domenica 30 dicembre 2007

Diario - 29 dicembre 2007

veduta da Serra Crispo - foto by indio
Il giardino innevato

La Serra di Crispo, con i suoi 2053 metri, è forse il posto più suggestivo dell’intero massiccio, tanto da essere spesso denominato con l’appellativo di “giardino degli dei”, per la suprema bellezza che regna su questa montagna. Con la neve e il ghiaccio che avvolge i rami dei pini loricati lo spettacolo aumenta ancora di più. Sicuramente è in inverno, con la neve, che la montagna rivela i paesaggi e le atmosfere più segrete e misteriose. Sono partito da Mezzana assieme all’amico Vincenzo, instancabile compagno di avventura. L’itinerario inizia dal sentiero delle superbe gole di Fosso Iannace, sentiero che da solo giustifica l’escursione. Mezzana e le altre frazionisono già lontane, giù a valle, avvolte dalla nebbia incessante di questi giorni. Arrivati al Fosso Iannace la nebbia è sparita. Da qui già possiamo vedere il mare di nebbia sospeso sulle valli del Pollino, giù, fino al Monte Alpi e al Monte Sirino. Il sentiero dei Fosso Iannace è ingombro di neve bassa e ghiacciata. Qui dimorano da secoli maestosi esemplari di abete bianco, mentre più sopra, aggrappati alla roccia, troviamo una colonia di giovani pini loricati. Arrivati a Piano Iannace è d’obbigo indossare le racchette. La neve è già qui alta ed asciutta. Siamo diretti al piano di Toscano. Incontriamo uno scoiattolo e una lepre che fugge via velocissima. Per il resto non sembra esserci altra forma di vita animale. Tutto è avvolto dal “silenzio bianco” del gelo e della neve. Al Piano di Toscano ci dirigiamo direttamente alla Serra di Crispo, salendo sui crinali avvolti dal bosco di faggio, che sottostanno alle rocce popolate dai pini loricati. Al giardino degli dei l’atmosfera è veramente fantastica: i pini loricati sono avvolti dal ghiaccio e dalla neve... sembrano quasi degli strani, giganteschi coralli. Dalla cima il paesaggio è mozzafiato: il mare di nubi è sospeso anche sulle valli della Calabria, fino al mare e circonda le vette della Timpa di San Lorenzo e della Timpa di Cassano… La vetta del Monte Sellaro sbuca più indietro dalla nebbia… Ci rifocilliamo un po’, qualche telefonata per salutare amici e persone care, e poi ci mettiamo sulla via del ritorno, scendendo in direzione di Selletta della Porticella e quindi del Piano di Toscano. Purtroppo, visto che le giornate sono corte, bisogna procedere con fretta. L’ideale sarebbe prendersela comoda e campeggiare sulla neve un paio di giorni… magari scavandosi una bella buca nella neve come campo base. Arriviamo al tramonto a Piano Iannace, ci leviamo le racchette e ci dirigiamo di nuovo verso le gole. Sono ormai le cinque e il buio comincia a calare lentamente. Nella neve notiamo un gioco di sfumature e di riflessi rosso – volacei, quasi impercettibile… E’ ora di adoperare la lampada frontale perché il buio avvolge ormai la foresta di faggi e abeti. Procediamo così nell’oscurità sul ripido sentiero, ripercorrendo le nostre tracce dell’andata. Bisogna stare attenti perché c’è il rischio, col buio, di non vedere bene dove si mettono i piedi e quindi di scivolare e cadere. Il cielo sopra di noi è punteggiato da migliaia e migliaia di stelle dalla luce brillante… i faggi e gli abeti slanciati vi si proiettano con le loro sagome scure . Non è facile di solito vedere un cielo così. Le stelle più lontane, a causa delle illuminazioni dei paesi, non si vedono affatto. A Roma, dove studio, ne riesco a notare a malapena una decina! Usciamo dal bosco portandoci sulla strada asfaltata. Il mare di nebbia non ha abbandonato le valli. Notiamo curiosamente che in corrispondenza delle frazioni e dei paesini la nebbia riflette la luce dei lampioni… E’ un bellissimo effetto. Sotto di noi, verso il fossato e sul lato sinistro della strada, sentiamo i caratteristici grugniti di una mandria di cinghiali... L’escursione è finita e come sempre il Pollino, con le sue meraviglie e le sue suggestioni,ci ha ricompensati delle fatiche dell’escursione…

martedì 27 novembre 2007

Immagini d'autunno

fiocchio selvatico - foto by indio
Erano anni che non scendevo d'autunno a casa. Uno studente universitario fuori sede in genere si fa a casa Natale, Pasqua e le vacanze d'estate. Qui in città l'autunno è come se non esistesse. Per capire cos'è l'autunno bisogna quindi farsi un giro in montagna. Ai primi di novembre ho potuto, fuggevolmente, scendere in Basilicata per qualche giorno, nella mia terra. In questo periodo il paesaggio attorno al mio piccolo villaggio è un'esplosione di colori. Si va dal giallo acceso dei pioppi che costeggiano i torrenti, all'arancione, al rosso cupo delle foreste di faggio. Ogni albero ha il suo colore o la sua varietà di colori. Non ho potuto organizzare un'escursione, in montagna, ma ho deciso lo stesso di uscire fuori, attorno alla mia casa, per catturare gli scorci d'autunno del nostro Pollino, fatti non solo di paesaggi, ma di odori, di sapori, di abitudini che ritornano dopo ogni anno. Fotografo le case lungo le stradine e la chiesetta del paese attorniata di alberi dai colori più svariati. Il ciclo della natura si ripete, come si ripetono le attività e gli antichi mestieri dell'uomo legati ad esso; si ripetono le stesse immagini. Mi reco poi nel mio orto alla luce tersa del mattino. Anche qui c'è coacervo di colori e sensazioni. Avverto una gradevole sensazione di pace. Il mio gatto gioca spensierato, mia madre raccoglie la verdura nell'orto. Gironzolo divertendomi a catturare immagini di gocce d'acqua sugli ortaggi, piante di granoturco ormai secche, cesti di noci e di castagne, foglie colorate delle piante da frutto... Nessun soggetto è banale. Tutto può avere in sè una sorta di poesia, che si manifesta in particolari momenti... Anche una goccia su una foglia può dire molto a chi ha occhio e un pò di sensibilità . Romanticismo a parte, molti fotografi della natura spesso non vanno chissà dove per fare i propri capolavori. Basta anche un prato, un orto, per mettersi alla ricerca di un'immagine che ritragga lo stupore e la bellezza della natura (ovviamente ci vogliono gli strumenti adatti, come magari un costoso obiettivo macro... ma questo è un altro discorso... ) La bellezza non è oggettiva, sta a noi saperla cercare, sta a noi riuscire a carpire quei momenti in cui la natura ci rivela le sue immagini segrete..

