venerdì 11 dicembre 2009

Animali e cacciatori

racconto di Carmela De Marco



Adiacente al camino, in alto era appeso il fucile di papà. La mattina, quando ci alzavamo e il fucile non c’era, significava che papà era andato a caccia. Mio padre era un cacciatore, uno dei migliori di Mezzana, non mancava mai un colpo, si diceva. La selvaggina non mancava mai sulla nostra tavola: beccacce, lepri, volpi facevano parte dei piatti migliori cucinati da mamma. Eravamo tutti abituati a queste uscite di papà. Noi bimbi non riuscivamo ancora a preoccuparcene mentre la mamma, tante volte, quando usciva la mattina presto o a notte fonda ,si arrabbiava e non poco. Ho sempre creduto che il mio papà andasse a caccia per noi, per portarci tanta buona carne. Un giorno sentii il motozappa scendere dal vicolo. Papà era tornato e il fucile non era appeso al camino. Quel giorno non si trattenne a scaricare la legna come faceva di solito e salì a casa a  chiamare mio fratello, gli disse che gli aveva portato una cosa. Incuriosita, scesi anch’io con loro per vedere questo regalo. Entrammo nel garage, il motozappa era già parcheggiato, papà ci fece avvicinare e con un timido, quasi pudico sorriso, sussurrò a mio fratello:”guarda cosa ti ho portato”. Ci avvicinammo e rimanemmo fermi e storditi davanti a un bellissimo gufo grigio che muoveva due grandi occhi verde chiaro in tutte le direzioni, occhi spalancati e accusatori di non so quale crimine. Mio padre poi lo prese in mano e allora capii il velo d’accusa dentro quegli occhi: era ferito, sanguinava, un proiettile era entrato dentro il suo piccolo corpo. Mio fratello di soli cinque anni rimase serio, sconvolto. Io esclamai:” ma papà perché gli hai sparato!”. Mio fratello continuava a fissare il gufo, immobile. Lui amava gli animali, amava prendersi cura di galline, formiche, cani, del suo cardellino Lilly, sfogliava libri che ritraevano tigri, leoni e guardava tutti i documentari in tv sulla vita degli animali. Forse papà aveva portato quel gufo a mio fratello pensando di renderlo felice ma non poté non notare uno sguardo fisso su quella bestiola e capì subito che aveva sbagliato: non gli aveva portato uno splendido esemplare di gufo ma un semplice animale ferito e sofferente che riuscì a imprimere, sullo stato d’animo del suo bambino. una sottile malinconia che contagiò anche lui. Ci mandò via e di quel gufo non ne sapemmo più nulla. Da quel giorno papà non ci portò che prede morte. Quel gufo mi fece interrogare sul mio papà cacciatore. Un giorno ci raccontò di aver ucciso anche gatti selvatici e falchi perché suoi antagonisti nella caccia alle lepri e beccacce. Un cacciatore dunque non uccideva solo per portare carne alla sua famiglia e non uccideva per odio verso gli animali. Il mio papà cacciatore amava la natura, la venerava, la proteggeva ma la sfidava, a volte vinceva, altre volte perdeva e da questo gioco perverso ne traeva un sottile piacere. Il gufo sul motozappa con gli occhi spalancati e fieri era il simbolo di questa lotta e, al di là di questo strano conflitto tra singolari rivali, c’erano due bambini che non riuscivano a capire altro che la sofferenza e il diritto alla vita negato.
Eppure papà cacciatore ci ha lasciato in eredità sia a me che a mio fratello il grande amore e rispetto per la natura e per gli animali.
Quando nacqui mio padre aveva un bellissimo bastardino nero dal pelo lungo che sembrava un incrocio tra un Terranova e un Setter. Alla mia mamma dopo pochi mesi dal matrimonio, notando il suo disappunto verso il suo amico cane, disse:” se vuoi bene a me devi voler bene pure al mio cane” e la mamma non poté far altro che abituarsi alla presenza un po’ ingombrante di Billy.
Billy seguiva papà ovunque, a volte sentivamo parlare in bottega credendo che ci fosse qualcuno e invece era papà che chiacchierava amorevolmente col suo cane.
Billy restò con lui per 14 anni e poi un bel giorno, come un vecchio saggio, salutò papà e la mamma e se ne andò a morire lontano, all’ombra di una quercia. Dopo di Billy, mio zio regalò a mio padre un cucciolo appena svezzato che aveva un grave handicap, a sentire papà, era una femmina. Mina era intelligentissima. Un’immagine legata a Mina :un asino, montato da mio fratello mantenuto dalla mano solerte di nonno Saverio e Mina che tira la fune alla quale l’asino è legato. Mina morì uccisa dal cacciatore. Dopo tanti tentativi per non farla ingravidare, pillole anticoncezionali, periodi di reclusione, allora forse non esisteva la sterilizzazione, ogni sei mesi papà era costretto ad uccidere la cucciolata di Mina che non riusciva a collocare in nessun modo e un giorno preso dall’ira le sparò. Soffrì così tanto che non toccò cibo per diversi giorni.
La nostra vita familiare è stata sempre caratterizzata dalla presenza di piccoli amici animali: cani, gatti, canarini, pappagalli, pesciolini rossi. Papà insegnò a tutti noi quanto l’amicizia di un animaletto sia capace di riempire la vita di emozioni e c’insegnò che la bellezza della natura non è opzionale ma è indispensabile alla nostra storia e alla nostra formazione di uomini e donne.
Esiste un posto magico: un piccolo appezzamento di terreno, un gruppetto di giovani alberi che si sono nutriti dei corpi degli animali sepolti ai loro piedi. E’ come se quegli alberi possedessero i loro spiriti che tornano a vivere attraverso lo stupore di tale consapevolezza.
Ogni essere che ha lasciato una traccia sul percorso della nostra storia, ogni essere che ci ha fatto gioire, emozionare e piangere, anche se diverso da noi,siederà nel nostro olimpo di ricordi ed affetti per sempre.

Carmela De Marco

mercoledì 18 novembre 2009

Monumenti arborei

Dios duerme
en las piedras,
Respira en las plantas,
Suena en los animales,
Despierta
en el hombre
(Poesia India)

Le radici di quest'albero sono degli artigli aggrappati con tenacia alla roccia, dalla quale esse traggono il nutrimento vitale. Presso l'ultimo tratto delle Gole di Iannace (Piano del Cerro). 

    Ed eccolo, l'albero di edera. Vive appartato, a ridosso di una bassa parete rocciosa, ed è come se volesse nascondersi al mondo. Come se custodisse un segreto, che poi è nient'altro che il segreto della sua bellezza. Vi giungo dopo una breve scarpinata sulle rocce che stanno alla base del piccolo crinale. Scopro la pianta con gli occhi pieni di meraviglia e mi tengo istintivamente a debita distanza, come se stessi osservando un'antica opera d'arte. Probabilmente è una pianta secolare; i suoi rami intricati sembrano serpenti che stiano strisciando fuori dal loro nido di roccia. "Solo" una pianta d'edera, presso le rocce di Madonna di Pollino...

