domenica 24 aprile 2011

Paesaggio pasquale

Mezzana Salice - foto by Indio

mercoledì 20 aprile 2011

La famiglia


Partirono all’alba, quando il cielo era ancora tinto di quell’azzurro cupo che si schiarisce  col lento e nascosto sorgere del sole. Si portarono sulla strada principale per le viuzze strette del paese. Là li attendeva il boscaiolo che gli avrebbe tagliato quel vecchio cerro che cresceva sul ciglio della strada. Il trattore annunciò il suo arrivo con il rombo pesante e le luci dei fari che penetravano l’aria bluastra dell’alba. Salirono tutt’e due appoggiandosi alle scalette laterali e il trattore si avviò. Il padre e il boscaiolo chiacchieravano ad alta voce, a causa del rumore che faceva il motore. Poi incontrarono la strada sterrata che saliva in alto, per i boschetti che circondavano le ultime case e i campi ormai quasi tutti incolti; per i pascoli ormai invasi da rovi, su cui il bosco si espandeva, quando la ghianda attecchiva alla terra, e dai germogli spuntavano i nuovi alberelli. Per quei pascoli in cui ancora si vedeva qualche vecchio pastore col suo cappello a falde strette e la giacca di velluto infestata dai tafani dell’estate, con la faccia bruciata dal sole e il corpo nodoso come le radici degli alberi. Si udiva il suo richiamo, i versi di quella lingua che solo il pastore e il suo gregge comprendono; e c’era l’abbiare dei cani che minacciosi si dirigevano verso gli sconosciuti che passavano  accanto al gregge, percorrendo i sentieri scavati dagli animali; poi il pastore si alzava dal posto fresco che si era scelto all’ombra della quercia e si avvicinava per richiamare i cani e scambiare quattro chiacchiere.  “U’ valano”, era detto così il pastore delle mucche e “ ’u picuraro”, il pastore di pecore e capre che ancora viveva la transumanza e si incontrava d’estate, col gregge che pascolava finalmente all’aria fresca della montagna. Ma i sentieri si stavano riempendo di erbacce, quelli che un tempo erano campi coltivati  adesso erano terreni messi a semina dalla natura stessa. Il mondo civile cambiava velocemente mentre la natura ritornava lentamente ad espandere la vita secondo le sue leggi. 


Era ancora buio quando i fari del trattore abbagliarono una lepre in mezzo alla strada. Se ne stava là, ferma, stupita e impaurita da quella luce improvvisa che spuntava come nulla dalle tenebre. Sarebbe potuta sparire con un balzo, saltando al lato della strada, trovando riparo tra i cespugli, invece se ne stava ancora là, ipnotizzata dalla luce. Alla fine lentamente si decise ad abbandonare la strada e si buttò nei rovi sparendo nell’oscurità bluastra che lentamente si dissolveva. Il sole sorgeva e boschi e pascoli si riempivano della luce tersa del giorno, quella luce allegra e vivida che mette sempre armonia nei propri pensieri.


Arrivarono al vecchio rudere dell’ovile circondato da grossi cerri. Il ragazzo amava quegli alberi. Non ne erano rimasti tanti ormai dei vecchi giganti secolari. Le moderne motoseghe li avevano abbattuti e la loro alta chioma non si ergeva più sul bosco come un tempo. "E’ stato distrutto tutto", si lasciò sfuggire il padre un giorno con un’aria che lasciava trasparire malinconia. 


Arrivarono ai boschetti di loro proprietà e si portarono nel punto in cui sorgeva il grande cerro da abbattere, vicino al vecchio pagliaro. Era un albero dal tronco scuro e molto grosso e ai sui piedi c’era una strana segatura. Dava l’idea di un albero cavo. "Quando questo vecchio albero sarà abbattuto gli altri potranno crescere", disse il padre. E aggiunse che l’albero era  grosso quasi come adesso, quand'era ragazzo.