giovedì 22 novembre 2007

Il progresso... verso la distruzione

Il concetto di progresso è stato l’ideologia motore, per certi versi, della modernità. L’idea comune che dominava la mentalità collettiva era che, con la crescita economica, l’industrializzazione e in generale con il dominio spinto sempre di più dell’uomo sulla natura l’umanità avrebbe progredito verso una meta fatta di felicità e benessere. Per il liberalismo era l’economia di mercato, la libera concorrenza e la creazione di nuovi bisogni indotti i fattori che avrebbero rivoluzionato in meglio le possibilità della civiltà umana. Contro questa ideologia si è sempre battuto il socialismo e i suoi teorici, i quali facevano anch’essi propri l’idea di progresso, ma interpretandola come il risultato della lotta che il proletariato avrebbe condotto contro la borghesia per l’edificazione di una società senza classi, la quale avrebbe enormemente sviluppato le capacità produttive dell’umanità in funzione dei bisogni sociali (e non del profitto). Tutti comunque fino alla fine del Novecento non mettevano in dubbio l’idea del carattere progressivo del mutamento storico. Oggi questa idea che ha dominato la mentalità e la cultura occidentale per secoli, sembra ormai in crisi. Qualcuno forse pensa davvero che progrediremo, viste le condizioni, verso il meglio? Se esiste o è un ignorante, un idiota oppure un individuo in malafede. Il futuro appare funesto e nell’immaginario collettivo si è imposta la convinzione che l’uomo debba pagare prima o poi i costi di un sistema economico che si è servito senza freni delle risorse naturali per sfruttarle senza mai pensare agli effetti sull’ecosistema. Ma ecco, siamo arrivati alla resa dei conti. E il giustiziere che appare all’orizzonte è proprio la natura. La natura “si ribella” agli scempi della civiltà umana, la civiltà delle grandezze apparenti e dello strapotere illusorio dell’ingegno umano. La civiltà dei grattacieli, delle grandi fabbriche che inquinano, delle auto lussuose che sfrecciano a 300 all’ora su strade di cemento che vogliono arrivare dovunque oltraggiando persino le maestose barriere montuose; la civiltà del nucleare e della corsa ad armamenti sempre più potenti, della distruzione di culture millenarie in armonia con la natura e delle metropoli del Terzo Mondo affollate di poveri disperati; la civiltà che ha annullato il rispetto per la vita e per la bellezza della natura; la civiltà che tratta ogni essere alla stregua di un oggetto senza anima, sia esso animale, pianta o persona, da sfruttare, perseguitare, uccidere, usare sempre e comunque per qualche fine utilitaristico. E’ la nostra civiltà, fondata sull’arroganza e sull’ignoranza, che impone stili di vita alienanti e massificanti, che si nutre di sofferenze continue, guerre e catastrofi ambientali … una civiltà che alla fine dei conti è fondata a voler ben vedere proprio sulla follia. Ma la natura sta cambiando e si rivolge contro questa civiltà della distruzione. I ghiacci si sciolgono, il clima cambia, gli uragani tempestano la terra, la siccità avanza desertificando vaste aree del pianeta e il mondo appare giorno dopo giorno più povero e più squallido. Ma che ci importa della natura? Il nostro progresso ci ha dato tante belle cose … il telefonino all’ultima moda, la televisione, i prodotti di bellezza, l’autostrada a dieci corsie, centri commerciali sfavillanti di luce, le notti bianche del consumismo sfrenato, i vestiti sgargianti alla moda e le vacanze nei villaggi turistici su costiere cementificate a dovere. Sono o non sono questi i grandi progressi dell’umanità? Ma siamo davvero progrediti? Lo sviluppo di una scienza e di una tecnologia che viene adoperata per distruggere e avvelenare rappresenta una conquista per l’umanità? Ancora c’è chi si ostina a definire le critiche degli ecologisti solo dei futili allarmismi … cose insignificanti; denunce di gente un po’ tonta che gioisce per gli uccellini che cinguettano e pensa solamente a come salvare i panda dalla distruzione; gente fanatica che ci vorrebbe far tornare indietro all’età della pietra! Ma non viviamo del resto in quello che il filosofo Karl Popper ha definito, riferendosi al Novecento, come il migliore dei mondi possibili, nonostante tutto? Per il filosofo liberale le due guerre mondiali, i totalitarismi, la fame nel Terzo Mondo, i disastri nucleari e chi più ne ha più ne metta sono stati solo una bazzecola. I critici della modernità rappresentavano per Popper i nemici della “società aperta”. Sarà. Pace anche all’anima sua... E così andiamo avanti, ancora, senza tregua. Non si pensa a come salvare in extremis questo mondo alla deriva, ma a come fare in modo che riprenda la crescita economica, a come essere competitivi sui mercati, a come partecipare alla spartizione imperialista del pianeta, alle grandi opere con le quali distruggere quel poco di ambiente che ci sta attorno. Il liberalismo è ormai la nuova religione. E il gergo liberale ammanta ormai anche i discorsi dei moderati “di sinistra”; di coloro che da giovani si proclamavano rivoluzionari e che adesso guardano al capitalismo come a qualcosa di ineluttabile, ad un sistema quasi "naturale" che dobbiamo alimentare nonostante stia scavando la fossa a questa povera umanità. Ma il cinismo dei cosiddetti moderati caratterizza ormai sia la destra che la sinistra. Cosa ha rappresentato questo progresso per l’umanità, dove ci sta portando? La promessa della civiltà capitalistica è consistita nella prospettiva di un benessere fondato sul consumismo, un consumismo che pervade ogni aspetto della vita delle persone, di quelle ricche e di quelle povere, anche di quelle che quindi non possono consumare. L’aspetto dominante della vita è diventato quello della quantificazione, del possesso, per cui ogni cosa ha valore soltanto nella misura in cui questo valore è misurato in termini economici. Per dirla con Erich Fromm è la modalità dell’avere a dominare ogni aspetto delle relazioni sociali, in questo mondo usa e getta. La ricerca ossessiva dell’opulenza, di oggetti di cui circondarsi, di status symbol recanti comunque il richiamo al prestigio ed alla ricchezza sono i tratti dominanti della nostra epoca. Ed in una società fondata sull’opulenza una profonda voragine separa chi sta all’estremo positivo di questa opulenza e chi all’estremo negativo, quell’estremo che è rappresentato dalla miseria e che si configura come la base e la condizione perché pochi ricchi si approprino delle ricchezze a scapito della maggior parte di coloro che ne sono esclusi. La ricchezza cioè esige la povertà... è una storia vecchia. Le periferie del mondo sono piene di gente affollata nelle baraccopoli delle grandi metropoli, di gente che ha reciso i legami con la propria terra ed è stata costretta ad emigrare. Sono quelle che Zigmunt Bauman chiamava efficacemente le vite di scarto, i soggetti ingombranti di questa civiltà dei rifiuti. Intanto una classe di pochi privilegiati ingrassa sulla distruzione e la miseria del mondo. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo procede di pari passo allo sfruttamento dell’uomo sulla natura, la cui distruzione si configura ovviamente necessaria per la sopravvivenza di un modello di sviluppo fondato sulla corsa irrefrenabile al saccheggio delle risorse naturali, per produrre beni che a loro volta infittiscono i danni all’ambiente. Questo modello è ben rappresentato dalla selvaggia crescita economica della Cina, in meno di un decennio, che come un incubo ha ricalcato lo sviluppo moderno del capitalismo industriale che si era protratto in Occidente in un lungo arco di tempo. Questo modello di sviluppo economico ha in sé ancheuna sua valenza ideologica fondata su alcune assunzioni di base. Si prevede che l’uomo debba vivere in megalopoli affollate e inquinate, che si debba costruire e cementificare sempre di più, che non ci sia limite al reperimento delle risorse naturali, che la natura sia qualcosa di cui disporre a nostro piacimento, che il lavoratore non sia altro che un manichino che debba lavorare come una bestia per ore e ore; che nel consumismo si realizzano le aspirazioni fondamentali delle persone. La nostra civiltà dominata dalla tirannia si rivolge così allo stesso tempo contro l’uomo e contro la natura. Il modello di sviluppo economico dominante è fondato sull’anarchia del libero mercato, sullo strapotere delle multinazionali, sulla fine di ogni tipo di criterio razionale nella gestione delle risorse naturali. Già è opinione di molti studiosi che l’uomo ormai debba adattarsi ad un mondo che sta cambiando, un mondo caratterizzato dall’avvento della catastrofe ambientale, il che configura uno scenario davvero apocalittico. L’idea di progresso viene quindi a scemare. Ma l’avvento della crisi ambientale schiaccia per sempre le nostre illusioni. La coscienza che ormai alcuni danni sono irreparabili e avranno conseguenze nel futuro immediato sminuisce in qualche modo la fede nella speranza in un mondo e in un uomo nuovo. L’idea utopica permeata dall’ideologia del progresso di un “regno della libertà”, di un mondo migliore emancipato da guerra e sfruttamento rimane sempre attuale e necessaria, ma perde forza, perde quell'alone di grandezza e luminosità che la circondava in passato, di fronte alla gravità della crisi ecologica. I dati parlano chiaro: senza cambiamenti immediati il riscaldamento globale aumenterà la sua intensità. Invece dell’ altro mondo possibile vediamo stagliarsi le ombre minacciose della distruzione che incombono sul destino di tutti gli esseri viventi. Se anche venissero apportati dei mutamenti nella struttura del sistema economico le conseguenze degli sconvolgimenti attuali non potrebbero essere invertite, se non fra centinaia d’anni. Ciò che possiamo fare è solo evitare che si producano gli effetti più nefasti. Anche in presenza di cambiamenti decisivi a livello politico nei prossimi decenni non si può più tornare indietro. Il mondo non sarà più lo stesso. L’uomo del futuro forse si abituerà agli sfaceli che verranno. Forse ci sarà una mutazione antropologica e l’uomo si adatterà a vivere ancora meglio nel mondo artificioso e artificiale che si è costruito attorno come un guscio protettivo. Non farà forse più caso a ciò che mancherà sulla terra, come le estese foreste del passato o i ghiacci perenni che avvolgevano le montagne. Accetterà come la norma le estati torride e gli uragani che spazzano via ogni cosa. Si adatterà con l’aiuto della tecnologia. Non gli importerà degli animali selvatici che un tempo solcavano i cieli e le acque della terra, non darà più importanza agli spettacoli mozzafiato della natura a cui ancora oggi si può assistere. Di sicuro la prospettiva non è allettante, anzi, a dir poco parecchio squallida. Coloro che si impegnano per trasformare la società devono abituarsi e adattarsi al destino di un mondo sconvolto dalla crisi ambientale. Non ci resta che lottare caparbiamente affinché si possa salvare il salvabile. Questa prospettiva lascia poco spazio ai sogni del passato su un avvenire splendido e luminoso per l’umanità. Svanisce per sempre l’ideale post – illuminista del progresso, seppellito dalle macerie della civiltà capitalistica. Solo fino ad un certo punto si potrà abolire lo stato di cose presente. Le cose potrebbero cambiare solo con una profonda trasformazione dell’economia e con politiche esclusive determinate a riparare, con l’aiuto di tecnologie sofisticate, i danni enormi prodotti all’ambiente naturale. Ma abbiamo ormai poco tempo. Ciò sarà possibile solo con un mutamento profondo della nostra visione del mondo. Il conflitto oggi estremizzato dell’uomo con la natura è il frutto di una determinata mentalità, che non casca dal cielo ma nasce direttamente con la proprietà privata e l’evoluzione del capitalismo. Ma dove risiede la sostanza di questo problema epocale? L’ideologia della civiltà occidentale (a cui non è immune nemmeno l’intellighenzia di sinistra) ha sempre considerato l’uomo il centro del mondo. La visione dominante dei nostri tempi è stata ed è antropocentrica. Questa visione è viziata da un errore di fondo: il fatto di non aver mai voluto vedere, che l’uomo è parte della natura (come invece notava Engels acutamente centocinquanta anni fa). All’uomo non tutto è permesso proprio in quanto egli appartiene ad un equilibrio nel quale sono inserite tutte le specie viventi. L’immagine propagandata dalla modernità è quella di un uomo il quale ha pensato invece che tutto fosse possibile, che egli fosse un essere superiore rispetto agli altri esseri viventi, che potesse disporre di tutto e di tutti. Il paradosso dell’antropocentrismo risiede proprio nel fatto che nel corso dello sviluppo storico l’uomo, nel suo eccesso di megalomania, ha pensato con potersi rivolgere contro la natura, ma facendo ciò non ha fatto altro che rivolgersi contro se stesso: proprio perché alla fine dei conti noi non siamo esterni alla natura ma parte di essa; ogni danno fatto alla natura lo facciamo di conseguenza a noi stessi. La prospettiva opposta a quella antropocentrica è quella ecocentrica, una prospettiva culturale, etica e sociale che non può trovare uno spazio reale nel sistema socioeconomico attuale. Si possono cambiare le cose cambiando il modo di pensare della gente? Mi pare proprio di no. Resta valida l'affermazione di Marx, secondo cui "non è la coscienza che determina l'essere, ma l'essere che determina la coscienza". Senza una rivoluzione che spazzi via il marcime della società attuale sarà impossibile salvare sebbene in extremis, il pianeta. Senza un cambiamento nelle strutture produttive della società ogni nostro tentativo sarà vano. Cos'è l'ecocentrismo? Esso fa riferimento ad una convivenza pacifica e armonica con la natura e i suoi cicli biologici, nella convinzione che dalla natura possiamo prendere quello che ci serve, ma solo il necessario per soddisfare i nostri bisogni vitali. Secondo questa visione del mondo l’uomo non è un essere creato da un Dio e così superiore da meritarsi l’anima dopo la morte o il paradiso, come vogliono il cristianesimo e le altre religioni monoteiste, ma un essere come gli altri, sicuramente diverso, ma che deve obbedire come gli altri esseri alle leggi imposte dalla natura e non oltrepassare certi limiti. Nella prospettiva ecocentrica l’uomo è così legato agli altri esseri viventi, ne dipende, è inserito in una rete di relazioni biologiche in cui ogni elemento influisce sull’altro e ne viene a sua volta influenzato. L’uomo ecocentrico ha un profondo rispetto per gli altri esseri viventi e per le stesse forze naturali come il vento, l’aria e l’acqua. La cultura non si pone in antagonismo con la natura ma cerca l’equilibrio con essa. Era questa la visione ecologica dei popoli disprezzati per secoli come “primitivi”, i popoli tribali (Marx , a proposito di questi popoli, aveva parlato giustamente di “comunismo primitivo”). L’uomo non può così fare a meno della natura, perché ne dipende ed ogni contaminazione e manipolazione della natura non può che ritorcersi anche contro l’umanità. La prospettiva di Marx era “socialismo o barbarie”. Il socialismo non è stato mai realizzato … riusciremo ad evitare la barbarie imminente?