 Simbiosi con la roccia. Questo albero non conosce la terra e la sua forma si armonizza perfettamente con quella della roccia che lo ha visto nascere e che racchiude le sue radici.

 L'abete bianco delle Gole di Iannace, altissimo, dritto, slanciato verso il cielo; si alza  nel mezzo, tra le ripide pareti della gola. E accanto ad esso, più sopra, il tronco di un altro abete, accasciato come un essere dormiente alla parete. La maestosità della vita e il riposo della morte convivono in questo quadro naturale di grande suggestione. Ho visto decine di volte questa scena ma sono sicuro che non finirà mai di stupirmi...        
                                                
  Lungo il sentiero delle "Rocce Parlanti". Faggi secolari crescono accanto alle sponde rocciose della  gola ricoperte di edera. Sembrano essi stessi alberi di pietra, legati a questo luogo in un'armonia ancestrale.

Foto By Indio

I colori dei boschi

L'autunno è la stagione ideale per fotografare i boschi. Se si è fortunati con una bella luce si possono fare davvero belle foto. L'esplosione dei colori a cui si può assistere è un'opera d'arte che muta ad ogni  cambiamento della luce, che si trasforma con il passare del tempo. E' un'armonia mutevole di cui la fotografia può cogliere alcuni fuggevoli momenti immortalandoli nella scheda di memoria. 






sabato 14 novembre 2009

Diario - 13 novembre 2009




colori autunnali: boschi sui pendii che sovrastano l'ultimo tratto di fosso Iannace - foto by Indio
sotto: 1. faggio secolare presso la gola del torrente Iannace; 2. monolite di roccia ricoperto di felci ; 3. alberi dai caratteristici colori autunnali attorniano il corso del Torrente Frido: dalla cresta di Madonna Di Pollino; 4. dal sentiero delle Gole di Iannace: si comprende la maestosità dello scenario osservando il mio cane che nella scena, dominata dagli alti faggi e abeti, appare quasi una piccola macchia bianca.
 "Non abbiamo mai visto niente allo stesso modo
ma guardavamo sempre la stessa cosa"
(William Faulkner)
Atmosfere autunnali: sui sentieri di Timpa della Madonna di Pollino
Erano anni che non tornavo in autunno al mio paese. In questi giorni ho potuto apprezzare perciò la meraviglia di quei colori autunnali che purtroppo negli ultimi hanni ho potuto vedere con minore frequenza. La foresta d'autunno è davvero spettacolare perchè al verde uniforme dell'estate si sostituisce una varietà cromatica di colori, che vanno dal giallo al verde, al rosso, all'arancione. C'è un'atmosfera diversa nei boschi e questo lo avverti subito. Si cammina su un tappeto di foglie rosse e le rocce sono umide e scivolose; è un verde brillante quello del muschio che ricopre i massi e i tronchi degli alberi. Vista dal mio villaggio la Timpa della Madonna di Pollino è un coacervo di colori; infatti, nei boschetti che l'ammantano, ancora siamo nel cuore dell'autunno, mentre in alta montagna l'inverno è ormai arrivato. Quindi l'ideale, per ritrovare l'atmosfera dell'autunno era proprio un'escursione sui sentieri dei boschi e delle creste di Timpa della Madonna, una montagna che ha avuto per me sempre un grande fascino, una montagna che appartiene contemporaneamente al senso della divinità, all'uomo e alla natura selvaggia. Parto alle sette di mattina, col mio cane Buck che a soli nove mesi ha già alle spalle qualche esperienza "escursionistica". Attraverso il bosco di cerro di Piano della Mandria (uno dei posti più ricchi di funghi della mia zona) e mi porto sulla strada del santuario. Da qui prendo il sentiero  delle "Rocce Parlanti" realizzato recentemente sotto la supervisione di Braschi. Ero già stato qui altre volte, tanti anni fa, quando ancora di sentiero non esisteva traccia, ma questo percorso, segnalato con accortezza, esalta enormemente la bellezza degli scorci offerta dal bosco che ammanta l'ultimo tratto di fosso  di Iannace. Faggi secolari enormi, spesso con i rami secchi accasciati sul fondo della gola, dalle radici contorte, massi giganteschi, a volte di forma monolitica, pareti alte di roccia che si alzano ai lati del letto del torrente. C'è davvero la sensazione della wilderness, della natura inviolata, primordiale. Sono tutte cose che sono  valorizzate con questo sentiero, che si armonizza perfettamente ai luoghi, perchè li percorre quasi con reverenza e adeguandosi alla  natura del terreno. Questa è la parte più interessante dell'escursione. Prima di arrivare al torrente mi sono affacciato sui costoni boscosi che costeggiano la gola ed ho potuto notare la luccicante varietà dei colori di faggi, aceri, lecci, meli selvatici, ontani. Il cielo è coperto ma c'è una luce soffusa che esalta ancora di più il contrasto cromatico dei boschi. Guado il torrente e, seguendo sempre le segnalazioni, attraverso il bel ponticello, salgo i pendii rocciosi e boscosi, costeggiando delle suggestive pareti di roccia: caratteristiche piante giovani di faggio crescono addossati perpendicolarmente alla parete. Più giù un groviglio di cespugli simili a cordoni ondeggiano su un tappeto di muschio... La monotonia non esiste in questo
bosco, ogni albero e ogni anfratto sono unici... come spesso accade nel nostro Pollino, che mostra sempre la capacità di stupire con la sua magia. Arrivo all'avvallamento formato dai due crestoni rocciosi di Timpa della Madonna. Seguo la cresta e raggiungo il sentiero dei giardini rocciosi, un altro dei sentieri realizzati da Braschi. Dalla sommità della cresta la mia attenzione è attirata dal contrasto di colori che si staglia guardando i boschetti che ammantano le pendici della timpa, sotto i dirupi, verso il Torrente Frido. Arrivo al santuario e sopra la statuetta di bronzo della madonna un corvo imperiale gracchia e volteggia nell'aria come un avvoltoio. Do da mangiare al mio cane e poi faccio una capatina alla grotta della madonna. Era una quindicina di anni forse che non ci andavo. La grotta me la ricordavo meno stretta. Anzi, a me non parrebbe proprio una grotta a vederla adesso; infattti il tetto della grotta è formato da un masso enorme posto sugli altri. Ricordo che da bambino andare nella grotta era per me sempre un momento entusiasmante. Entro dentro con difficoltà per quanto è stretta l'entrata, il mio cane mi guarda incuriosito dall'imboccatura.  Successivamente io e Buck ci arrampichiamo sulla sommità rocciosa che sovrasta il santuario. Procediamo con attenzione sulla nuda e scivolosa roccia. Da qui la visuale spazia sulla foresta selvaggia percorsa dalla ferita del torrente Frido e sulle austere cime imbiancate di neve di Monte Pollino e Serra del Prete. La foresta è spoglia e come un manto funereo sembra ricoprire le pendici dei monti. Dalla  sommità rocciosa scendiamo senza percorso obbligato per i boschi in direzione della strada asfaltata. Scopro nella foresta di faggio un esemplare solitario e maestoso di abete bianco. Un altro più avanti è stato abbattuto da un fulmine. Arrivati alla rotatoria prendiamo il sentiero che porta alle gole di Iannace e seguiamo il percorso dell'ultimo tratto, particolare per la presenza di abeti enormi e slanciati verso il cielo. A Fosso Iannace scorre un po' d'acqua, che sembra acqua sorgiva per la sua limpidezza. Davvero spettacolari d'autunno anche le Gole di Iannace... Arrivato allo spiazzo con rotatoria della strada asfaltata mi porto sul sentiero "Albanete" che si snoda per i boschi, costeggia delle pareti di roccia e si ricongiunge a quello della cresta. Così giunto alla cresta seguo il percorso dell'andata. Volevo, invece di guadare Fosso Iannace, continuare a scendere lungo la gola; ma il mio cane proprio non vuole sapere di seguirmi e, dopo un tentativo di scendere tra i massi scivolosi del fossato si riporta sul sentiero. Forse è più saggio di me e per stavolta, visto che non sono solo, faccio come dice lui e ritorno indietro sui miei passi...

