lunedì 17 maggio 2010

Edward Abbey e il significato della Wilderness

Edward Abbey - sotto, tre immagini del Grand Canyon: nella seconda un pino somigliante ai loricati del Pollino: lo spirito della natura selvaggia è lo stesso dovunque...



Saggio tratto da libro Desert Solitarie (DESERTO SOLITARIO, Franco Muzzio Editore - Padova 1993). Libro che in America è ritenuto un classico dell’ambientalismo impegnato. Una delle principali opere sulla Wilderness e sull’importanza della sua conservazione, scritta dal fondatore della più intransigente associazione che la difende: Earth First!


Terre selvagge. La stessa espressione è musica.

Terre selvagge, terre selvagge... A mala pena capiamo il significato di queste due parole, ma il loro suono attira tutti coloro i cui nervi e le cui emozioni non sono state ancora irreparabilmente intronate, tramortite, intontite dalle lagne del mondo commerciale, dalla faticosa lotta per il profitto ed il dominio. Perché tanta seduzione nelle sole parole? Cosa significano veramente? Possono le terre selvagge essere definite, usando la terminologia adottata dalle autorità competenti, semplicemente come “Un’area di almeno duemila ettari contigui non attraversata da strade”? (1) Questo può essere un tentativo di definizione di minima, ma non è sufficiente; quelle due parole racchiudono significati più profondi.
Potremmo dire, è una supposizione, che le terre selvagge evocano nostalgia, una nostalgia giustificata, non semplicemente sentimentale, dell’America perduta che i nostri antenati conobbero. Le parole suggeriscono cose passate e sconosciute, le viscere della terra da cui tutti noi proveniamo. Significano qualcosa di perduto e qualcosa di ancora esistente, qualcosa di lontano ma allo stesso tempo intimo, qualche cosa sepolta nel nostro sangue e nelle nostre fibre, che va oltre il nostro essere e che non ha limiti. Una visione romantica, ma non per questo da buttare via. La visione romantica, sebbene non sia una spiegazione completa, è una parte necessaria di essa.

Ma l’amore per la natura selvaggia è più che un ardente desiderio di ciò che non può mai essere raggiunto; è anche una forma di lealtà verso la terra, la terra che ci ha procreati e ci mantiene, l’unica patria che avremo mai, l’unico paradiso di cui abbiamo bisogno, se solo avessimo occhi per vederlo. Il peccato originale, il vero peccato originale, è la distruzione cieca, dettata dall’ingordigia, di questo paradiso naturale che ci circonda, se solo ne fossimo degni.

Quando parlo di paradiso io intendo Paradiso in senso totale, non il banale Paradiso dei santi. Quando scrivo”paradiso” non penso solo ad alberi di melo e donne bellissime ma anche a scorpioni, tarantole e mosche, a serpenti a sonagli e a lucertole velenose, a tempeste di sabbia, vulcani e terremoti, a batteri e a orsi, a cactus, yucca, bladderweed, ocotillo e mesquite, a inondazioni istantanee e sabbie mobili, e sì, alle malattie e alla morte e all’imputridire della carne.

Il paradiso non è un giardino di beatitudine e di perfezione immutabile dove i leoni se ne stanno buoni, sdraiati come agnelli (cosa mangerebbero?) e gli angeli, i cherubini e i serafini volteggiano in circolo continuamente e stupidamente, come un meccanismo, intorno a un Motore Immobile ugualmente vacuo e assurdo, per quanto beato. (Giocate sicuri; adorate solo in senso orario; divertiamoci tutti assieme). Quella fantasia accuratamente dipinta di un regno al di là del tempo e dello spazio che Aristotele e i Padri della Chiesa hanno cercato di rifilarci, ai nostri giorni ha incontrato solo indifferenza e negligenza, cadendo a pieno diritto nell’oblio che meritava, mentre il Paradiso di cui parlo io e di cui voglio tessere l’elogio è qui con noi, è dove siamo e nel momento in cui vi siamo, è la stessa terra tangibile e dogmaticamente reale che calpestiamo.

Coloro che si considerano più realisti del re ci direbbero sicuramente che il culto della natura allo stato primitivo è possibile solo in un’atmosfera di comodità e sicurezza e che quindi non fu coltivato dai pionieri che conquistarono metà di un continente con i loro fucili, aratri e filo spinato. E vero? Prendiamo in esempio i sentimenti di Charles Marion Russel, l’artista cow boy (2), citati nel volume di John Hutchenes, One Man’s Montana (Il Montana di un solo uomo): “Mi hanno chiamato pioniere. Secondo il mio libro un pioniere è uno che viene in un paese vergine, sistema dappertutto trappole per catturare gli animali da pelliccia, uccide tutte le bestie selvatiche, abbatte tutti gli alberi, fa distruggere tutta l’erba dal bestiame, dissotterra di tutto per arare la terra, e stende dieci milioni di miglia di filo spinato (3). Un pioniere distrugge tutto e chiama quest’operazione civilizzazione”.