domenica 28 ottobre 2007

Jack London e l'amore della vita

“Di tutto, questo è rimasto:

l’aver vissuto e l’aver lottato

Questo sarà il guadagno del gioco,

anche se sarà perso l’oro della posta.”

Jack London è uno dei miei scrittori preferiti, forse l'unico scrittore che io consideri quasi come un "compagno" o un "amico". Jack London è uno dei grandi nomi della letteratura americana, ed uno degli autori più letti a livello mondiale. La critica accademica non gli ha concesso mai una grande considerazione. Ma si sa, la critica ufficiale è stata, ed è a volte tuttora, restia ad accogliere gli autori dalla vita tumultuosa, le cui vicissitudini si ripercuotono direttamente nelle pagine dei loro libri, gli scrittori innovativi e quindi (perché no?), anche contraddittori. Basti pensare che Melville, uno degli autori ormai considerati tra i pilastri della narrativa americana, con il suo capolavoro che è Moby Dick, si affermò come figura letteraria importante solo molto tempo dopo la sua morte, avvenuta in mezzo alla povertà ed all’incomprensione più totale. L’accostamento a Melville non è casuale, perché, se ne dispiacciano o no i critici ufficiali, Jack London appartiene a quel genere di narrativa che ha fatto grande la letteratura americana. E’ quella letteratura che ha la sua dimensione più importante nel “vissuto”, nell’irrequietezza e nella spinta alla ricerca di se stessi. E’ la vita vissuta che fornisce la materia sulla quale far derivare l’ispirazione letteraria. La vita di questi autori è però anche una vita un po’ particolare . La letteratura di questi scrittori è incentrata cioè su dure esperienze esistenziali, sulla vita di strada, a contatto con reietti e avventurieri, su viaggi ed avventure in luoghi selvaggi. Jack London appartiene alla schiera di questi autori e merita un posto d’onore nell’olimpo dei grandi scrittori americani. Come scrisse Andrew Sinclair, biografo di Jack London:

''“Quelli che seguirono il suo modo drammatico di vita e la sua maniera di scrivere nervosa e disadorna, come Ernest Hemingway, dimenticarono di attribuirgli il merito d’avere inventato uno stile che aveva più contatti con l’Alaska di London che con la Parigi di Gertrude Stein. Jack ricevette anche pochi ringraziamenti da John Dos Passos o da Steinbeck o Kerouac per avere precorso il romanzo ‘vagabondo’ con The Road. Norman Mailer non ha mai lodato lo scrittore che, con estrema immediatezza, ha preso il pugilato come argomento di alcune delle sue cose di giornalista e scrittore”.

Jack London comincia già da ragazzo a fare vita di strada. Giovanissimo si imbarca in un battello diventando pirata di ostriche. Parteciperà alla caccia alla foca nel mare di Bering. Subito dopo si unirà ad un esercito di disoccupati diretti a Washington , facendo vita da vagabondo tra vagoni di treni, strade di campagna e una prigione(queste esperienze saranno raccolte nel volume “La Strada”). Comincia giovanissimo a divorare libri di ogni genere. Saranno soprattutto i saggi che leggerà ad influenzare non poco la sua ispirazione letteraria: tra i suoi autori preferiti figureranno Darwin, Marx, Nietzsche e Spencer, autori che diventeranno la fonte delle sue ispirazioni letterarie. Un’esperienza di vita decisiva per la sua produzione letteraria sarà quella della corsa all’oro nel Klondide, tra il 1897 e il 1898. In uno dei suoi più celebri racconti scriverà: “Di tutto, questo è rimasto: l’aver lottato e l’aver conosciuto. Questo sarà il guadagno del gioco, anche se sarà perso l’oro della posta”. Va detto che questa frase stupenda riassume un po’ tutta la personalità del nostro formidabile autore, che ha espresso bene nella sua opera l’amore per la vita, lo slancio dell’individuo che non si arrende, che vuole conoscere e lottare, che vuole confrontarsi con la realtà, sia che si trovi alle prese con il deserto di ghiaccio del Klondide , con le onde tempestose dell’oceano e sia che si trovi nei bassifondi di una metropoli come la Londra di inizio Novecento. Dal Klondide London tornò con pochi grammi d’oro; altro era però il tesoro che egli portò con sé: l’enorme mole di esperienze personali, vissute ai “limiti”, a contatto con la wilderness del Grande Nord e con il bagaglio delle storie che circolavano tra i cercatori d’oro, storie violente, estreme e affascinanti, nelle quali il coraggio, i difetti e le virtù umane venivano duramente sollecitate. Forse è proprio nei racconti del Grande Nord, che Jack London ha dato la migliore prova di sé, con riferimento agli esercizi di stile: “Farsi un Fuoco” , per primo, e poi “L’amore per la vita”, “Batard”, “Perdere la faccia”, “Il silenzio bianco”, “In un paese lontano”, “La legge della vita”, “L’imprevisto” e tanti altri, restano i suoi piccoli capolavori. In questi racconti che si leggono tutti d’un fiato, dall’intreccio e dal ritmo avvincente e coinvolgente, vediamo aggirarsi uomini e cani in ambienti off-limits , alle prese con territori ostili, con una natura che mette alla prova l’individuo o gli individui, facendo cadere molte loro illusioni, consuetudini e valori che essi si portano con la civiltà. Siano essi uomini, cani o lupi, tutti sono decisi a lottare per quell’ “amore della vita” che alla fine forse risulta essere uno dei nodi, oltre che letterari, anche esistenziali nell’opera di Jack London (potremmo parlare quasi di vitalismo in proposito). Il confronto con la natura selvaggia, con il Wild, con i suoi pericoli e le sue avversità è sicuramente uno dei temi centrali in molti racconti e romanzi di Jack London. In pochi altri scrittori si ritrova una tale forza ed incisività narrativa nella rappresentazione del mondo selvaggio. Un fatto importante da notare è che Jack London non ha mai proposto però una visione romantica della natura. La tentazione di cascare nel romanticismo è stata ed è sempre forte per gli scrittori che si confrontano con la bellezza delle grandi distese selvagge. L’armonica bellezza della natura ovviamente emerge a volte nelle sue storie, ma quasi fuggevolmente, come in questa descrizione presente ne “Il canyon tutto d’oro”:

''“Ogni cosa si muoveva fluttuando nel cuore del canyon. I raggi del sole e le farfalle fluttuavano avanti e indietro tra gli alberi. Il ronzio delle api e il mormorio del torrente erano un fluttuare di suoni. E il fluttuare dei suoni e il fluttuare dei colori parevano intrecciarsi insieme per creare una trama impalpabile che non era lo spirito del luogo. Era lo spirito di una pace che non era quella della morte, ma di una vita dal pulsare lieve, di una calma che non era silenzio, di un movimento che era azione, di una serenità palpitante di energia, senza la violenza della lotta e della fatica. Lo spirito del luogo era lo spirito della pace dei vivi reso sonnolento dal placido benessere della prosperità, e non disturbato da voci di guerre lontane”.