domenica 1 novembre 2009

Una tomba nella foresta






(Racconto premiato al  concorso letterario Il Fauno d’Oro edizione 2010, di Contursi Terme, 3° classificato)
 


“I morti custoditi nella crosta terrestre, che girano ogni giorno la lenta ruota del mondo, in pace fra le eclissi, gli asteroidi, le polverose stelle nuove, con le ossa chiazzate di terra e le cellule del midollo che si trasformano in fragile pietra, le dita intrecciate alle radici, uniti a Thot e ad Agamennone, ai semi e alle cose non nate.”
(Cormac Mc Carthy)

Vista dalla valle la montagna appare come una grande piramide rocciosa, con un versante più dolce, ricoperto da un’estesa selva di faggi e abeti e un altro pauroso, selvaggio, che cade a picco sui pascoli sottostanti, abitato da alberelli di leccio abbarbicati sui dirupi rocciosi e percorso alla sua base dalla ferita di un torrente che scorre in mezzo ad un groviglio di rovi e di spine. La cresta rocciosa della montagna come un filo separa i due versanti e sale ripida fino alla cima, popolata in alcuni tratti da una grande varietà di piante e alberi delle specie più svariate; un luogo che sembrerebbe l’opera del capriccio di un ignoto giardiniere, che avesse deciso di far convivere su queste rocce così ripide piante e alberi recoprocamente estranei. E poi c’è quell’enorme fenditura nella montagna, che corre attraverso la foresta e spezza la sua ondulata armonia per la gola profonda scavata dal torrente. Abeti coraggiosi crescono lungo il corso del fossato, in mezzo alla roccia. C’è n’è uno ormai morto, che cadendo è rimasto accasciato alla parete rocciosa, destinato a marcire in piedi in quella posizione precaria, che gli ha impedito così di ricevere la degna sepoltura dell’acqua e della roccia. Il torrente è ghiacciato e desolato d’inverno mentre a primavera l’acqua spumeggiante corre giù lungo gli enormi massi; d’estate il torrente scompare, lasciando solo i relitti che si è portato con la sua corsa stagionale: tronchi marcescenti, rami secchi e pietre circondati dalla terra arida e un silenzio interrotto solo dal fruscìo delle foglie dei faggi che crescono lungo le sponde della gola. La gola è un corridoio nella foresta, che però non conduce da nessuna parte per chi non conosce i meandri di queste selve apparentemente innocue. Si può sbucare in un pianoro se si lascia il torrente guadandolo e salendo lungo il sentiero che si snoda sui pendii popolati dagli abeti. Oppure si possono incontrare “le Carceri”. E’ un luogo del bosco fitto e rappresenta il naturale prosieguo della gola; i pastori diedero al posto questo nome perché la gente qui si perdeva, e la foresta diventava una prigione che aveva alberi al posto di sbarre, cancelli vegetali che si perpetravano all’infinito in un’angosciosa attraversata. E poi v’è la cima con i segni della civiltà dei contadini: il santuario con la una chiesa povera e spoglia e le casette dei pellegrini, in onore della Vergine, la dea cattolica di quella montagna. Sotto la chiesa, tra gli alberi, c’è una piccola grotta, dove si dice che la Vergine fece la sua prima apparizione. Vi si accede tramite una scalinata scavata nella roccia. C’è sempre una grande frescura qui. Piccoli topolini di montagna si aggirano tra immaginette e candele e sembrano osservare curiosi i visitatori, pronti a scattare al minimo movimento brusco; con quegli occhietti neri che sembrano parlare di una saggezza ancestrale ma indecifrabile… Il santuario è il luogo delle feste, dei pellegrinaggi. La Vergine ha l’aspetto di una contadina, piccola, con un viso rotondo. Porta la corona e un vestito ricamato; è la regina dei pastori e dei contadini e in suo onore due volte l’anno si festeggia la prima volta la sua ascensione al santuario montano dopo il lungo inverno e la seconda il suo ritorno a valle, nella chiesa del paese. E poi c’è la grande festa di luglio sulla cima della montagna, con i pastori e i contadini di tutte le remote contrade della Lucania del nord e del sud, provenienti dalle montagne, dalle colline e dal mare. D’ inverno la chiesa è vuota e non ha più la sua madonna, e tutto il santuario resta avvolto dalla desolazione della neve e delle intemperie, come un avamposto di un’antica civiltà che abbia abbandonato sconsolata quelle montagne per fuggire altrove…