Il boscaiolo scaricò gli attrezzi dal trattore: la motosega, l’accetta, la mazza e i cunei; la benzina e la lima per affilare la catena. Accese il motore e cominciò a varie riprese a creare la tacca sull’albero, poi levò quella che somigliava ad una fetta d’anguria. Il padre disse al ragazzo che dovevano allontanarsi. Il boscaiolo fece penetrare la lama dall’altro lato del tronco; l’albero cominciò a sussultare, poi perse l’equilibrio... e si sentì il rumore del legno che si rompe e così stramazzò al suolo con uno schiaffo rumoroso alla strada sterrata; si spezzò qualche ramo e qualcun altro volava, e cadendo l’albero investiva una giovane pianta destinata a rinsecchirsi, mentre le altre vicine avrebbero finalmente visto la luce e sarebbero cresciute dritte.

Adesso bisognava cominciare a segare l’albero, dividendolo in tronchetti e partendo dal ceppo. Il tronco era cavo. Quando arrivò a segare il secondo ceppo dalla cavità spuntò una coda. Nel tronco c’era un nido di ghiri. Madre, padre e figli. Una famiglia. La motosega aveva sfiorato gli animali per pochi centimetri. La coppia uscì fuori, erano spaventati e disorientati. Uno si portò sul tronco. Il ragazzo lo afferrò subito con la mano destra, quasi d’istinto. L’animale si liberò subito dalla  debole stretta del ragazzo e con un salto di quattro metri scomparve tra i cespugli. Il padre rimproverò il ragazzo. "Non avresti dovuto farlo. Poteva staccarti un dito!". L’altro ghiro si arrampicò quasi che lo avesse preso per un albero, sui pantaloni del padre, che si divincolò goffamente da quell’assalto. Quella scena fece sorridere il ragazzo.

Il boscaiolo continuò a segare l’albero, quasi ignaro di quello che avevano combinato. I piccoli erano rimasti all’interno del nido, e quando il ceppo fu spaccato in due caddero a terra, dimenandosi ciechi in quel mondo oscuro, alla ricerca di quel calore materno che era stato, fino a quel momento,  l’unica sicurezza della loro breve vita. Non sarebbero durati a lungo là per terra. Uno dei tronchetti era rotolato e ne aveva schiacciato uno, che ancora si muoveva con le sue minuscole budella di fuori, tinte di sangue. Il ragazzo smise di aiutare il padre e il boscaiolo nello spaccare la legna e cercò di mettere in salvo i cuccioli di ghiro. Ne prese uno in mano e si stupì della capacità che aveva di avvinghiarsi ai suoi guanti di pezza. Il ragazzo si arrampicò sul lato destro della strada e trovò una buca naturale per terra, tra i cespugli. Tirò il piccolo essere che era rimasto aggrappato al guanto della sua mano destra: non voleva mollare la presa e dovette tirare con forza per staccare le sue unghia dalla stoffa. Dopo averne riposto uno andò a prendere gli altri.  Ce n’erano altri quattro oltre a quello morto; un altro si muoveva ancora, ma forse era ferito perché urtato anch’esso dai ceppi. Il padre esortò il ragazzo a lasciar perdere i cuccioli e a ritornare a lavorare.  Dopo averli messi tutti nella buca si rimise anche lui al lavoro. Quando finirono il padre spiegò al ragazzo che non doveva preoccuparsi, perché la madre avrebbe recuperato i cuccioli e li avrebbe portati da qualche altra parte, in un luogo sicuro tra gli alberi. 

Il giorno dopo il ragazzo trovò la scusa di farsi un giro per funghi e ritornò a piedi alla buca, nel bosco dove aveva riposto quelle piccole creature. Nella buca era rimasto solo un cucciolo, ed era morto. Era quello ferito, e che lui aveva riposto lo stesso nella buca, assieme agli altri. Un fratello sfortunato che il Caos del mondo aveva rispedito indietro nei labirinti del Nulla. Se i cuccioli fossero stati divorati da qualche volpe il cucciolo morto non sarebbe rimasto là. Era la prova che era stata  la madre a prenderli. La madre, che conosceva per istinto la presenza della morte, lo aveva lasciato là, recuperando gli altri cuccioli e portandoli su un altro albero. Lì forse la famiglia avrebbe ritrovato una nuova casa nella pace del bosco…