Ma la natura è, nell’opera di London, estremamente conflittuale. Nella wilderness vale la lotta violenta per la sopravvivenza, una lotta feroce e senza remore nella quale l’uomo è lasciato in balia del caso e della completa indifferenza della natura. La visione conflittualista di Jack London non è però confinata solo alla natura, ma alla società intera, definita essenzialmente dalla lotta di classe. Con ciò va ribadito che, a differenza di alcuni giudizi stereotipati che si leggono sui suoi libri (magari formulati avendo in realtà letto poco e superficialmente di essa), il darwinismo sociale è estraneo all’opera di London; per egli la lotta per la sopravvivenza e la supremazia del più forte non si trasferiscono meccanicamente dalla natura alla società. La lotta per la sopravvivenza ha come corollario in società la lotta di classe, la lotta condotta dagli emarginati per uscire da quello che egli chiamava “l’abisso sociale”, cioè l’esclusione e l’emarginazione delle classi subalterne, alle quali Jack apparteneva. Nei suoi romanzi e racconti non esistono ambiguità in proposito. Sicuramente egli avrà potuto, di tanto in tanto, su articoli di carattere saggistico e in alcuni racconti più mediocri, fare affermazioni contraddittorie; ma il nostro Jack era uno scrittore, non un filosofo o un teorico del socialismo, ed è la sua opera letteraria che va valutata. Marx e Nietzsche sono stati ugualmente importanti nel dargli la verve creativa; che poi siano incompatibili in un sistema filosofico coerente, be’, questo è un altro discorso. La wilderness sarà anche la protagonista dei suoi due romanzi più conosciuti: “Zanna Bianca” e “Il Richiamo della Foresta”. In questi romanzi si immedesimerà fortemente con cani e lupi e ripercorrerà attraverso le vicende di Zanna Bianca e del cane Buck la tentazione dell’avvicinamento o (di contro) dell’uscita dalla civiltà dell’uomo. Il fatto che egli riesca addirittura a “sentire” ciò che può provare un lupo, la dice lunga sul suo talento di scrittore. Come afferma lo scrittore Lagioia:

“Altra caratteristica di Jack London che tutti gli scrittori venuti dopo di lui non possono fare a meno di invidiare, è la strabiliante capacità mimetica: la facoltà, vale a dire, di mettere credibilmente in scena qualunque tipo di personaggio. Probabilmente sarà stato aiutato dal suo ricchissimo bagaglio di esperienze e da una capacità di osservazione non comune. Ma esperienza e occhio buono non servono a molto se non vengono messi a servizio di un talento quasi demoniaco. Jack London è capace di calarsi con una sconcertante facilità nei panni di proletari, aristocratici, operai, malati di mente, bambini, vecchi, madri, assassini, poliziotti, rivoluzionari, maggiordomi, giornalisti … senza tra l’altro limitare questa facoltà al solo genere umano: quando dalle sue pagine a un certo punto salta fuori un lupo, ci sembra stranamente di essere nella testa del lupo, di pensare insieme a lui; la stessa cosa per orsi, cani, caribù fino ad attraversare una soglia piuttosto inquietante – quella tra organico e inorganico – oltre la quale London può convincerci di essere capace (e noi, leggendo, capaci insieme a lui) di incarnare lo spirito, il senso (il pensiero?) di una distesa di neve, di un ruscello, di una roccia, di un cadavere, di una locomotiva. Ci vuole un talento quasi demoniaco, dicevo, perché la sensazione è che London possegga letteralmente ogni cosa, vivente e non vivente, che gli capita a tiro.”

Nelle vicende di questi due romanzi tornano cari a Jack London i temi classici presenti anche nei racconti del Grande Nord: l’adattamento all’ambiente e la lotta per la sopravvivenza e la supremazia, il confronto con la natura e il mito della forza. Eccezionale è la prima parte di “ Zanna Bianca”. I capitoli dedicati al lupetto che esce dalla tana trovandosi davanti ad un mondo del tutto nuovo e sconosciuto per lui, con le sue forze e i suoi elementi naturali, racchiudono a mio avviso alcune delle pagine più belle di London. Un motivo che sarà presente anche in altri libri si riferisce alla . . . ricerca dell’amore. Zanna Bianca e Buck, dopo aver vissuto sulla propria pelle le crudeltà di avventurieri senza scrupoli, che li utilizzano come cani da lavoro e da combattimento, scoprono, alla fine, il sentimento di solito umano, ma in questo caso anche animale, dell’amore, che essi ritrovano nell’incontro con un padrone buono (il “dio buono”). I due animali, a metà tra lupi e cani, dall’identità problematica (come è stata del resto, quella di Jack London) faranno il percorso inverso. Buck, dalla civiltà simboleggiata da una villa in California arriverà , alla fine del romanzo, a vagare con i lupi: a ritrovare, seguendo i suoi istinti primordiali, l’antico stato selvaggio; Zanna Bianca verrà invece addomesticato come un cane, e si ritroverà anch’egli in una villa immersa nel sole della California, ma alla fine del libro, alla conclusione del suo percorso di avvicinamento all’uomo. A scoprire con ardente passionalità il sentimento dell’amore sarà anche Martin Eden, il protagonista dell’omonimo romanzo autobiografico di Jack. Per amore di una ragazza dell’alta borghesia, Martin si impegnerà con tutte le sue forze per uscire dall’emarginazione sociale e dal mondo della strada, trovando nei libri e nella vocazione dello scrittore la più grande forza di emancipazione personale. La perdita dell’amore con l’abbandono della ragazza, che mai riuscirà a capire un ragazzo del proletariato come lui (infarcita com’è di pregiudizi piccolo-borghesi) e la crisi di identità che sopravverrà con il suo successo come scrittore, ormai distaccato sia dal popolo che dalla borghesia, emarginato da una società che gli appare ormai come estranea, porteranno Martin Eden -Jack London al suicidio. Secondo Amoruso:

“ . . . quella di Martin Eden è una classica storia americana di successo e di fallimento da romanzo naturalista, non dissimile da quelle che scriveva un romanziere come Frank Norris (McTeague,1899). London ne accentua i tratti deterministici, e in particolare i nessi paradossali di una ironia tragica, grazie ai quali l’ascesa sociale del protagonista è narrata come una progressiva regressione autodistruttiva, verso una condizione di deserta solitudine, da animale in trappola, dentro rapporti sociali ipocriti e menzogneri che lo stritolano e ne inceneriscono ogni futuro possibile. Tutte le varie, accelerate tappe di educazione alla realtà sono in realtà un riavvolgersi della sua vita all’indietro, un finto progredire che, in realtà, mette a nudo passo dopo passo la giungla spietata, l’arida, immutata terra desolata del suo presente, perché in esso nessun futuro, nessun affrancamento e nessuna utopia sono davvero possibili.”

Martin Eden è anche la storia di una vocazione letteraria. La storia di un proletario, un robusto ragazzo di strada, che scopre la letteratura e i nuovi orizzonti che i libri possono farci dischiudere. E’ anche il racconto di un uomo estremamente sensibile che cerca di uscire dall’ “abisso sociale”, con le proprie forze, sia mentali che fisiche, con la caparbia determinazione a superare gli ostacoli. Si ritrova anche qui l’impulso volontaristico dell’individuo, l’amore della vita che conduce a sfidare se stessi e le forze insormontabili dell’esclusione sociale. L’individualismo , in questo senso, è presente in Jack London, ma da ciò non discende che egli fosse un individualista. Il fatto è che Jack , come abbiamo detto, era un ragazzo della working class e, come egli stesso scrisse una volta in una lettera, aveva contato solo sulle proprie forze per non cadere nell’ abisso sociale nel quale era destinato a precipitare. Questo spiegherà nel saggio "Perché sono diventato socialista":

"(incontrai) marinai, soldati, lavoratori, tutti straziati e distorti e sformati dal lavoro, dagli stenti e dalla sorte, e abbandonati alla deriva dai loro padroni come fossero cavalli invecchiati. Io mi trascinai in giro con loro, e sbattemmo insieme molte porte; o tremai insieme a loro dentro vagoni abbandonati e nei parchi pubblici, ascoltando in continuazione storie personali che iniziavano con gli stessi auspici della mia vita, con uno stomaco e un corpo buoni quanto il mio o anche migliori, e finite lì, davanti ai miei occhi, nel mattatoio in fondo all'Abisso Sociale. E mentre ascoltavo il mio cervello cominciò a funzionare. La donna di strada, l'uomo dei bassifondi si fecero sempre più vicini a me. Vidi l'immagine dell'Abisso Sociale con la nitidezza di un oggetto concreto, e in fondo all'Abisso vedevo loro, e me appena sopra di loro, che mi aggrappavo alle pareti scivolose con l'unico aiuto dei muscoli e del sudore. [ ... ] Penso sia chiaro che il mio individualismo aggressivo mi fu tirato fuori a martellate, mentre qualcos' altro mi veniva inchiodato dentro con la stessa forza. Ma, proprio come ero stato individualista senza saperlo, adesso ero socialista senza saperlo, e per di più, un socialista non scientifico. Ero rinato, ma non avevo avuto un nuovo nome, e mi aggiravo freneticamente cercando di sapere cosa fossi."

Solo con la sua caparbia volontà e forza interiore e dopo tanti sacrifici, riuscì alla fine a diventare uno degli scrittori più pagati d’America. La fama e il successo non faranno però di lui un uomo felice, ma anzi gli procureranno un sacco di guai originati da investimenti di denaro sbagliati (ma non solo), tanto che cadrà anche negli eccessi dell’alcool: in un altro grande libro “on the road”, uno di quelli meglio riusciti e completamente autobiografico, “John Barleycorn”, racconterà il suo rapporto di amore-odio con l’alcool, dall’adolescenza fino all’età adulta. Jack London lungi dall’essere ideologicamente individualista era invece anche un militante socialista, uno scrittore che ha lottato per trasformare la società. Molti critici marxisti esalteranno London proprio per le opere di carattere sociale, incentrate sulla lotta di classe e sulla vita del proletariato delle metropoli. “Il Tallone di ferro” si colloca al primo posto in questa parte della narrativa di London. Tra i militanti di sinistra ebbe sempre molto successo; era uno dei libri preferiti di Lenin ed ebbe l’onore di essere pubblicato in un’edizione con l’introduzione di Lev Trotskij. La visione di Jack London sul futuro della società umana però non è ottimistica. Dirà in una sua lettera: “Vedo anni e anni di guerre e sofferenze per la classe operaia. Vedo una classe media ferocemente disposta a tutto per non perdere il potere”. In questo romanzo di fantapolitica riuscirà addirittura quasi a profetizzare, inconsapevolmente, l’avvento del fascismo e del nazismo, quando parlerà delle “Centurie Nere”, i mercenari pagati (nel romanzo) dal grande capitale per reprimere il movimento operaio organizzato. Altra opera di carattere sociale e di denuncia risulta essere “Il popolo dell’abisso”, una sorta di inchiesta sociologica basata sul resoconto di un’estate passata da Jack nei bassifondi più miseri e degradati di Londra. Viene subito in mente l’accostamento con un’altra opera di uno dei colossi del pensiero contemporaneo: “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, realizzata da Engels ad appena venticinque anni; una delle prime inchieste sociologiche basate sulla tecnica dell’ “osservazione partecipante”. Dirà Jack nella sua introduzione al libro:

“Sono sceso nei bassifondi di Londra, come un esploratore penetra in regioni inesplorate. Ero deciso a credere solamente a ciò che avrei visto, piuttosto che agli insegnamenti di coloro che avevano scritto senza vedere, o alle parole di coloro che avevano visto e se n’erano andati prima di capire. Inoltre portai con me alcuni semplici criteri per giudicare il mondo sub-umano. Tutto quanto produce maggiore intensità di vita, di salute morale e fisica, è buono; invece, tutto quanto ferisce la vita, la falsa e l’avvilisce, è cattivo.”