Faceva caldo quel giorno. Tutta la montagna era affollata di pellegrini. Muli, asini e cavalli coperti di roba e al loro seguito famiglie di contadini, donne, uomini, vecchi e giovani. Venivano a piedi dai loro paesi e percorrevano le strade polverose delle contrade di quelle valli e poi giungevano ai piedi della montagna e si inerpicavano sui sentieri che conducevano sulla cima del sacro monte. Pastori col completo di velluto, con le facce scolpite dagli elementi. Donne dalle mani tozze, con i volti bruciati dal sole delle campagne, con i loro fazzoletti chiari sulla testa. Bambini, ragazzi, famiglie intere. Soprattutto questa era la festa dei pastori, forse perché in essi più che in altri si avvertiva quel bisogno di una presenza divina che vegliasse su di loro nelle lande desolate di quelle aspre e anonime montagne. L’aria dei boschi si riempiva dei suoni delle zampogne, dei tamburelli e delle totarelle e degli organetti; un’atmosfera di sacralità e di gioia festosa al tempo stesso, accompagnata dalle urla dei suonatori e dal contorcersi dei corpi a quel ritmo che entrava nel sangue. Una melodia che era stata la colonna sonora della vita di quella gente, da sempre. Una musica che si perdeva nei millenni, che era legata a quella terra come le radici di un albero secolare. Sulla cima della montagna i pellegrini formavano accampamenti e si costruivano capanne di frasche con i rami degli alberi. Capre e pecore venivano portate fin lassù in pellegrinaggio per poi essere sgozzate, scuoiate e arrostite sul posto. Sembrava e forse anzi lo era, un rito sacrificale. Si sentivano belati delle bestie e il sangue sporcava le pietre, pelli e interiora giacevano su posto mentre i contadini si adoperavano a tagliare tendini e ossa con accette e con lunghi coltelli affilati. Scorrevano litri di vino, che ondeggiava nelle bottiglie per venire tracannato dagli uomini e finire nelle loro vene; vino che diventava sangue e arrossiva le facce di quegli uomini scuri, vino che diventava musica, movimento frenetico e urla euforiche. All’interno della chiesa non c’era aria di allegria. Donne si battevano il petto e il rumore rimbombava tra le navate. Qualcuna si accovacciava, e inginocchiata si muoveva per terra leccando il pavimento della chiesa. E dopo quell’atto di penitenza a volte si ritrovavano con la lingua piena di sangue. Poi c’erano le donne che indossavano il loro abito da sposa sopra i vestiti, che si toglievano davanti alla vergine in segno di devozione. Restava alla vergine quel vestito bianco che dentro di sé nascondeva i sogni e i rimpianti e il dolore o magari la gioia di quelle donne. E nel ripostiglio accanto alla chiesa quegli abiti da sposa, con il loro pallido biancore, si accumulavano e dentro di essi si potevano immaginare i volti e le anime che sembravano contenere. La chiesa era piena di tante facce commosse. Aspettavano il loro turno per parlare alla santa Vergine dei loro affanni, delle delusioni e delle loro speranze più profonde. Un ragazzo si avvicinò al volto della statua. Piangeva e aveva un fazzoletto in mano. Bagnava le dita nelle sue lacrime riportandole sul volto di legno della statua. Questo è il mio dolore, sembrava volesse dirgli, adesso lo conosci, è anche il tuo. Un altro atto di devozione era la danza in chiesa accompagnata dalle zampogne. Ma la tarantella che si eseguiva sotto l’altare non era festosa e gioiosa come quelle che continuamente andavano avanti sulla montagna per tutta la giornata. Si ballava con le facce serie e speranzose, con un atteggiamento quasi di ritegno. E poi c’erano quelle sculture realizzate con le candele, ex voto, che venivano portate sulla testa dalle donne, costruzioni architettoniche di devozione popolare, templi in miniatura della loro fede. E tutt’intorno a questo movimento di migliaia di uomini e animali, si stagliavano montagne imponenti, che rinchiudevano l’orizzonte a nord come a sud. Era come se da quella sommità gli uomini potessero penetrare, grazie alla Vergine, il caos del mondo che regnava sulle nude rocce affilate; come se in quell’angolo di montagna gli uomini tentassero di dare un ordine all’universo, con le gerarghie divine, le grazie e i miracoli. Gli uomini cercavano il conforto in una luce divina, ed era la speranza che la ruota del caos girasse per una qualche circostanza in loro favore. E quelle montagne erano sinistre forse perché non avendo dei santuari sulle loro cime parlavano di un mondo senza dèi, dove a decidere le sorti di tutti gli esseri erano il vento e il fulmine, la pioggia e la neve.

La vecchia era arrivata quassù assieme ai figli e i nipoti. Era stata a messa, era andata a salutare la sua madonna e alla sua vista il cuore gli si era riempito di commozione, come sempre. Forse perché in questa madonna di legno erano accumulate tutte le speranze della gente di queste valli. Essa dava il volto alle generazioni dei pellegrini passate e future, ai vivi come ai morti. La speranza incoronata di un popolo intero. La vecchia s’era riposata nell’erba, all’ombra delle capanne di frasche e poi s’era allontanata fino al margine dei boschi, dove cominciava un altro mondo, un mondo fatto di alberi e pietre e silenzio, conosciuto solo dal lupo, dallo scoiattolo o dal colombaccio e da tutti gli esseri che là nascevano e morivano. Era andata nei boschi e da lì non era più ritornata. Erano andati a cercarla ma sembrava inghiottita dalla foresta. Forse, per la curiosità si era spinta troppo avanti e la luce gli si era chiusa alle spalle, come una immensa porta evanescente, e non era riuscita più a capire in che direzione dovesse andare. Per quasi un anno non si seppe più niente di lei, né si riuscì a ritrovare il suo corpo.