mercoledì 13 aprile 2011

Diario - 10 aprile 2011

la spettacolare cascata del Lacerno - foto by Indio; sotto: 1. l'ex guardiaparco Lillino riconosce una fatta dell'orso; 2. un tratto delle gole del Lacerno; 3. Franco a ridosso delle spettacolari cascatelle, sul fianco destro della gola; 4. Lillino sullo sfondo del paesaggio del Lacerno: si vedono il Vallone in basso, all'estrema sinistra il Serrone e a destra Punta di Mazza.




Nell’Area Wilderness Il Lacerno

 "La Terra non ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, ma ci è stata data in prestito dai nostri figli.” 
(massima degli Indiani d'America)

In occasione dell'Assemblea annuale dei soci di AIW tenutasi a Sora (Frosinone), a cui ho partecipato, come di consueto è stata organizzata un' escursione nella vicina Area Wilderness Il Lacerno, ai confini con il Parco d'Abruzzo, Lazio e Molise, designata grazie all’impegno di G. Tomei (Presidente AIW) e G. Mastroianni, (Assessore all’Ambiente di Campoli Appennino).
Partiamo in mattinata dal bel Bed and Breakfast "Nonna Saveria", di proprietà di uno dei soci AIW, C. Baldassini ed anche sede distaccata della stessa. Appoggiandosi a questa struttura è possibile visitare le bellissime aree wilderness dei dintorni di Sora, una delle quali è appunto Il Lacerno, praticando escursioni in ambienti ancora naturalisticamente integri ed estranei a forme di turismo di massa, nelle quali trascorrere ore piacevoli a contatto con la solitudine e il silenzio di luoghi impervi e selvaggi, ricchi di biodiversità (sono habitat dell’orso, del lupo ma anche di sparuti esemplari di camoscio) e percorsi solo da stretti sentieri di montagna. Ieri sera grazie alla proiezione di un documentario ho avuto modo di vedere le immagini relative alle bellezze paesaggistiche e alle rarità floristiche dell’area del Lacerno. La giornata non sembra allettante: una fitta nebbia avvolge la cittadina di Sora, anche se sicuramente in montagna splenderà il sole. Saluto Francone che non verrà con noi: forse ci rivedremo a San Lorenzo Bellizzi. Raggiungiamo, in una delle piazze della cittadina, gli altri gruppi che verranno con noi e partiamo per la montagna. La nebbia si dirada salendo e arrivati ai pascoli da una strada sterrata possiamo ammirare il mare di nubi che sta sotto di noi. Dobbiamo percorrere un tratto di strada sterrata per raggiungere il sentiero che ci ricongiungerà alla parte sommitale del torrente Lacerno, a ridosso del tratto di gola che conduce fino alla cascata. L’escursione più interessante comunque,  anche dalle immagini che ho potuto vedere, è la risalita integrale delle gole del Lacerno… Attraversiamo all’inizio dell’escursone una zona di pascolo e di rimboschimenti di pino nero. Cerco di stare vicino a Lillino, l’ex guardiaparco del Parco d’Abruzzo, per seguirlo nelle sue osservazioni. Lui è veramente un grande conoscitore della fauna e della flora di queste montagne e i suoi aneddoti rappresentano davvero un libro vivente. Poco dopo Lillino riconosce gli escrementi di orso, avvistati da un bambino della comitiva (“la cacca dell’orso!”… il ragazzino ci ha azzeccato!). Lillino e Franco mi fanno notare come gli escrementi dell’orso, se questo ha mangiato frutta, non puzzino, anzi rilascino un aroma particolare.
Annuso la cacca e in effetti mi accorgo che quasi profuma! Ci inoltriamo nel bosco fitto. Mentre Lillino perlustra i dintorni alla ricerca di fatte di lupo, con Giancarlo notiamo che il bosco mostra i segni dei tagli massicci del passato. Gli alberi sono cresciuti a gruppi dai vecchi ceppi, e molti non sono dritti. I questi casi forse ci vorrebbero dei tagli conservativi. Le specie di alberi presenti nella zona del Lacerno sono il leccio, la roverella, il carpino nero ed alle quote più alte il faggio. Finalmente inizia il sentiero che costeggia il selvaggio Vallone del Lacerno. Lillino lungo il sentiero ascolta il cinguettio degli uccelli e ci dice a quali specie appartengono i versi che si odono nel bosco. Lillino riconosce in particolare il verso che la femmina di Cincia Mora fa mentre cerca il suo “compagno”.