Anche questo libro, pieno di tensione morale, non è a ben vedere tanto dissimile da quelli dedicati allo Yukon e alla corsa all’oro. Nelle affermazioni riportate sopra egli fa, come si nota, il confronto con l’esploratore della natura. Cambia lo sfondo dell’azione ma l’intento è sempre lo stesso: non avere paura di confrontarsi col mondo, con le sue miserie e le sue avversità; non avere paura di cercare, di conoscere e di avventurarsi nei contesti ambientali più disparati. Jack denuncerà le terribili condizioni di vita di milioni di diseredati, causate da un sistema economico ingiusto e disumano com’è stato e com’è tuttora il capitalismo. Nel finale del libro, Jack procederà ad un confronto con la vita dei popoli “primitivi”, che egli aveva conosciuto bene in Alaska, e si domanderà se la nostra civiltà , quella industriale, abbia davvero migliorato la vita dell’umanità:

“Allora si pone quest’altra ineluttabile domanda: Se la civiltà ha realmente aumentato la potenza produttiva dell’individuo, perché non ha, contemporaneamente, migliorato le condizioni di vita di tutti? A questa domanda c’è una sola risposta: gestione cattiva. La civiltà ha reso possibile molto benessere materiale, molte gioie intellettuali, a cui l’uomo del popolo inglese non partecipa affatto. E se, per sempre, deve esserne escluso, la civiltà ha fallito la sua missione, e non c’è nessuna ragione perché continui un’organizzazione artificiosa che ha dimostrato in modo così flagrante il suo fallimento. Ma è impossibile che gli uomini hanno costruito invano questo tremendo artificio. Ecco quel che l’intelligenza si rifiuta ostinatamente di ammettere. Accettare una tale disfatta, significherebbe dare il colpo di grazia allo sforzo e al progresso umano. C’è una sola alternativa possibile: costringere la civiltà a migliorare le condizioni di vita del popolo.”

Dopo quasi cent’anni dalla morte di Jack, il progresso della civiltà umana continua ad essere segnato dalle ombre della distruzione e della morte, da guerre e carestie. Le tue domande restano attuali caro Jack, e la sensibilità, la passione che hai messo nella tua vita e in quei libri che noi ancora continuiamo a leggere, il tuo slancio vitale, restano per noi una fonte inesauribile di ispirazione . . .

Principali libri di Jack London:

Racconti dello Yukon e dei Mari del Sud – Mondadori;

Racconti del Grande Nord – Newton Compton;

Zanna Bianca – BUR; Il Richiamo della foresta – Mondadori;

Martin Eden – BUR;

La strada – Einaudi;

Il Tallone di Ferro – Feltrinelli;

John Barleycorn – Acquerelli;

Il popolo dell’abisso – Sonzogno;

mercoledì 5 settembre 2007

Amico e alleato

Il cane è il compagno ideale per andare in montagna. Nel Pollino come in tutte le montagne ha costituito sempre un lavoratore infaticabile per condurre le greggi e difendere le bestie dagli attacchi dei lupi, per cacciare e scovare la selvaggina. I pastori un tempo fabbricavano per i loro cani dei collari di filo spinato o di cuoio ornati di chiodi, in modo da impedire che venissero azzannati dai lupi alla gola. Nelle escursioni capita di incontrare dei cani da pastore stupendi. Non bisogna aver paura di loro, anche perchè il cane da pastore è un animale molto docile. Spesso si limiteranno ad abbaiarvi. Altre volte i cani vi verranno incontro. In questi casi i cani si avvicineranno a voi e vi annuseranno, quasi come se volessero individuarvi, conoscere chi siete. Ho adottato sempre la solita strategia e mi è andata sempre bene, anche durante le prove "di fuoco". Un giorno, nei pressi del Monte Pilato, passo nelle vicinanze di un gregge di pecore. I cani, cinque o sei e tutti grossi, si accorgono di me e minacciosi sembra che vogliano saltarmi addosso e sbranarmi. Resto fermo, senza impaurirmi. Mi raggiungono da tutti i lati, ma appena hanno l'opportunità di addentarmi si fermano silenziosi ad annusarmi. Il pastore, che intanto stava arrivando allarmato per quello che poteva capitarmi si complimenta con me perchè a suo parere so come ammaestrare i cani! A quanto dicono gli esperti i cani poi percepirebbero dal nostro odore se siamo impauriti o tranquilli. Proprio il fatto di "sentire" la nostra paura li renderebbe più aggressivi. Il cane da pastore non è aggressivo, si limita a fare il suo lavoro: vigilare e "controllare" chi si avvicina al gregge. Il cane in genere diventa aggressivo se gli capita qualcosa che lo fa innervosire, qualcosa di non previsto e che provoca all'animale un senso di disorientamento. Mia nonna una volta rischiò di essere sbranata da due cani da pastore. Erano nervosi perché il padrone aveva venduto tutte le bestie del gregge. Ricordo anche che in un periodo d'assenza di mio padre, il cane da caccia che avevamo all'epoca, il quale era sempre stato docilissimo, era diventato aggressivo nei confronti della gente che veniva a casa nostra. Mio padre ha sempre tenuto dei cani, perché era cacciatore. Soprattutto il cane da caccia è uno spirito libero. Ha bisogno di uscire e correre per i boschi, altrimenti si deprime. Ricordo quando li portavo con me in montagna, per andare a funghi o a legna o quando andavo in bicicletta. Quando era ora di partire saltavano e abbaiavano dalla gioia. Ho perciò abbastanza sconforto quando vedo dei magnifici cani portati al guinzaglio in mezzo al traffico o nei centri commerciali di una città. Non è una bella vita ... nemmeno per loro.