Il giovane pastore risaliva la gola scavata dal fossato mantenendosi sopra la sponda destra. Una densa vegetazione di faggi e di lecci ricopriva le rocce della montagna. Arrivò ad uno spiazzo nella foresta, dove alberi secolari di faggio e pareti di roccia ripida erano gli elementi più vistosi di quel giardino primitivo. A seguirlo c’era il suo cane che esplorava i dintorni del pianoro. Aveva lasciato le pecore più indietro, che si spostavano uniformemente da un promontorio ad un altro senza mai interrompere quel brucare che durava tutta la giornata. Più sopra la vegetazione finiva e si incontrava uno strano terriccio rosso, con delle pietre che avevano dei fori al loro interno, strani contenitori di un vasellame preistorico della natura. Sopra c’era un avvallamento tra due costoni di roccia grigia e dura che da lontano davano l’impressione della presenza di una gola che gola non era, perché in mezzo non scorreva alcun torrente. Da lì si poteva raggiungere poi la cresta che proseguiva la sua parabola ascendente fino alla cima, fino al santuario della Vergine. Il cane stava rovistando al di là di alcuni massi rocciosi. Il pastore notò da lontano che teneva qualcosa in bocca. Il cane si avvicinò al pastore scodinzolando felice con quella cosa che pendeva dalle sue mascelle. Era una testa umana, ridotta ad un teschio. Ancora v’ erano attaccati brandelli di pelle rinsecchita e capelli. Il pastore ebbe un fremito alla vista di quella macabra apparizione e il cuore cominciò a battergli forte. Invocò la Vergine della montagna. Carcasse di animali ne aveva viste sempre, ma mai avrebbe pensato di trovare le ossa di un essere umano. Si ricordò della vecchia scomparsa l’anno prima e pensò che di sicuro il cadavere appartenesse a lei. Doveva subito fare qualcosa. Il cane intanto aveva lasciato la testa per terra ed egli osservò le orbite vuote, senza più lo sguardo su quel mondo, oscure come oscura era la morte. Doveva avvisare qualcuno, prima di tutto i carabinieri e quindi doveva tornare al paese. Ma non poteva lasciarla là dov’era. Doveva nascondere la testa in un luogo sicuro per poi venire a prenderla assieme alle guardie. Prese dalla tasca uno dei sacchetti di plastica che portava sempre addosso. Poi afferrò un rametto secco di faggio con la mano destra, mentre con la sinistra teneva la busta di plastica. Si chinò e fece rotolare lentamente la testa spingendola col rametto nella busta. Una volta che fu dentro afferrò le estremità della busta e si avviò lungo la sponda del torrente con quel macabro resto umano. Qualcuno da lontano lo avrebbe preso per un cercatore di funghi. Conosceva un posto dove nelle pareti di roccia si aprivano dei buchi a forma di caverna, dei ripostigli primordiali scavati dagli elementi. In uno di quei buchi nascose la busta con la testa. La sera ritornò al paese col suo gregge e andò ad avvisare le guardie del ritrovamento. La mattina dopo tre carabinieri arrivarono assieme al pastore nel posto dove egli aveva nascosto la testa. Misero un carabiniere a piantonarla mentre gli altri procedettero nelle ricerche. Il carabiniere rimase là fermo a fare la guardia a quel teschio che nessuno avrebbe voluto, se non la nuda terra per nasconderlo tra le sue viscere. Il pastore si unì alle guardie e fece loro da guida. Gli altri resti non erano lontanissimi dal posto in cui il cane aveva ritrovato la testa. C’erano ossa e c’erano brandelli della veste che la vecchia aveva indossato il giorno della grande festa in onore della Vergine, il giorno in cui lei si era persa in quella prigione di alberi e rocce. Vicino ai suoi resti trovarono una fascia di ramaglie secche. Aveva tentato di farsi un fuoco, anche se non esisteva nessuna cosa quella sera con cui potesse accendere la legna. E poi l’aria gelida della notte calò su quella foresta e il buio inghiottì ogni cosa, e così anche lei…

lunedì 31 agosto 2009

In Calabria - il Pollino di Vittorio De Seta

il regista Vittorio De Seta - sotto: 1. la copertina del dvd pubblicato da Feltrinelli 2. un'immagine tratta dal corto "Pastori ad Orgosolo"


"Lo sguardo neutrale è una menzogna, specie nel mio lavoro, dove basta spostare la macchina da presa di pochi centimetri perché tutto cambi"
(Vittorio De Seta)

Ultimamente ho avuto la fortuna di scaricare da internet un grande documentario che avevo visto in passato in televisione, ma a metà, ovvero il film In Calabria, del grande cineasta Vittorio De Seta. Di lui ultimamente si è parlato a proposito della pubblicazione in cofanetto, ad opera della Feltrinelli, di una raccolta dei corti che egli girò nel sud negli anni cinquanta, i quali documentano la vita di pastori, pescatori e contadini, spesso a contato con una natura aspra e selvaggia. Il film in questione è piuttosto recente, essendo stato girato nei primi anni '90 e documenta perciò, accanto alla persistenza di attività lavorative ancestrali (come la pastorizia, ad esempio) le conseguenze della incontrollata espansione urbana e dello sviluppo del capitalismo industriale degli scorsi decenni, il cui apice probabilmente fu raggiunto con il "modernismo" degli anni '80. Molte immagini di quel film provengono proprio dalla nostra terra, il Pollino. Sicuramente il film rappresenta una delle pochissime occasioni in cui la macchina da presa di un regista di importanza nazionale come De Seta si sia confrontata con gli ambienti e i paesaggi del Pollino. E' proprio l'asprezza e la magia del Pollino ad aprire e chiudere questo bellissimo film. Nella prima inquadratura vediamo un paesaggio montuoso innevato e desolato, percorso dalla tormenta. C'è solo il silenzio, interrotto solamente dal sibilo del vento... Un gregge. Un pastore con indosso la "cappa", il caratteristico mantello che si portava un tempo, fa cadere la neve dalle ginestre in modo che le capre e le pecore del suo gregge possano cibarsene. Il regista poi mostra la preparazione del formaggio nei casolari. Ma ecco apparire la parete sud-ovest di Timpa di San Lorenzo (ho riconosciuto la zona di Colle Marcione). La macchina da presa poi scende e va ad inquadrare i pascoli ancora innevati e cosparsi di pecore. Altra scena: sullo sfondo di Timpa di San Lorenzo un pastore gioca amichevolmente col suo cane. Intanto, a commentare queste immagini è iniziato un antico ed evocativo canto arberesh lungrese, che farà da colonna sonora all'intero documentario. Sono immagini di grande fascino, che lasciano gli occhi umidi  per l'emozione... Il Pollino calabro apparirà ancora in altre scene: sono da ricordare le inquadrature del convento di Colloreto, le immagini di Laino Castello, il Raganello e Civita, i pini loricati. L'occhio di De Seta fa parlare il paesaggio, si insinua in mezzo alle pecore e alle capre, nei vicoli dei paesini, segue attento le operazioni dei pastori e dei contadini, il lavoro, la loro manualità e gestualità... Quello di De Seta non è un semplice documentario, è il documentario elevato ad opera d'arte: stupenda la fotografia, scene chiare ed essenziali, macchina da presa che alterna la staticità e il movimento, un montaggio che rispecchia le contraddizioni che il film vuole raccontare. De Seta diceva che non si può essere neutrali nel cinema; è infatti il suo film è anche un punto di vista, perchè l'immagine, frutto sempre di una costruzione mentale, è pure una riflessione sul presente. E sono proprio le immagini contrastanti del documentario che ci portano a riflettere su ciò che è avvenuto al sud con l'era dello sviluppo urbano e industriale e le relative contraddizioni. "Può sembrare incredibile, ma in Calabria ci sono persone che vivono ancora come all'origine dei tempi"  così dice il regista all'inizio del film. Ancora, sulle montagne, si ara la terra con l'aratro di ferro e si alleva il bestiame secondo le abitudini del passato (siamo nel 1992...). Sono i lasciti della civiltà contadina che resiste ancora, nonostante tutte le avversità. Nella Calabria contadina l'uomo conduceva una vita di sopravvivenza e di stenti, cercando di strappare ad una natura spesso ostile i mezzi per il proprio sostentamento. Era una realtà di dura fatica e di povertà. Non c'è in De Seta una ingenua esaltazione idilliaca del mondo contadino e delle sue tradizioni, e questo si capisce subito, già dalle prime scene. Il suo è uno sguardo lucido sulle cose e non si cade mai nella tentazione di idealizzare il passato. Del resto tutti i suoi corti hanno sempre voluto raccontare la realtà del lavoro nel sud, sia che si tratti del mare, della montagna o della miniera. Ma ecco che le scene successive del film ci proiettano nella dimensione delle contraddizioni attuali: ruspe al lavoro, l'edilizia sfrenata, gli impianti industriali, le cattedrali nel deserto. La febbre "sviluppista" dell'Italia industriale ha condotto ad un abbaglio, perchè d'un colpo tutto un mondo di tradizioni, di attività, di cultura del territorio, di armonia con i cicli naturali è stato frettolosamente congedato con l'etichetta di "arretratezza". "Le macchine e le fabbriche hanno rappresentato una grande speranza, perchè permettono di dominare la natura,  di alleviare la fatica umana. Ma queste speranze sono andate in gran parte deluse. Gli uomini hanno cominciato a produrre cose che non potevano più fare con le proprie mani e per procurarsele hanno dovuto vendere il loro lavoro. E inoltre la vita  è divenutata incerta, perchè le fabbriche possono chiudere da un momento all'altro, e ancora perchè non sempre producono cose utili a tutti".  Lo sviluppo industriale della Calabria (e del sud in generale) è come una promessa mai realizzata, che ha avuto come conseguenza i gravissimi scempi ambientali oltre al degrado sociale e alla perdità di quell'identità comunitaria che caratterizzava il mondo contadino. Lo sviluppo, in ultima analisi, non ha coinciso con il "progresso". Suggestive appaiono nel film le immagini degli impianti industriali dismessi e dei palazzoni anonimi di periferia, simboli di una modernizzazione apparente e che lascia dietro di sè solo squallore e rovine. Il problema, dice De Seta, è stata la contrapposizione forzata tra vecchio e nuovo, l'incapacità di conciliare la modernizzazione con ciò che c'era da salvare della cultura contadina: aver considerato la sua morte come una condizione imprescindibile per il progresso (come dire: si volle buttare via l'acqua sporca assieme al bambino). All' antico modo di vita subentrarono solo le illusioni del  progresso, i cui risvolti  furono spesso il deturpamento del paesaggio, la disoccupazione e l'emigrazione cronica. Sarebbe potuta esistere una tipologia differente di sviluppo, pensato a partire da una modernizzazione che  si fondasse anche sulla valorizzazione del paesaggio, dei prodotti tipici, dell'arte e delle tradizioni popolari, ovvero uno sviluppo che trasformasse, senza ucciderlo, il mondo contadino? De Seta sembra suggerire proprio questa possibilità, anche perchè le scene di questo film documentano la bellezza e la ricchezza, paesaggistica, ambientale, culturale del Pollino e della Calabria: i suoi borghi (Laino, Civita) i suoi castelli, le sue splendide coste e le montagne, le tradizioni, l'agricoltura e l'artigianato... potenzialità enormi soffocate, ancora oggi purtroppo, da una concezione dello sviluppo economico basata unicamente sul valore del profitto, che è il portato di un capitalismo sfrenato e senza scrupoli. Nel finale del film dalle scene caotiche del traffico girate a Reggio Calabria si passa alla mistica apparizione dei pini loricati, immersi nella nebbia; a luoghi  impressi per sempre nell'anima, come gli splendidi Piani di Pollino e la Serra delle Ciavole... che ci ricordano quali sono i veri "tesori" della nostra bella e martoriata terra del sud...