Dal bosco si intravedono le selvagge pareti del Monte Serrone, da cui non riesco a distogliere lo sguardo. Più oltre il sentiero attraversa un punto panoramico da cui  si può osservare il Vallone e le montagne circostanti in tutta la loro maestosità: per la forte incisione della forra, si va dai 625 m. ai 1929 m. del Serrone… con un dislivello di 1300 metri a fronte di soli 4 chilometri! Le altre cime osservabili sono Il Montagnone e Punta Mazza. La comitiva ad un certo punto si divide, il torrente Lacerno è ancora lontano e un gruppo vuole tornare indietro, anche perché ci sono bambini piccoli con noi. Lungo il sentiero si fa sentire il cupo rumore del torrente. Con Raffaele che è un vero cacciatore-conservazionista parliamo un po' della caccia, pratica che non eserciterei mai ma a cui anch'io mi sento legato per il fatto di essere figlio di cacciatore, e per averla vissuta nell'infanzia  (seppur indirettamente). Mi parla della caccia e delle sue uscite senza fucile e col solo cane da caccia, con l'unico fine di avvistare la starna. Mi parla anche dei ripopolamenti (in cui egli si è impegnato) di questo volatile e dei danni dei bracconieri.  In una delle pareti a picco della zona è stata rilevata la presenza di un nido d’aquila reale. Finalmente arriviamo al torrente, le cui limpide acque scorrono attraverso il ripido letto di massi. Vado a bere ad una delle tanti sorgenti posta sulla riva scavata del torrente. L’aria è fresca e si sta bene. Ci fermiamo sulle rive del Lacerno per mangiare qualcosa e poi mi aggrego al gruppo che si dirige verso la gola, per andare alla cascata.
Germano, che è esperto di rarità botaniche, mi fa notare una pianta rara dai fiori gialli che ha colonizzato un grosso masso, di cui non ricordo il nome. Ci spostiamo da un masso all’altro cercando possibilmente di non bagnarci i piedi. L’interno della gola ci regala visioni di natura selvaggia, ma anche qui si vedono i segni dell’uomo: come due o tre grotte scavate con la dinamite nelle pareti della gola, ai tempi dei lavori di captazione degli anni ’50. Giancarlo mi fa notare qualche trota che veloce si rifugia tra i massi del torrente.  La cascata è davvero maestosa e il gettito sarà alto una ventina di metri o più. Oltre la cascata forse nessuno ha proseguito la risalita della gola, anche perché da quello che ho sentito risulterebbe impraticabile. Una foto qui, con lo sfondo della cascata è d’obbligo… Ritorniamo al sentiero ed un secondo gruppo vuole andare alla cascata, tra cui Felice e suo figlio che non ha nemmeno 10 anni. Il padre accompagna suo figlio mano nella mano, per saltare da un masso all’altro, nell’avventurosa scoperta dello scenario grandioso delle gole del Lacerno e della sua cascata… Ancora oggi, nell’era della tecnologia e della crescita dissennata abbiamo bisogno di posti come questi, “lasciati incolti” come diceva Pavese, luoghi lasciati al silenzio e alla solitudine, che abbiamo il dovere di conservare affinché le generazioni future ne possano godere, ritrovando quegli stati d’animo che da sempre legano l’uomo al mondo naturale. La natura selvaggia è parte di noi e se non la difenderemo da chi vuole deturparla, sfruttarla, assogettarla e addomesticarla per i propri fini utilitaristici, perderemo anche una parte di noi stessi… ovvero proprio quegli “stati d’animo” che sono  fondativi del concetto di Wilderness.