sabato 1 settembre 2007

Diario - 30/31 Agosto 2007

Timpa di San Lorenzo dalla Gola di Barile - foto by Indio

L’anello delle Aquile: Timpa di San Lorenzo - Lisci - Scala di Barile

L’itinerario, percorso assieme all’amico Vincenzo, ha richiesto due giorni di duro cammino con 11 ore di marcia per ciascun giorno. Questo trekking attraversa parte del settore orientale del parco, snodandosi tra enormi speroni rocciosi e gole dai dirupi spaventosi, in un ambiente profondamente suggestivo, aspro e selvaggio. L’itinerario è abbastanza faticoso e per certi versi anche rischioso. Siamo partiti da Acqua Tremola salendo per la strada che risale fino al Rifugio Segheria, passando per la fonte Chidichimo e che poi incrocia la strada di pastori che conduce alla Falconara. E’ un percorso ideale per la mountain bike, in quanto lo sterrato è ben praticabile. La strada dei pastori che risale a destra è stata ribattezzata da noi “il sentiero dei prugni”: infatti è tutta costeggiata di prugni selvatici. Questa strada porta alla Falconara, uno strano sperone roccioso a forma di dente di squalo che si erge per centinaia di metri dai pascoli sottostanti. Più avanti sorge la mastodontica Timpa di San Lorenzo, che adesso ci apprestiamo a scalare. L’ambiente tutt’intorno è spoglio e brullo anche se si trovano boschetti di pino nero e di cerro. Più sopra, in direzione le cime del massiccio del Pollino, comincia l’estesissima foresta della Fagosa, che ammanta di verde le montagne dai versanti est. La zona è tutta caratterizzata da pascoli e seminati con solitarie masserie di pastori. E’ un ambiente che dà un’impressione di desolazione e persino di malinconia, ma forse in questo sta il suo fascino. Arriviamo alla base della Timpa e prendiamo il sentiero, ora segnalato (fin troppo) bene che porta alla vetta. Qui il panorama è eccezionale: sotto di noi, centinaia e centinaia di metri giù scorre il Raganello, che attraversa la gola di Barile, la quale separa Timpa di San Lorenzo dalla selvaggia e imponente Timpa di Cassano. Scendiamo lungo la cresta tenendoci sotto il filo nei pressi dei crepacci e dei punti più scivolosi. Non si può seguire la cresta fino alla fine, perché diventa molto ripida; perciò ad un certo punto bisogna tagliare a sinistra scendendo in direzione delle masserie vicino al paese di San Lorenzo Bellizzi. La zona che bisogna attraversare, senza percorso obbligato perché non c’è sentiero, è quella dei Lisci di San Lorenzo, un ambiente caratterizzato da rocce scivolose e pietrisco e quindi anche un po’ pericoloso. Piano piano, procedendo a zig zag, e dopo circa due ore riusciamo a scendere lungo la dorsale arrivando alle masserie sotto di noi. Questa ha rappresentato la parte più difficile e rischiosa - e quindi anche snervante - dell’intera escursione. Arrivati alla frazione abbiamo bisogno di rifornirci di acqua e per questo la andiamo a chiedere a dei contadini che, molto gentili, ci riempiono subito le nostre bottiglie e scambiano quattro chiacchiere con noi. Procediamo lungo le stradine del villaggio dirigendoci in direzione del torrente Raganello, verso la Gola di Barile. Sono ormai le sette di sera ed è ora di allestire il campo. Ci accampiamo proprio sulla riva del torrente Raganello, così possiamo lavarci un po’, rinfrescarci i piedi e piantare la tenda in piano sulla sabbia. La Gola di Barile ci sovrasta con i suoi inquietanti dirupi rocciosi. Fa molto caldo e il sacco a pelo serve solo come materassino.La mattina dopo sgomberiamo il campo e ricominciamo a camminare. Adesso ci dirigiamo verso la sommità di Palma Nocera, per trovare l’imbocco del sentiero, che attraversa la spaventosa Gola di Barile. Il primo tratto del sentiero è scavato nella roccia e anche molto ripido. Non ci sono parole né basta qualche foto per descrivere lo spettacolo a cui assistiamo lungo il tragitto. In fondo scorre il torrente Raganello e davanti a noi si mostra in tutta la sua imponente maestosità il versante scosceso della Timpa di San Lorenzo, (sulla cui sommità eravamo stati il giorno prima) che si erge dal fondo della gola per centinaia e centinaia di metri. Come sfondo musicale per questo scenario andrebbe bene una delle musiche dei Popol Vuh per i film di Werner Herzog… Ci mettiamo a scherzare su questa nostra fantasia mettendoci ad imitare con la voce una delle loro colonne sonore… Qui crescono abbarbicati alle rocce alberi di leccio e di carpino. Soprattutto il leccio popola moti ambienti rocciosi del Pollino. In posti come questi la natura mostra il volto allo stesso tempo meraviglioso ed inquietante della sua grandezza e della sua supremazia … Poche volte e solo in posti come questi si possono avvertire quelle sensazioni estreme che ci fanno sentire al cospetto delle gigantesche forze naturali. Alla fine comunque, questo sentiero che visto da lontano faceva rabbrividire si rivela invece abbastanza comodo. Sicuramente bisogna stare attenti perché se si scivolasse si finirebbe direttamente in fondo alla gola, sui massi del Raganello. Il sentiero abbandona poi la zona rocciosa attraversando boschetti di leccio e di cerro. Si lascia la gola e si prosegue fino all’incrocio di una strada che scende da Colle Marcione. All’inizio seguiamo, sbagliando, una strada che sembra portare sopra sulla strada asfaltata. Ma ad un certo punto siamo costretti a tornare indietro perché la stradina si perde in un groviglio di rovi e ginestre. E’ solo uno dei tanti sentieri del Pollino che si sono perduti con la progressiva diminuzione del pascolo. Le mie povere gambe sono tutte graffiate e sanguinanti perché sono venuto coi pantaloni corti: la raccomandazione di portarsi sempre i pantaloni lunghi in montagna dovrebbe sempre essere rispettata! Alla fine decidiamo di seguire la strada che sale e che (da come posso notare sulla cartina) porta a Colle Marcione. Nel libro di Braschi l’itinerario dell’Anello delle Aquile prevedeva di scendere giù, attraversare il torrente e poi proseguire verso Sant’ Anna. Ma abbiamo ormai non molte ore di luce davanti e non sappiamo in che condizioni sono i sentieri. Da un giorno e mezzo inoltre, dato che non c'è linea telefonica, non siamo riusciti a telefonare a casa; perciò decidiamo di portarci sulla strada che sebbene lunga, ci condurrà direttamente sotto la Falconara, dalla quale dobbiamo prendere la via del ritorno. La strada, da Colle Marcione, attraversa belle masserie circondate da seminati molto estesi. Un altro pastore, nella sua casetta isolata difesa da due grossi cani neri, ci farà riempire di acqua le nostre bottiglie ormai vuote. Per arrivare alla Falconara ci vorranno tre ore e altre due da lì per scendere ad Acqua Tremola. Questa escursione è stata molto dura, ma la fatica è stata ampiamente ripagata. Di nuovo il nostro Pollino ci ha catturati con la sua possente, meravigliosa bellezza …

domenica 26 agosto 2007

Animali "vaganti"

Capita spesso mentre si è con le auto sulle strade del Pollino di incontrare di notte numerosi animali selvatici. Molti mammiferi selvatici cacciano infatti di notte ed è per questo che li si può incontrare con tanta facilità. Perciò fate molta attenzione di notte a non investire gli animali che sono costretti per colpa nostra ad attraversare la strada durante i tragitti nei loro territori di caccia. L’altra sera con un mio amico eravamo sulla strada che da Voscari va a Viggianello dirigendoci verso Rotonda. Lungo il percorso ben tre volpi e una donnola ci attraversano la strada nel giro di mezz'ora. In questi casi gli animali abbagliati dalle luci restano spesso in mezzo alla strada un po’ frastornati ed indecisi. Al ritorno, sempre lungo la stessa strada incontriamo invece un tasso, animale che non mi era mai capitato di vedere (se non ucciso da mio padre che era cacciatore, quand’ero piccolo). Più avanti invece ci capita di incontrare un animale che all’inizio somiglia ad uno scoiattolo, ma che dopo identificherò come una martora (potrebbe essere anche una faina, ma ha le orecchie troppo grandi). E’ un vero zoo itinerante quello di stasera. E' bello cogliere gli animali nel loro ambiente naturale, anche se l'incontro dura per pochi secondi. Meglio così che vederli in gabbia, imbalsamati oppure uccisi!

mercoledì 15 agosto 2007

Diario 13 agosto 2007

pini loricati sul Monte Pollino - foto by Indio

Monte Pollino cresta sud-ovest - cima - versante nord-est

Il percorso che conduce da Colle Gaudolino alla cima del Pollino è uno di quelli più belli e “frequentati”. L’imbocco è nella parte alta del piano, nella direzione di un gruppo di faggi isolato. Il sentiero si snoda all’inizio in un tratto boscoso con grossi faggi che spesso affondano le loro radici nella roccia per poi sbucare in alto tra le rocce assolate dominate da alcuni caratteristici pini loricati. Da qui si sale in cima senza percorso obbligato. E’ preferibile mantenersi sulla dorsale rocciosa, a sinistra, per godersi lo spettacolo dell'anfiteatro di pareti rocciose popolate da colonie di monumentali pini loricati che sovrastano i boschi sottostanti. Mi allontano dalla sommità della dorsale aggirandomi tra le rocce sottostanti per fare qualche foto un po’ più originale. Per ritornare sulla sommità devo arrampicarmi su enormi massi dalla forma squadrata. In questi casi bisogna stare attenti per il pietrisco scivoloso e perché alcune pietre possono staccarsi e rotolare giù investendoci. Quando ci si aggrappa ad una roccia bisogna perciò assicurarsi che sia stabile. L’arrampicata libera è comunque sempre divertente. E’ una bella giornata oggi, ideale per fotografare il paesaggio. L’aria è tersa e il cielo è pieno di nuvole erranti. In cima sono accampati due escursionisti e altri tre giungono alla meta dopo di me. Dalla cima mi dirigo verso il versante nord – est che scende giù fino a Sella Dolcedorme. Lungo la facile discesa incontro un caratteristico gruppo di piccoli pini loricati. Su questa dorsale sono quasi del tutto assenti grossi pini loricati. Dalla sella (insenatura che separa il Pollino dal Dolcedorme) si prende il sentiero che porta ai Piani di Pollino. L’itinerario che ho scelto è ad “anello” e prevede adesso di percorrere non la strada dell'andata ma un altro sentiero che dai Piani di Pollino conduce alla località di partenza, Gaudolino. Il sentiero si prende dalla strada che conduce a Vacquarro la quale inizia all’estremità sud – ovest dei piani. Il sentiero è quasi pianeggiante all’inizio, poi si fa più ripido scendendo bruscamente al Colle Gaudolino. E’ uno dei tanti sentieri poco frequentati e conosciuti del Pollino. Da Gaudolino si discende fino a Colle Impiso…