giovedì 20 agosto 2009

Sorgente Catusa: un santuario della natura

La sorgente Catusa, situata lungo la strada forestale tra Tre Confini e Timpa delle Murge, è un vero santuario naturale. Come ci si inoltra nel bosco abbandonando la strada forestale, si staglia nella sua imponenza questo incantato e un po' nascosto angolo di bosco, in un'atmosfera fiabesca... Enormi massi a forma di altare sembrano accatastati l' uno sull'altro, come gradini di un tempio sacro le cui "colonne" sono invece rappresentate dai possenti faggi secolari, alti, enormi e slanciati verso il cielo. E alla base delle rocce, al centro, ecco sgorgare come un nettare sacro le acque limpide della sorgente Catusa... Ringrazio sempre la natura quando ci regala spettacoli di tal genere. Ecco alcune foto, che però non rendono giustizia della bellezza di questo posto.

mercoledì 19 agosto 2009

Torrente Peschiera

Armati di cavalletto e macchina fotografica io e il mio amico Valentino ci siamo dati un pomeriggio alla fotografia naturalistica, ripercorrendo il sentiero che costeggia lo splendido torrente Peschiera. Per le foto nei torrenti ci vuole molta pazienza: essendo la luce poca i tempi di scatto sono lunghi e la macchina deve stare assolutamente ferma sul cavalletto durante lo scatto. Alcune foto contengono il classico "effetto mosso" dell'acqua che scorre (dovuto appunto ai lunghi tempi di scatto a fronte di un aumento della chiusura del diaframma...) che si può notare in tante foto di paesaggio. Bisogna poi studiare bene l'inquadratura, tanto che spesso capita di doversi bagnare i piedi nel mezzo del torrente! Ecco qualche risultato...

sabato 15 agosto 2009

Wakan Tanka e la Ruota della Medicina: la visione del mondo degli Indiani d’America

gli Indiani d'America in un dipinto di Fredric Remington - sotto: 1. una foto del grande Edward S. Curtis raffigurante un medicine man 2. sepoltura indiana dei Blackfeet in una foto dell'etnografo e fotografo Walter Mc Clintock 3. una ruota di medicina 4. la Medicine Wheel nel logo di un'organizzazione nativa di oggi 5. logo di una campagna per la liberazione di Leonard Peltier, attivista dell'American Indian Movement 6. pittura di sabbia Navajo (sand painting) a scopo cerimoniale raffigurante il Cerchio con le quattro direzioni

“Presso di noi non c’erano templi o santuari che non fossero quelli della natura. Uomo della natura, l’indiano era intensamente poetico. Avrebbe ritenuto sacrilego costruire una casa per Colui che si poteva incontrare faccia a faccia nelle misteriose, ombrose navate della foresta primordiale, nel seno soleggiato delle praterie vergini, o sulle guglie e i pinnacoli vertiginosi di nuda roccia, e lassù nella volta ingioiellata del cielo notturno!”

