da lupi e come essi era stato abituato alle asprezze di quella montagna dall’anima indecifrabile, avvolta da un mistero che sembrava tanto antico quanto le rocce. In guerra erano l’istinto e la forza decidere della propria vita o della propria morte. Altra immagine. Una lunga fila di soldati, in marcia sulla pista gelata. Il ghiaccio che si insinuava dappertutto, i compagni che cadevano stremati in mezzo alla neve… Improvviso come allora riappare nella mente un bagliore di fuoco, un’esplosione, il dolore lancinante del ferro che penetra nelle carni: una scheggia di bomba gli aveva lacerato il bicibite, lasciandogli come ricordo una grossa cicatrice… Un lupo si avvicina a lui, ringhiando e guaendo. Sembra minaccioso, è come se l’animale rifiuti di obbedire ai colpi dolorosi delle pietre; reclama la sua parte di quella carne che lo circonda, vuole azzannare alla gola quelle povere mucche e vede quegli uomini accanirsi per difenderle dai loro assalti. Il pastore lancia un grosso sasso che arriva dritto sotto l’occhio del lupo. Il lupo si ritira guaendo dal dolore. Sotto i colpi delle pietre anche gli altri lupi indietreggiano. La battaglia è finita ma i battiti del cuore ignorano la tregua calata in mezzo ai boschi. Il branco si allontana. Il silenzio e l’oscurità hanno inghiottito di nuovo la radura di quell’enorme foresta. La battaglia dei fucili e dei cannoni riecheggia ancora nei ricordi. E’ un’apparizione che si confonde con la battaglia delle zanne, quella che appartiene alla natura di tutti gli esseri. Ma ecco avanzare dei soldati, nelle grigie divise, affannarsi lungo la pista ghiacciata mentre la pioggia di piombo e il gelo sfidano la loro sorte… Alcuni cadono a terra e il tappeto della candida neve si tinge di rosso, recando l’iscrizione di una tomba sperduta nel mondo. E intorno esplode la tempesta di fuoco, scatenata dai collerici dèi umani, mentre nella natura tutto è silenzio e la neve gelata sembra dormire sotto il fragore delle cannonate…