mercoledì 1 agosto 2007

Diario - 29 luglio 2007

paesaggio da Celsa Bianca - foto by Indio

Da Celsa Bianca a Pollinello

In quest’escursione non ho voluto toccare nessuna cima. La mia curiosità si è soffermata sulla cresta di Celsa Bianca, crinale che delimita a sud ovest la Serra Dolcedorme, separandola dal Monte Pollino. Questa è probabilmente una delle zone più selvagge del massiccio. Pochi turisti saranno scesi (o saliti) su questo crinale aspro e molto ripido nell’ultimo tratto. Dato che avrei voglia di rivedere il patriarca, il pino loricato più longevo dell’intero Pollino, prendo un sentiero che conduce alla splendida Serra del Pollinello, dove si trova anche il pino “gemello” immortalato da Giorgio Braschi sulla copertina del suo libro capolavoro: “Sui sentieri del Pollino”. Il sentiero non è segnato sulla cartina e sembra all’inizio non essere disgiunto da quello che da Gaudolino conduce a Pollinello. Questo curioso nome è legato al fatto che questo luogo sembra un altro monte in miniatura attaccato al Monte Pollino…un piccolo Pollino insomma. E’ uno dei tanti toponimi curiosi della nostra montagna, la quale vanta una serie di nomi che spaziano da quelli più romantici (Dolcedorme), a quelli legati alla civiltà greca (Pollino, appunto) a quelli che evocano immagini bibliche e terrifiche o le gesta di antichi eremiti (Timone Salomone, Cozzi dell’Anticristo, Serra del Prete) ai nomi più rustici e popolari, che sono quelli più diffusi (esemplare è il Monte Grattaculo).Sarebbe interessante fare una ricerca sull’origine di questi toponimi, i quali dimostrano come il Pollino, a dispetto della sua immagine di regione aspra e selvaggia, è stato sempre popolato e attraversato dall’uomo. La segnaletica come ho spiegato più volte, lascia a desiderare, così un giorno mi sono ritrovato sbagliando la traccia, non a Pollinello, ma sopra di esso(sull’omonima serra). Arrivato alla serra, vado subito a far visita al Patriarca. E’ nascosto tra i faggi e da lontano si vede solo la cima; per osservarlo in tutta la sua maestosità bisogna scendere giù superando gli alberi che ostruiscono la sua visuale completa. Per fotografarlo tutto intero è necessario un grandangolo, altrimenti dovete scegliere tra il soffermarvi sulla cima oppure sul tronco … perché è così grosso che non entra nell’inquadratura. Il tronco misurerà circa più di tre metri di diametro e le radici sembrano scorrere sulle rocce come un torrente. Dopo aver fatto qualche foto (insignificante, a dir la verità … ripeto, senza grandangolo non si fa niente), mi dirigo, seguendo il limite del Bosco Pollinello, verso Sella Dolcedorme,che separa Pollino da Dolcedorme. Poi vado a prendere la cresta di Celsa Bianca. Arrivato sulla sommità del crinale mi si apre subito uno scenario mozzafiato: centinaia di pini loricati fanno da anfiteatro ai crinali scoscesi del Dolcedorme, che da qui si osserva in tutta la sua possente bellezza… La cresta all’inizio è pianeggiante, poi comincia a scendere bruscamente; per brevi tratti è invasa da piccoli faggi. In alcuni punti si aprono sotto di me burroni spaventosi: i crinali scendono bruscamente nella foresta sottostante, per centinaia e centinaia di metri. Anche in questo caso ci vorrebbe un bel grandangolo per immortalare gli scenari che si rivelano allo sguardo passo dopo passo. Sento tra i faggi il rumore di un animale che, avendo avvertito la mia presenza, s’è messo a correre giù per il bosco. Sicuramente sarà un grosso cinghiale … La cresta scende sempre di più e la sommità del Dolcedorme non si vede più. Scendere per la cresta è stato facile; salire, facendo il percorso inverso sarebbe molto faticoso, ma anche accattivante. I prati di Pollinello sono sotto di me ormai. Devo solo attraversare il fossato che divide Celsa Bianca dal Pollinello ed il gioco è fatto. Non resta che proseguire per il sentiero (uno dei più belli del parco) che taglia i versanti meridionali della montagna arrivando al Colle Gaudolino, il pianoro che sta alla base del Monte Pollino… Caratteristico è il tratto di sentiero scoperto, scavato nella roccia, dal quale si possono ammirare le pareti rocciose della montagna a cui sono aggrappati monumentali pini loricati. Da Gaudolino si prosegue scendendo fino a Colle Impiso…

mercoledì 25 luglio 2007

Diario - 24 luglio 2007

Monte Alpi - foto by Indio

Il giardino del Monte Alpi

Il monte Alpi non fa parte del massiccio del Pollino, ma è compreso comunque nel comprensorio del parco nazionale. Da casa mia la sua sagoma maestosa fa da cornice a tramonti spettacolari… L’occasione per un’escursione sul Monte Alpi, che da tempo volevo fare, è venuta con l’amico Vincenzo, che mi ha proposto ll'ascensione a questa montagna. Non conosciamo la zona, per cui dobbiamo aiutarci, arrivati nei pressi di Latronico, con la dettagliata cartina realizzata dal grande Giorgio Braschi e con le indicazioni delle persone. La gente forse pensa, da quello che dice, che siamo dei tecnici venuti ad ispezionare l’incendio che ieri ha bruciato buona parte della macchia mediterranea che circonda le pendici della montagna. Un sentiero dovrebbe iniziare da una fantomatica contrada Salicone che nessuno sembra conoscere. Alla fine ci indicano un’altra strada, che sale dalla frazione Calda formando una serie di tornanti e poi da asfaltata diventa sterrato. Percorriamo un tratto di bosco bruciato, dove ancora resistono dei focolai. Procediamo ancora e il territorio comincia ad assumere i tipici caratteri del paesaggio montano. Siamo nella località Canale del Grillone. Notiamo curiose rocce rossicce che sembrano essere(non so il nome specifico, data la mia ignoranza in geologia) rocce laviche. Troviamo fortunatamente una fontanella da cui esce appena un filo d’acqua: per riempire le borracce ci vuole un quarto d'ora. Non troveremo altre sorgenti a parte questa. Il sentiero prosegue nel bellissimo bosco di faggio che ammanta i crinali della montagna. Il sentiero poi ad un certo punto si interrompe e sbuchiamo in un pianoro che si trova proprio sotto la cima del l’Alpi. La parola che ci viene in mente subito per definire questo posto incantato è “giardino reale”. Delle basse macchie di faggio che punteggiano la radura somigliano proprio a quelle siepi che si vedono in TV nei giardini delle grandi regge. Popolano il giardino numerosi faggi dall’aspetto slanciato. Fiori ed erbe di montagna dappertutto. Questo è il posto più bello che ci regala l’escursione. Puntiamo dritti all’avvallamento tra la cima e la Timpa di St. Croce, percorrendo un sassoso sentiero che prosegue, all’uscita dal bosco, fin sotto la cima. Arrivare alla vetta è facile. Il panorama sarebbe eccezionale, se non fosse per la dannata foschia di questi giorni. Si nota comunque la massiccia bastionata del Pollino, i monti della Calabria e a Nord quelli della Campania; i vari paesini della zona e il bel Lago Cogliandrino. Ci spingiamo poi giù, seguendo la linea del crinale, sul quale notiamo allineate curiosamente un gruppo di mucche caratteristiche del Pollino, capaci di arrampicarsi sui luoghi più impervi delle montagne. Per il ritorno prendiamo una scorciatoia che ci riporta direttamente al giardino reale. Arrivati qui, ci riposiamo un po’ e continuiamo ad ammirare questo posto che non può non farci pensare alla meditazione e ad esperienze mistiche. Mi faccio fare da Vincenzo una foto sotto un grosso faggio, mentre sparo la posa di un Buddha sotto l’albero dell’Illuminazione! Sarebbe bello venire qui in primavera, in pieno risveglio della natura, quando la montagna si colora di un verde intenso e i prati si riempiono di fiori. Chissà, un giorno forse ci ritorneremo…

sabato 21 luglio 2007

Diario - 17 luglio 2007

veduta dalla sommità della Manfriana - foto by Indio

Da Fosso Iannace alla Manfriana

L’escursione è cominciata da Fosso Iannace, percorrendo il sentiero che segue l’imponente gola dove scorre a primavera tumultuoso il torrente omonimo . E’ un bellissimo sentiero, realizzato dalle guide del parco di San Severino Lucano, il quale si può percorrere tutto l’anno, in quanto dei caratteristici ponticelli permettono di aggirare i passi più impervi della gola, procedendo ora sul lato destro ora sul lato sinistro. Il sentiero porta a Piano Iannace, dove arrivo dopo un’ora. L’erba è alta e secca. La giornata è afosa e il sole picchia parecchio. Faccio rifornimento d’acqua alla fonte “Pittacurc” e procedo verso la Piana del Pollino, scendendo per i pascoli dominati dalle rocce di Serra delle Ciavole. Mi dirigo poi verso il Piano di Acquafredda e da qui prendo un sentiero, non ben segnalato a dir la verità, che conduce a passo del Vascello, tra Dolcedorme e Manfriana. E’ uno dei sentieri più belli, che taglia trasversalmente il lato nord-est della montagna. Ad un certo punto il sentiero attravera una zona di pietrisco, piena di macchie di lamponi, con un gruppo di maestosi pini loricati, con le forme modellate dai venti impetuosi. Un pino loricato abbattuto dal fulmine intralcia il sentiero. Me lo ricordo… era alto e slanciato e adesso è a terra, letteralmente spezzato in due. La debole traccia del sentiero si nota appena tra l’erba e le pietre ed in certi tatti è invaso da piccole macchie di faggio. Basterebbe un piccolo lavoro di manutenzione per aggiustarlo e valorizzarlo... anche perché il panorama è bellissimo da qui: di fronte a me si erge la parete della Timpa di San Lorenzo e verso nord-ovest si nota la lunga dorsale della Serra delle Ciavole. A est si vede la lunga cresta della Manfriana che si congiunge alla Timpa del Principe (è stata chiamata la cresta dell’infinito), e sotto di me, l’immensa foresta della Fagosa. Dal Passo del Vascello seguo la cresta rocciosa della Manfriana. Anche da qui si ammira un paesaggio splendido: il Dolcedorme si osserva in tutta la sua maestosità. Sono presenti numerosi pini loricati secchi, aggrappati alle rocce. Verso Mormanno , sulla piccola montagna che lo sovrasta noto i fumi di un incendio. Vedo gli aerei dirigersi verso il mare per rifornirsi di acqua…Con questo caldo il rischio è alto! Al ritorno seguo la strada dell’andata: il percorso è obbligato. Di regola, per un'esursione in tutta calma alla Manfriana converrebe partire dal versante calabrese, nei pressi di Colle Marcione. Comincio ad essere molto stanco, anche perché il sole picchia forte e la borraccia è ormai vuota. Arrivo finalmente alla sorgente del Frido dove posso dissetarmi... mi sembra di rinascere! Ci sono molte mucche che si abbeverano e scambio due chiacchiere con un giovane pastore a cavallo che vedendomi si avvicina. Mi dirigo alla Grande Porta e poi via, comincia la lunga discesa fino a Fosso Iannace!