(Charles Eastman)

Gli Indiani d’America hanno rappresentato una grande cultura nella storia recente dell’umanità. Perseguitati e decimati dalle guerre coloniali degli Stati Uniti, considerati dei selvaggi contrari al progresso dell’umanità, ancora oggi in lotta per l’affermazione dei loro diritti e la difesa della loro cultura tradizionale, essi possono offrirci spunti molto importanti per riflettere sul ruolo dell’uomo nel suo rapporto con l’ambiente naturale, in un’epoca come quella attuale caratterizzata dallo stravolgimento dei cicli naturali e dal continuo sperpero di risorse naturali. Gli Indiani d’America (ma in genere tutti i popoli tribali: gli indiani americani ci hanno offerto solamente molte più testimonianze) avevano una visione molto semplice dell’uomo e della natura. Per la loro religione l’uomo non era un essere superiore la cui missione fosse quella di assogettare sotto di sé ogni manifestazione della natura. Nella Bibbia invece l’uomo è il padrone assoluto, creato a immagine e somiglianza di Dio che lo incita a dominare su ogni altra creatura della terra. Penso come loro che non siamo, noi esseri umani, talmente speciali rispetto agli animali, per possedere l’anima o un posto in paradiso; siamo diversi, certo, ma non superiori. L’uomo per gli indiani era invece parte della natura, parte di un Tutto, ed ogni cosa appartenente alla natura era degna di considerazione e venerazione; persino le rocce, l’acqua, la terra erano considerate qualcosa “di vivo”; quasi “parlavano” per essere i testimoni e i custodi delle gesta degli antenati. L’indiano non aveva paura poi della morte, in quanto la morte, nella loro visione del mondo, faceva parte della vita. L’indiano era cosciente della vera natura del suo posto nel mondo. Non c’era come nelle religioni monoteiste attuali, ma anche come in un certo esistenzialismo nichilista di matrice laica, un rapporto nevrotico (ovviamente è un mio giudizio personale) con la morte. Con la cessazione della vita l’uomo si ricongiungeva al Grande Mistero, alla natura, all’eternità delle cose. La vita per l’indiano, proprio perché intessuta fortemente con i ritmi della vita naturale, era connaturata dalla ciclicità e seguiva la successione delle stagioni, per cui tutto ritornava nel mondo ma contemporaneamente tutto si trasformava. L’uomo capiva di essere inserito in un equilibrio delicato che riguardava tutti gli esseri della terra; la sua intenzione perciò era vivere in armonia con la natura, i suoi cicli e le sue trasformazioni. Questa visione “ecocentrica” del mondo era una diretta espressione del modo di vita indiano, basato su una sorta di comunismo primitivo che portava l’indiano a ritenere inconcepibile il concetto di proprietà privata e la superiorità dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi, una visione del mondo che è riassunta in una celebre frase dei nativi americani passata alla storia: “non è la terra che appartiene all’uomo ma è l’uomo che appartiene alla terra”. Per affrontare l'argomento delle tradizioni e della spiritualità indiana non basterebbe un'enciclopedia; mi limiterò ad esporre liberamente alcuni aspetti della loro visione del mondo.

Alla base della spiritualità indiana c’era il concetto di Wakan Tanka, parola sioux che significa "Grande Mistero", tradotto erroneamente dai gesuiti col termine Grande Spirito (fatto questo che evidentemente mostra come i missionari tendessero ad influenzare ed a vedere sotto la luce del cristianesimo le concezioni religiose dei popoli nativi). Come afferma Eastman, autore del bellissimo libro L’anima dell’indiano:

per lui esso era il concetto supremo, portatore della massima gioia e del massimo appagamento possibili in questa vita. Il culto del “Grande Mistero” era silenzioso, solitario, scevro da ogni egoismo. Era silenzioso, perché ogni parola è necessariamente imperfetta; perciò le anime dei miei antenati si innalzavano a Dio in muta venerazione.

Questo concetto è molto lontano dal Dio delle religioni monoteiste, in quanto il Grande Mistero, Wakan Tanka, era concepito come una forza invisibile presente in tutte le cose, ovvero si identificava con la stessa natura. Scrive Eastman:

agli elementi e alle grandiose forze della natura – il Fulmine, il Vento, l’Acqua, il Fuoco e il Gelo – si guardava con sacro timore come a potenze spirituali, ma sempre di carattere secondario e intermedio. Noi credevamo che lo spirito permeasse di sé tutto il creato, e che ogni essere avesse un’anima anche se in gradi diversi, e non necessariamente un’anima consapevole. L’albero, la cascata, l’orso grigio incarnano tutti una Forza, e come tali sono oggetto di venerazione.

Come afferma ancora Eastman l’indiano era un pensatore logico e chiaro e il suo culto riguardava in ultima analisi il mondo fisico. Tuttavia l’indiano

non aveva ancora fatto una mappa dell’immenso campo della natura né aveva espresso la sua meraviglia in termini scientifici. Con la sua limitata conoscenza di cause ed effetti vedeva miracoli ovunque – il miracolo della vita nel seme dell’uovo, il miracolo della morte nel balenio del fulmine e nell’oceano in burrasca. Nessun prodigio poteva sorprenderlo, come un animale che si metta a parlare, o il Sole che si fermi in mezzo al cielo. La nascita da una vergine non gli sarebbe parsa molto più miracolosa della nascita di ogni bambino che viene al mondo, né il miracolo dei pani e dei pesci lo avrebbe stupito più del raccolto che cresce da una sola spiga di grano.

I riti di questo culto fisico, d’altra parte, erano assolutamente simbolici; l’indiano non tributava un culto al Sole più di quanto il cristiano adori la Croce. Il Sole e la Terra, secondo un’ovvia parabola, appena più ricca di metafora poetica che di verità scientifica, erano ai suoi occhi i genitori di ogni forma di vita organica. Dal Sole, il padre universale, deriva il principio vivificante della natura, e nel grembo paziente e fecondo di nostra madre, la Terra, si celano gli embrioni degli uomini e delle piante.

Anche se Wakan Tanka esprime la Forza ineffabile che dà origine a tutte le cose e anche se appare invisibile, in ultima analisi non è come separato dal mondo e dalla Terra. E’ sempre nella natura che va ricercato il fondamento della spiritualità dei nativi americani. Wakan Tanka è perciò nella stessa natura: negli animali, nelle piante e nel vento… nella stessa materia inanimata. Come afferma Simone Bedetti

il respiro della sua esistenza può essere riconosciuto solo a partire da tutte le cose. Il legame profondo che unisce gli Indiani d’America alla Terra, concepita come madre e sorella, Terra che dà nutrimento a tutti i suoi figli, che accoglie i suoi morti e grazie alla quale tutte le creature possono vivere, non può non influenzare tutto il loro pensiero, ogni tipo di riflessione intorno alla loro esistenza.