mercoledì 6 aprile 2011

Diario - 5 aprile 2011


 loricato a ridosso delle rocce del canale nord - foto by Indio; sotto: 1. veduta della "Grande frana"... a sinistra, dov'è l'ombra, il percorso della "Via dei lupi"; 2. rivoli d'acqua sulle rocce; 3. una foto "improbabile" ma che dà l'idea della ripidezza del pendio; 4. veduta della sommità del canalone nord-est; 5. la barriera di rocce sommitale, vista da vicino; 6. il percoso della "Via dei Lupi"; 7. il Dolcedorme visto dalla dorsale est, con un pino secco accasciato nella neve... la cima non è lontana; 8. veduta dai Piani di Pollino, appena usciti dal bosco.


Per ripidi canaloni - Canalone nord-est Monte Pollino, alla vetta per la "Via dei Lupi"

La primavera già risveglia la natura delle valli, ma la neve resiste ancora sulle alte quote del Pollino. 
Volevo fare un’ultima escursione invernale proprio per “salutare” l’ultima neve delle cime, immergendomi nelle atmosfere invernali del Monte Pollino, ma cercavo qualcosa di impegnativo… L’intenzione era scalare uno dei canaloni del versante nord del Monte Pollino, su cui ricade il percorso noto ai soci del CAI Castrovillari come “Via dei Lupi”, ma la mia testardaggine e la curiosità mi ha spinto di nuovo sulle nevi della “Grande Frana” ovvero del canalone nord-est del Pollino. Alla fine ho fatto lo stesso la Via dei Lupi arrivando così in cima, dato che non sono riuscito a superare in sicurezza la barriera di rocce sulla sommità del canalone. Arrivato ai Piani di Pollino da Colle Impiso mi dirigo subito verso la base del canalone, attraversando i boschetti di faggi che ammantano i pendii boscosi del M. Pollino. La neve è marcia e il sole oggi picchia parecchio. Non ho fatto caso alla diramazione che porta alla sorgente Rummo  e dato che è l’unica sorgente dei paraggi devo procedere senz’acqua. Sono un tipo che beve poco in genere (almeno per quanto riguarda l'acqua), ma un po’ di  sete sotto il sole cocente si fa già sentire. Come rimedio  metto un po’ di neve nella mia borraccia. 
Mi viene in mente mio nonno e le sue memorie della guerra in Russia: i poveri soldati italiani avevano neve nelle loro borracce, mentre i tedeschi, loro alleati, le avevano piene di cognac. Perciò non lamentiamoci… Il fatto è che l’acqua della neve in realtà non disseta, perché priva di sali minerali; ma sicuramente è meglio di niente.
L’intenzione era salire per la Via dei Lupi, ma ritentare la scalata del canalone di due anni fa è una tentazione troppo forte. Do un’occhiata col binocolo al percorso: le rocce che delimitano il canalone sembrano non presentare difficoltà (ma mi ricrederò, come si vedrà!).
Il canalone si fa ripido, tolgo le ciaspole e inizio a scalare tenendomi accovacciato, per risparmiare energie e dare ritmo alla salita con movimenti costanti… C’è silenzio nei dintorni, ma si nota che c’è un’atmosfera diversa rispetto ai mesi trascorsi… è già primavera, perché si odono i versi di tanti uccelli. Non c’è vento ma in alto, verso la cima nascosta,  si ode il suo fischio lontano… è un bell’effetto, perché lassù sembra esserci la dimora di Eolo, che sembra lamentarsi per l’aria calma dei dintorni. Salendo accovacciato do un’occhiata al paesaggio che da questa prospettiva è sottosopra… un mondo che sembra racchiuso in una sfera di vetro e che così, capovolto,  appare ancora più bello. Forse per questo da bambini ci piaceva  guardare le cose sottosopra. Salendo, mi sto tenendo a sinistra, a ridosso delle rocce che delimitano ad est il canalone, anche per avere riparo dal sole sfruttando l’ ombra delle rocce. I raggi del sole diventano micidiali con la neve (e purtroppo oggi mi son vestito anche di nero!).