venerdì 22 giugno 2007

Trekking in solitaria

l'autore del blog- autoscatto
Nella mia esperienza di escursionista ho percorso quasi sempre i sentieri del nostro Pollino da solo. Non che io sia un orso solitario che rifiuta la compagnia. Il fatto è che non ho mai trovato una persona con cui fare coppia fissa in montagna e che fosse disposto ad affrontare con me escursioni un pò più impegnative. Un pò per scelta e un pò per costrizione sono così diventato un trekker solitario. Andare da solo per sentieri che atraversano posti selvaggi ed incontaminati mi ha comunque sempre affascinato... Le escursioni pù belle e significative che ho fatto sono state perciò quelle che ho compiuto in solitara. Se poi si vuole imparare davvero a conoscere bene la labirintica rete di sentieri che si snoda sul Pollino è molto meglio andare da soli. L'imbocco di un sentiero, la conformazione di un certo posto, si ricordano meglio se li si è percorsi da soli... Ovviamente tutti i manuali di trekkking e ogni guida vi sconsiglieranno di andare da soli, ed è giusto che lo facciano. Il Pollino è un territorio selvaggio e spesso i sentieri non sono ben segnalati... oltre poi ai tracciati segnati sulle cartine si snodano e si sovrappongono numerosi sentieri di pastori la cui traccia a a volte si perde nel bosco fitto. A me è capitato di smarrire la strada in posti in cui ero stato decine di volte. Perciò ci si può avventurare da soli solo dopo avere acquistato una certa dimestichezza con i posti. Io non ho mai seguito la regola generale che impone di non andare da soli ma il mio è un caso a parte. Ognuno fa quel che vuole e si assume le responsabilità delle proprie azioni. Dicevo che ho sempre provato sensazioni di euforia e libertà trovandomi da solo in mezzo alla natura selvaggia e scoprendo di volta in volta posti in cui non ero ancora stato. Andare da soli significa davvero mettere alla prova se stessi, fronteggiare le situazioni nuove, stare attenti e vigili per evitare le situazioni spiacevoli (smarrire un sentiero, cadere e farsi male, bagnarsi i piedi in mezzo alla neve, fare ritardo e tornare in pieno buio). Quando si è soli si ha come riferimento solo se stessi e la natura che ci circonda, la quale diventa l'unico interlocutore con cui poter interagire attraverso le visioni e le suggestioni che essa ci regala , ma anche con i suoi ostacoli, i suoi impedimenti; perchè la montagna è anche un terreno dove entra in gioco la fisicità pura, lo sforzo fisico teso a spostare avanti i limiti della nostra resistenza. La montagna ci mette alla prova, nel corpo e nello spirito. Andare da soli è poi un antidoto contro quelle che sono ancora oggi paure ataviche e spesso inconsistenti, paure sopravvenute con la frenetica vita nelle città, con le sue comodità e il suo stile di vita artificiale... aver paura del buio, ad esempio, di un posto ignoto e sperduto, di animali selvaggi, di farsi male, aver paura della solitudine e del silenzio. Anche se i pericoli ovviamente esistono, con la pratica dell'esperienza in montagna e percorrendone da soli i suoi anfratti più selvaggi e maestosi, la paura svanisce e subentra l'esaltazione della libertà e della vitalità pura, il richiamo di quegli istinti primordiali che ci legano al mondo naturale. Essere soli al cospetto di forze ed elementi naturali è l'aspetto più profondo della wilderness, dell'interazione con i luoghi selvaggi. La scelta di luoghi inaccessibili su cui ritirarsi ha poi sempre ispirato i mistici (come gli yogin tibetani che si costruivano delle cellette nei posti più impervi dell'Himalaya) , gli uomini votati all'iniziazione. Quanto alla solitudine, essa è poi un aspetto che richiama sempre la ricerca di sè, la meditazione e l'introspezione al cospetto di ciò che gli Indiani d'America chiamavano il "Grande Mistero". Forse potremmo azzardare l'idea che questo desiderio di scegliere la montagna e la natura in generale come luogo nel quale sperimentare la ricerca di se stessi sopravvive anche nella società tardo-moderna. Il trekking e l'alpinismo in luoghi selvaggi e incontaminati non si esauriscono così in pratiche meramente ludiche e sportive, ma in essi confluiscono significati e spinte interiori più profondi. Ma questo vale solo per coloro i quali pensano che l'amore per la montagna non si identifica con vallate affollate di persone rivestite di gore-tex, con impianti di risalita, alberghi in alta quota e neve artificiale, ma ha a che fare con più elevati i quali si oppongono frontalmente a quelli alienanti e massificanti della società dei consumi...

venerdì 25 maggio 2007

Grizzly Man - Werner Herzog

Grizzly Man è il capolavoro tra i documentari del regista Werner Herzog. E' anche un esempio di come il documentario possa ergersi al livello di genere cinematografico a sè stante, dotato di piena qualità e dignità artistica. Grizzly Man risulta un capolavoro anche e forse soprattutto rispetto alla realizzazione tecnica, essendo stilisticamente perfetto. Il documentario è incentrato sulla figura del naturalista Timothy Treadwell, il quale passò tredici estati in una parte incontaminata dell'Alaska, per studiare e filmare la vita degli orsi grizzly . La sua vicenda finirà tragicamente, perché verrà sbranato assieme alla ragazza proprio da quegli orsi che lui amava tanto. Herzog ripropone nel suo documentario molte scene tratte dalle oltre 100 ore di filmati realizzati da Treadwell nel corso della sua permanenza nella terra dei grizzly. Grizzly Man si impone subito come una profonda riflessione sulla natura selvaggia e sugli uomini che la amano e che vogliono rifugiarsi in essa fuggendo la misera realtà del mondo civilizzato. Si comprende subito che Treadwell in realtà più che un naturalista rigoroso è un sognatore, un anti-eroe che detesta il mondo civile e che cerca di essere accolto dalla "comunità" degli orsi, tentando di diventare loro amico. Le immagini più frequenti di Treadwell sono quelle in cui lui parla alla telecamera a pochi metri dagli orsi grizzly o quelle relative ai suoi tentativi di avvicinarsi agli orsi quasi per toccarli. Treadwell non cerca, da come si evince nella maggior parte delle scene, di filmare la vita degli orsi da osservatore esterno, ma di raccontare nelle immagini la "sua" interazione con questi animali, il rapporto empatico che intrattiene con loro e con altri animali come le volpi (stupende e commomenti le immagini delle volpi che corrono e giocano con Treadwell). Anche la motivazione che spinge Treadwell a a stare tanto tempo con gli orsi è piuttosto ambigua: Treadwell pensa di assolvere un grande compito, che è quello di difendere gli orsi dai bracconieri; motivazione futile in quanto, da come si nota dalle interviste ad alcuni ecologisti, l'orso grizzly non è minacciato e vive libero nei parchi nazionali. Come giustamente gli ecologisti fanno notare, gli orsi vanno studiati a distanza e senza avvicinarli; anche perchè sono animali che possono diventare estremamente pericolosi. Ma Treadwell non bada a tutto questo, proprio perchè non è uno scienziato ma un sognatore, un amante della natura che paradossalmente non fa che andare "contro natura".Treadwell vorrebbe vedere nella natura solo il bene, solo l'armonia; di sicuro non è però un ingenuo e riconosce di essere costantemente in pericolo , di correre il rischio di venire sbranato dagli orsi e lo dice ad alta voce in più occasioni . Ma questa coscienza non supera la volontà di credere nell' illusione di una natura che possa mostrarsi miracolosamente benigna( vicina cioè ai canoni di ciò che noi uomini consideriamo "bene"), che venga incontro ai nostri sogni. Treadwell non riesce ad accettare la morte di un orsetto ad opera di un maschio adulto della stessa specie; invoca rabbioso Dio (anche se è ateo) di far piovere, perchè altrimenti gli orsi con il letto dei torrenti a secco non potranno pescare i salmoni e patiranno quindi la fame; piange e si dispera quando trova, dopo il ritorno nella terra degli orsi alcuni animali morti per la fame e la siccità, in un'atmosfera di desolazione e di morte. Treadwell sembra ostinarsi a non voler accettare che la natura, come invece dice Herzog, sia "caos, conflitto e morte" e non armonia. Si potrebbe dire che in natura in realtà c'è un'armonia, ma la conflittualità, la lotta per la sopravvivenza, sono alla base dei cicli naturali di quel sistema complesso dove ogni elemento interagisce con un altro fino a formare una specie di "ordine". Treadwell sembra costantemente non volere accettare tutto ciò. Treadwell è un utopista, un eroe folle che oltrepassa i limiti imposti proprio dalle leggi inesorabili della natura. E' un sogno che accomuna tutti quelli che vogliono fuggire, anche se per breve tempo, dalle regole imposte dalla cività e confrontarsi con le leggi ben più ferree della natura per interagire con gli elementinaturali e assistere agli spettacoli che il wild ci regala. Desiderare la wilderness significa seguire i nostri istinti primordiali che ci conducolo inevitabilmente al contatto con la terra, con la vita selvaggia di animali e piante: una dimensione "altra" che, come diceva Treadwell ci fa sentire liberi e partecipi dello splendore del mondo... La natura non è nè buona nè cattiva e noi dobbiamo avvicinarci ad essa con timore e rispetto, consapevoli del fatto che oltrepassare i suoi limiti potrebbe significare la morte per noi. Ma questo è un discorso razionale ed era compreso solo in minima parte per Treadwell. Timothy TreadWell era consapevole dei rischi che correva, ma era una consapevolezza effimera, che non lo fermava, che non lo conduceva ad avere paura... Se c'è una cosa che a Treadwell non mancava era proprio il coraggio, un coraggio ai limiti della follia. Trweadwell si configura così come uno dei tanti anti-eroi del cinema di Werner Herzog, uomini folli che sfidano se stessi, spinti ad agire da formidabili sogni; uomini "diversi" e proprio per questo autenticamente "umani", dotati di una sensibilità del tutto particolare e seguiti dall'ombra della sconfitta, che si staglia inesorabilmente sulle loro illusioni...