Wakan Tanka non fa riferimento ad un Essere pefetto, al di là e al di sopra di tutti gli altri. Il Grande Mistero non è inoltre un essere unico e immobile: “… singolare come espressione verbale e plurale nel significato, non è una personificazione; lo sono le sue manifestazioni: fenomeni naturali come il Vento, le Stelle (il woniya di Wakan Tanka, il respiro del Grande Respiro), il Sole (Wi), la Luna (Hanwi), la nascita di un bambino. E’ a Wakan Tanka, l’energia suprema, la fonte di tutte le cose e presente in tutte le cose, che si rivolge un Sioux quando prega…” (Marco Messignan, sulla spiritualità dei Sioux).

In complesse pratiche tradizionali come la ricerca della visione, il rito della Capanna del Sudore e la Danza del Sole si cercava proprio il contatto con il Grande Mistero . Scriveva Eastman:

la comunione solitaria con l'Invisibile, la più alta espressione della nostra vita religiosa, è parzialmente racchiusa nella parola hambeday - letteralmente "sensazione misteriosa" - , che è stata variamente tradotta come "digiuno" o "sogno". Più propriamente si potrebbe rendere con "coscienza del divino"

Proprio in quanto Wakan Tanka è l’origine di tutte le cose, esso è posto nel centro della Ruota di medicina degli Indiani d’America. La Ruota di medicina è il simbolo per eccellenza dei nativi americani, e racchiude in qualche modo l’intera cultura di questo popolo e le sue tradizioni spirituali. La Ruota aveva la forma di un cerchio costruito sulla terra con sassi e ciottoli. Spesso al centro della Ruota veniva posto un cranio di bisonte, animale sacro a molte tribù, che diventava proprio il simbolo di Wakan Tanka. Come scriveva Alce Nero

tutto ciò che il Potere del Mondo fa, lo fa in un circolo. Il cielo è rotondo, e ho sentito dire che la terra è rotonda come una palla, e che così sono le stelle. Il vento, quando è più potente, gira in turbini. Gli uccelli fanno i loro nidi circolari, perché la loro religione è la stessa nostra. Il sole sorge e tramonta sempre in un circolo. La luna fa lo stesso, e tutti e due sono rotondi. Perfino le stagioni formano un grande circolo, nel loro mutamento, e sempre ritornano al punto di prima. La vita dell'uomo è un circolo, dall'infanzia all'infanzia, e lo stesso accade con ogni cosa dove un potere si muove. Le nostre tende erano rotonde, come i nidi degli uccelli, e inoltre erano sempre disposte in circolo, il cerchio della nazione, un nido di molti nidi, dove il Grande Spirito voleva che noi covassimo i nostri piccoli. Ma i Wasichu ci hanno messi in queste scatole quadrate. Il nostro potere se ne è andato e stiamo morendo, perché il potere non è più in noi.

Come dice Hyemeyohsts Storm, pittore nativo autore di numerose rappresentazioni del Cerchio nel suo famoso libro Sette Frecce:

il Cerchio della Ruota di medicina è l’universo. E’ mutamento, vita, morte, nascita e apprendimento. Questo Grande Cerchio è la dimora del corpo, della mente e del cuore, è il ciclo di tutte le cose che esitono. Il Cerchio è il nostro modo di toccare e di provare armonia con tutte le altre cose che ci stanno intorno; e per coloro che cercano di capire, il Cerchio è il loro specchio.

All’interno del cerchio sono tracciate le Quattro Direzioni o Quattro Venti (Nord, Sud, Ovest ed Est), simboli di altrettante energie spirituali. Nella Ruota l’uomo non è un centro, ma un frammento tra i frammenti, creatura tra le creature; l’individuo dipende da tutte le creature e tutte dipendono da Wakan Tanka. L’individuo per i nativi americani nasceva in una dei quattro quadranti dalle quali prendeva pregi e difetti…

Come afferma giustamente Simone Bedetti, bisogna concepire la Ruota di medicina non come simbolo di pefezione, ma come simbolo di mutamento e trasformazione. La Ruota è il simbolo dell’armonia universale, nel quale trovano posto tutte le cose, ma quest’armonia è frutto delle trasformazioni e dei continui mutamenti. Cioè siamo in presenza di un’armonia nella disarmonia. Questo concetto, espresso dal pensiero dei nativi americani è un’acquisizione anche della filosofia della scienza attuale se si pensa ad esempio ad un autore contemporaneo come Ilya Prigogine secondo cui “l’ordine galleggia nel disordine”. Come scrive Simone Bedetti riprendendo le considerazioni di Kenneth Meadows, il significato di “medicina” “non è uno strumento terapeutico volto a lenire i sintomi di una malattia fisica, mentale e spirituale, ma indica principalmente il potere della realizzazione nella consapevolezza dell’armonia, che a sua volta costituisce il senso ultimo dell’esistenza umana. Ed è con la realizzazione, intesa come partecipazione consapevole e responsabile all’armonia universale, che si guarisce: è questa la medicina della Ruota”. L’armonia della Ruota non è nient’altro che l’armonia della nostra stessa esistenza nella natura, il riconoscimento di essere parte di essa e dei suoi ritmi. Per gli indiani la natura era sacra, anche perché la stessa esistenza dell’indiano americano dipendeva da essa. Non era una concezione astratta ma derivava dal modo di vita delle tribù native. Per l’indiano abenaki Joseph Bruchac ad esempio, l’indiano era attento alla salvaguardia delle specie animali e i vecchi indiani ripetevano che l’uomo non doveva pensare solo a se stesso ma anche alle generazioni future che sarebbero venute (un’acquisizione questa che è oggi è fatta propria dell’ecologismo moderno...). Il cosiddetto “pensiero ecologico” degli antichi nativi americani era infatti considerato una necessità pratica di vita piuttosto che una realtà divina (e quindi astratta); era cioè il risultato finale di esperienze primordiali. La sacralità della natura era così l’elemento più importante della Ruota di Medicina. Il recupero di questo senso di appartenenza e di rispetto per l'ambiente naturale è una sfida per l'uomo contemporaneo. Concludiamo con queste evocative parole di Pete Chatches, indiano dakota...

Ogni essere vivente, in sé, è una forza: persino una minuscola formica, una farfalla, un albero, un fiore, una pietra: poiché in ognuno di essi vive il Grande Spirito. L’attuale modo di vivere dei bianchi tiene questa forza lontana da noi, la indebolisce. C’è bisogno di tempo e pazienza per riavvicinarsi alla natura e lasciarsi aiutare da essa. Tempo, per meditare su questo e comprendere. Voi ne avete così poco per la contemplazione e l’osservazione: siete sempre di corsa, continuamente incitati, sempre a caccia di qualcosa. Questa inquietudine, questo inutile sforzo impoverisce gli uomini.

Riferimenti:

L’anima dell’indiano, Charles A. Eastman

La Ruota di medicina degli Indiani d’America, Simone Bedetti

I segreti degli Indiani d’America, Simone Bedetti

I Sioux, Marco Messignan