Zampilli d' acqua gocciolano dalle rocce. John Muir avrebbe detto forse, che queste rocce somigliano a tanti altari da cui zampilla l’acqua benedetta della montagna! Mi porto là per poterne bere un po’ con una cannuccia, perché ho molta sete. L’acqua proviene dalla neve che si scioglie, ma forse è filtrata dalla roccia ed è meglio della neve della borraccia.  Il paesaggio è davvero maestoso: un angolo di wilderness immacolata, popolata da una rada colonia di loricati. Addossato al dirupo verso ovest un piccolo pino resiste piegato alle intemperie, mentre un altro, secco, domina le rupi sullo sfondo del Dolcedorme. E i corvi imperiali vanno e vengono in gruppo, forse incuriositi dalla mia presenza. La scalata è stata  veloce ma adesso il pendio si fa molto più ripido… ed eccomi arrivato alle rocce. Dopo di queste, in alto, ci sono solo le cornici di neve da superare, e il gioco è fatto. Da lontano esse sembrano tanti gradini messi là per avvantaggiare l’ascesa degli alpinisti. Provo a salire le rocce che si ergono a sinistra. Avvicinandomi noto subito che il superamento delle rocce è meno facile di quel che pensassi. Intanto le rocce sono troppo sporgenti e quasi verticali. Le rocce poi si presentano sì come tanti gradini, ma gradini enormi, bagnanti o ghiacciati e… soprattuttto spioventi! La distanza in montagna inganna, e così un promontorio roccioso può sembrare molto più facile da percorrere rispetto a com’è in  realtà. Alcune  rocce inoltre non sembrano tanto stabili, e quand’è così non si hanno prese solide, col rischio di trascinarsi addosso dei massi che possono anche  travolgerti… 
Oltre alla questione delle prese insicure per le mani, il problema poi è che non riesco a creare dei gradini, su cui poggiare i piedi, visto che la neve che circonda le rocce è poco profonda e sotto di essa c’è anche del vetrato scivoloso. Non posso utilizzare come appoggio per i piedi le rocce scivolose perché bagnate, col rischio di scivolare e fare un brutto volo dalle conseguenze non prevedibili. Ho anche i ramponi nello zaino ma metterli adesso in una posizione così precaria sarebbe scomodo. Sono abituato con l’esperienza delle mie solitarie a dare retta al mio “campanello d’allarme”, a quella percezione immediata di insicurezza che prefigura una situazione di rischio. Rinuncio a superare il tratto e ritento con le rocce più al centro.. ma la situazione non è migliore.  Potrei anche vincere la paura e  tentare velocemente l’arrampicata, ma sono solo, senza nessun tipo di assicurazione, col rischio di rimanere imbottigliato. E pensare che superata quella barriera l’uscita sulla cresta sarebbe a portata di mano. Alla fine decido di rinunciare e ritorno con cautela sui miei passi poggiando i piedi sui gradini da me scavati, come se stessi scendendo una scala di legno. Guardo di nuovo le rocce e decido di fare un altro tentativo. Niente da fare, non riesco ad avere prese stabili e sicure che mi permettano di proseguire senza rischiare l’osso del collo. Potrei fare altri tentativi, ma  rischierei solo di perdere altro tempo e di affaticarmi più del necessario. 
E’ sempre brutto rinunciare ai propri obiettivi, anche perché ciò comporta a volte altre fatiche, e la tentazione della sfida è forte… ma alla fine quello che conta è la visione di selvaggia bellezza che mi ha regalato questa salita! Così torno indietro facendo attenzione a non scivolare, in direzione delle rocce popolate da una rada colonia di pini loricati...
Non resta che portarmi a ridosso del canale che costeggia la dorsale rocciosa del lato est, e  scalare il ripido pendio della “Via dei Lupi”,  che mi permetterà di uscire  senza intoppi sulla sommità della cresta est del Monte Pollino, non distante dalla cima. E così mi aspetta un’altra “bella”  progressione su pendio ripido! Procedo così infilzando la neve con la mia fidata piccozza e salendo incontro finalmente le rocce della dorsale, rocce che mi aiutano nella salita visto che offrono una presa salda. Raggiunta la sommità mi dirigo verso la cima.
Il tempo è peggiorato, ma questo è un bene, perché mi ha permesso di stare al riparo dai raggi del sole. Cala la nebbia sulla cima e mi dirigo verso la dorsale che conduce al sentiero per Gaudolino. Ma la nebbia mi crea dei minuti di disorientamento, perché non riesco a distinguere bene i miei punti di riferimento. 
Il mio punto di riferimento principale è Serra del Prete, ma riesco a vedere solo Castrovillari. Poco dopo capisco che in realtà stavo dirigendomi verso il Pollinello… Ma la nebbia si dirada e ritrovo la giusta direzione. A Gaudolino, dove mi dirigo subito alla fontana per dissetarmi, la neve sta scomparendo e i prati son punteggiati di bucaneve. Fiori che annunciano l’addio all’inverno e alla neve, che lentamente abbandonerà le vette sciogliendosi in mille rivoli d’acqua e ingrossando i torrenti più a valle…