Altri che affrontarono difficoltà e privazioni indicibili non meno dure di quelle degli uomini della frontiera furono John Muir, H.D. Thoreau, John James Audubon e il pittore George Catlin (4), che vagarono a piedi per gran parte del nostro paese e vi trovarono qualcosa di più che semplice materia grezza da sfruttare economicamente.

Un sesto esempio, quello che preferisco, è naturalmente il Maggiore J. Wesley Powell (5), un veterano della Guerra Civile con un solo braccio che, seduto su una sedia legata al ponte di una piccola imbarcazione di legno, guidò un gruppo di uomini coraggiosi nell’esplorazione dei canyon sconosciuti dei fiumi Green, Grand e Colorado. Nel suo primo viaggio Powell impiegò tre mesi a raggiungere l’imbocco del Gran Canyon, dove adesso c’è il Lago Mead , partendo dalla cittadina di Green River, in Wyoming. In quel lasso di tempo lui e i suoi uomini dovettero sopportare un numero non indifferente di spiacevoli esperienze, compresa la perdita di un’imbarcazione, la fatica indicibile di calare le barche con le corde giù per rapide terribili, la farina ammuffita e la carenza di carne, il caldo ed il freddo intensi, le malattie, la costante paura che si ha di ciò che non si conosce, l’incertezza di farcela, la possibilità costante che dietro la prossima curva del canyon potessero incontrare rischi peggiori di quelli che avevano dovuto affrontare fino a quel momento. Alla lunga questa pressione psicologica divenne insostenibile per tre degli uomini di Powell; verso la fine del viaggio quei tre abbandonarono la spedizione e tentarono di ritornare nelle civiltà da soli, via terra, e furono tutti e tre uccisi dagli indiani.

L’impressione che Powell riportò dei recessi più reconditi del Grand Canyon fu quella di un mondo sotterraneo terribile e cupo, scenario di tanta sofferenza fisica e mentale per lui stesso e per i suoi compagni, ma ciò nonostante e nonostante tutto quello che gli era capitato nelle sue esplorazioni, avrebbe scritto del canyon nel suo complesso con tono panegirico.

“Le glorie e le bellezze della forma, del colore e del suono si uniscono nel Grand Canyon, forme che non hanno rivali neanche in quelle delle montagne, colori che competono con quelli del tramonto, e suoni che abbracciano l’intero diapason, da quello della tempesta a quello dell’isolato ticchettio che goccia di pioggia, da quello delle cataratte a quello della fontana che gorgoglia...

“Non si può avere una visione unica del Grand Canyon, come se fosse uno spettacolo immutabile davanti al quale si può sollevare un sipario; per vederlo veramente bisogna faticare mese dopo mese attraverso i suoi labirinti. E’ una regione più difficile da attraversare delle Alpi o dell’Himalaya, ma se si hanno resistenza e coraggio sufficienti ad affrontare questo impegno, allora con il duro lavoro di un anno si può raggiungere un’idea di sublime che mai più potrà essere uguagliata, né da questo né dall’altro lato del Paradiso”.

No, la natura selvaggia non è un lusso, ma una necessità dello spirito umano, vitale per le nostre esistenze quanto l’acqua e il buon pane. Una civiltà che distrugge quel poco che rimane di essa, di quello che si è conservato nel tempo, delle cose che erano in origine, si separa volutamente dalle sue radici e tradisce il principio stesso su cui essa si basa.

Edward Abbey

Note della redazione


(1) Si fa riferimento al Wilderness Act, la legge americana che tutela le Aree Wilderness.

(2) Charles Marion Russel è stato uno dei pittori che sul finire dell’epopea western divenne famoso per i suoi dipinti e disegni illustranti aspetti della vita di frontiera (cow boys, indiani, “soldati blu”, conflitti e scene di vita, paesaggi ed animali). A lui è dedicato un National Wildlife Range (area protetta per la fauna, in parte anche Area Wilderness) lungo il Fiume Missouri, nel Montana.

(3) Si fa riferimento alle recinzioni con cui furono suddivise le praterie per adibirle al pascolo del bestiame.

(4) Dei primi due si vedano gli articoli biografici apparsi in Wilderness/Documenti Nn. 4/1999 e 4/1996. Audubon è il noto naturalista americano di due secoli or sono, al quale si devono le prime descrizioni ed illustrazioni di gran parte degli uccelli nordamericani. A lui è dedicata la storica e famosa National Audubon Society, spesso citata in Wilderness/Documenti. Dell’ultimo si veda l’articolo biografico apparso in Wilderness/Documenti N. 4/1998.

(5) Come scrive l’autore, il Maggiore Powell è stato il primo a discendere il Fiume Colorado ed il Gran Canyon, e per tale ragione ritenuto tra i grandi esploratori americani che “vissero” effettivamente lo stato di wilderness di quel paese, quali: Cabeza De Vaca, Jedediah Smith, Lewis & Clark ed altri minori.