 




sabato 2 aprile 2011

Il serpente e il bambino


Eccoli arrivare dalle tenebre remote della mente, nel cuore della notte. Le serpi sono dappertutto, spuntano dalle viscere della terra, materializzandosi come spettri. Si attorcigliano, scappano o si insidiano lentamente tra i ciuffi d’erba. E lui non si può muovere, e non sa cosa fare; aspetta il suo destino restando immobile, ormai prigioniero di un attimo che diventa eterno… perché i serpenti sono dovunque ed ogni passo è un’insidia e non si può più scappare; ma in tutto quel vortice di corpi verdastri e longilinei non sembra esserci minaccia: è come se non lo vedessero, e si attorcigliano alle sue gambe, vi scorrono in mezzo e vengono inghiottiti dalla terra, nell’’ignoto dal quale sono venuti. Esseri con le sembianze di un mondo primitivo e impenetrabile, con la sua storia scritta su quelle squame e che vive ancora nello sguardo enigmatico di quegli occhi inespressivi… Il sogno finisce e il risveglio si porta con sé il sollievo di essere al sicuro nel letto della propria stanza, lontano da quella minaccia, lontano da quel nido di serpenti…

Al paese dove viveva c’era da sempre la paura dei serpenti. Nei giorni infuocati dell’estate a volte i serpenti capitavano vicino alle case, si infilavano spaventati sotto le cataste del legname o tra le insenature dei muri di pietra. Se la gente li trovava per strada si dava da fare subito per ammazzarli. Con i bastoni, con i soffietti di ferro, con le scope, con la prima cosa che gli capitasse tra le mani. Non facevano distinzioni tra serpenti velenosi e non velenosi, tra bisce e vipere. I serpenti erano tutti delle vipere malefiche, la cui semplice vista bastava a far calare nel vicinato un’atmosfera di non solo di preoccupazione, ma direi quasi di terrore. Era proprio un giorno d’estate quello e il bambino giocava col suo triciclo rosso di plastica, in mezzo alle stradine che circondavano casa sua. Era un bambino di quattro anni. Col triciclo stava scendendo lungo una stradina che conduceva alle scalinate che portavano verso la chiesa. Vide un serpente strisciare sul pavimento di pietra della strada. Era un serpente grigio e sottile, che si muoveva con eleganza sul terreno. Era stato abituato a pensare che fosse necessario uccidere i serpenti quando si incontravano, perché erano pericolosi. Così pensò bene di passarci sopra con le ruote del suo triciclo. Il serpente fu fatto a pezzi e il bambino andò subito dalla madre per comunicargli che aveva ammazzato una vipera, poi la condusse sul luogo dove giacevano ancora i resti martoriati del serpente. La madre si meravigliò per il coraggio del bambino, che non aveva avuto paura, ma si spaventò pure, perché il serpente avrebbe potuto morderlo. Il bambino crebbe vantandosi di quell’atto di coraggio; l’uccisione della vipera era diventata una specie di prova di iniziazione nella sua infanzia, un evento che ricordava sempre con un certo orgoglio.

Il bambino era diventato ormai un adolescente e adesso possedeva una bella mountain bike rossa, con la quale si aggirava per le strade del paese, per i boschi e i prati dei suoi dintorni. Stava percorrendo un tratto di salita della strada provinciale quando vide un serpente attraversargli la strada. I serpenti erano pericolosi per l’uomo e bisognava ucciderli appena si incontravano, questo era quello che gli avevano insegnato fin da bambino. Il serpente adesso cercava di arrivare all’altro ciglio della strada. Pedalò in fretta e passò sopra di lui con la ruota. Il serpente era rimasto schiacciato, nella metà di quel corpo longilineo, ma proseguiva la sua corsa. Il ragazzo girò e tornò indietro per ripassarci sopra di nuovo. Il serpente adesso stava sulla difensiva, s’era raccolto in se stesso, come per convogliare le ultime energie rimastegli e dare l’ultima strenua battaglia a quell’aggressore così potente e terribile. Smise di pedalare e fece avanzare la bicicletta spostandosi con i piedi, poi schiacciò il serpente con la ruota posteriore, muovendola avanti e indietro con la pressione sul manubrio. Intanto stava osservando il comportamento del serpente. Addentava il copertone con tutta la sua forza, mostrando i denti sottili e aguzzi, nonostante il suo corpo fosse ormai del tutto lacerato e insanguinato. Era una difesa disperata e dignitosa allo stesso tempo. Una scena che turbò profondamente il ragazzo. Adesso gli dispiaceva per quel serpente. Si ricordava di aver letto da qualche parte che non tutti i serpenti sono velenosi, che esistono vipere e bisce, e che esse sono riconoscibili per tante caratteristiche diverse, che le vipere se non sono infastidite non aggrediscono nessuno; che i serpenti se lasciati in pace sono animali inoffensivi. Meditava su queste cose mentre osservava la tormentata agonia del serpente che lui adesso stava uccidendo. In un fremito di rabbia, mista a colpa, finì di ammazzare il serpente, sfregandogli la testa con la ruota e mettendo così fine alle sue sofferenze. Si sentiva in colpa per ciò che aveva fatto e ripensò alla prima volta che uccise un serpente, quando era un bambino e girava su un triciclo rosso. Si accorse allora di essere cambiato e decise che d’ora in poi non avrebbe più ammazzato un serpente. Mai più. Adesso i serpenti voleva solo incontrarli come esseri liberi che andavano per la loro strada. Era stato proprio il serpente a fargli cambiare idea. Con quell’atto di disperata difesa dall’aggressione era come se avesse parlato al ragazzo e in quell’occasione, proprio mentre moriva, era stato un suo maestro di vita.
 
Un quartiere popolare di una grande città con macchine e gente ovunque. La distesa di asfalto e cemento che copre ogni cosa... Una stanzetta di una vecchia palazzina, adibita a studio di Tattoo e Piercing. La ragazza incide un “tribale” sulla spalla sinistra del ragazzo, ma ignora che sta riproducendo i contorni di una pittura di sabbia Navajo, simbolo di un antico popolo che dialogava con la terra. E’ una ruota di medicina, e rappresenta il cerchio con le quattro direzioni. Dal centro del cerchio, il mistero del mondo, si dipartono dei serpenti stilizzati: sembrano quasi uscire da un nido, vanno rispettivamente a nord, a sud a est e ad ovest, disegnando una spirale di armonia e allo stesso tempo di mutamento. Il cerchio all’interno del quale sono compresi ha anch’esso le sembianze di un serpente. I piccoli serpenti rappresentano forse le direzioni della conoscenza e così anche gli uomini, che uscendo dal nido cercano subito di comprendere il mondo… proprio come quando lui si imbattè la prima volta lungo” la strada di un serpente”.