giovedì 30 settembre 2010

Cormac McCarthy, scrittore di frontiera

immagine tratta dal film "Non è un paese per vecchi".
sotto: 1. copertina dell'ultima edizione italiana di Cavalli Selvaggi; 2. una pagina di Blood Meridian "macchiata di sangue" 3. locandina del film dei fratelli Cohen, "Non è un paese per vecchi"; 4. un'immagine tratta dal film "The road"; 5. ritratto di Cormac McCarthy

Cormac MacCarthy. Il nome è ormai una leggenda nel panorama della letteratura internazionale contemporanea. Ed è anche entrato a pieno diritto tra i grandi nomi della letteratura americana.
Cormac è uno scrittore schivo, rintanato nel suo ranch, in Texas ed estraneo ai salotti letterari: nella sua carriera ha concesso pochissime interviste alla televisione e ai giornali. Il suo stile è originalissimo… essenziale, asciutto, descrittivo fino all’eccesso, quasi “oggettivo” nella rappresentazione delle scene, mai basato sull’introspezione dei personaggi; con momenti di grande espressività pittorica, come nella descrizione, ricca di metafore, della natura aspra e selvaggia del West. Un tratto distintivo del suo modo di scrivere lo si ritrova nei dialoghi tra i personaggi, con frasi che sembrano sentenze (ma inframezzati in certe parti di alcuni suoi romanzi da lunghi monologhi “filosofici”, come nella Trilogia della frontiera) e senza virgolette. Sebbene lo scrittore abbia cominciato a pubblicare già dagli anni ’70, il vecchio cowboy della letteratura ha conquistato la sua fama in tempi relativamente recenti, e questo soprattutto in Italia dopo la pubblicazione della saga della Trilogia della frontiera, composta da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura. 
Dopo la trilogia in Italia verranno pubblicate (tutte dalla casa editrice Einaudi) anche le opere dei decenni ‘70 e ‘80.  La prima fase della sua produzione letteraria comprende western cupi ed estremamente violenti, con sfumature noir, quasi horrorifiche (sebbene i temi della malvagità umana e la violenza siano comunque al centro della sua riflessione di scrittore). Un esempio è il capolavoro Meridiano di sangue, rivalutato dalla critica in tempi recenti, basato sulla ricostruzione delle gesta sanguinarie della banda Glanton, alla caccia di scalpi indiani lungo le piste infuocate del sud-ovest, tra Stati Uniti e Messico, dove emerge la figura inquietante del “giudice”, uomo di cultura e di scienze e oscuro stratega della violenza, simbolo della lucida volontà annientatrice del potere. 
Nel riuscitissimo Figlio di Dio si racconta invece la storia di uno dei tanti emarginati del profondo sud, la sua solitudine e la progressiva degradazione morale che lo portano a diventare un killer spietato, in un crescendo di violenza e morte. A questa schiera di romanzi appartiene Il buio fuori, storia di un incesto e della ricerca di un bambino perduto, mentre sullo sfondo si consumano i delitti di una banda enigmatica. Il romanzo di esordio invece era stato Il guardiano del frutteto, il meno riuscito a mio giudizio (perché poco scorrevole, quasi ostico), ambientato in una comunità del Tennessee dove si intrecciano i destini di tre uomini accomunati da un delitto misterioso; storia in cui in cui si ritrovano temi e stili narrativi cari a Faulkner, scrittore a cui McCarthy è stato spesso avvicinato. Il capolavoro di McCarty è Suttree , romanzo corposo, considerato dai critici l’opera summa e più complessa, dal punto di vista stilistico, dello scrittore texano. Un capolavoro assoluto è il best-seller Non è un paese per vecchi, del 2005, riproposto fedelmente sullo schermo circa tre anni fa dai fratelli Coen. E’ un triller-western ambientato nella nostra epoca, storia di un inseguimento “a tre” in cui a dominare è la sinistra figura di Chicurg, un killer paranoico che colpisce con freddezza e piglio da ingegnere (mitiche le scene in cui decide a Testa o Croce, con una monetina, il destino che attende i poveri malcapitati che incrociano la sua strada). La trama ruota intorno alla contesa di una valigetta di dollari sporchi frutto della guerra dei narcotrafficanti che insanguina il confine. Anche qui emerge oltre al personaggio del vecchio sceriffo che non comprende più la violenza insensata che sconvolge il suo paese (da qui il titolo “Non è un paese per vecchi”), la figura di un cowboy che lotta per se stesso e la sua dignità, come nei romanzi che hanno un po’ conferito la gloria a McCarthy...ovvero quelli della Trilogia della frontiera
 La trilogia è incentrata sul confine, The Crossing, un luogo al tempo stesso reale e metafisico, che diventa anche lo spazio della ricerca della libertà, di se stessi. Uno spazio iniziatico che deciderà per sempre, nel bene o nel male, le sorti della propria esistenza. Il Messico è la destinazione che svelerà agli occhi dei giovani cowboys Billy e John un universo enigmatico, fatto contemporaneamente di violenza e amore: il Messico è l’accoglienza dei peones e ragazze bellissime, ma anche la supremazia e l’ostilità dei suoi costumi e delle sue leggi inesorabili, coi quali si scontrano le illusioni della propria ricerca esistenziale. E ciò che resta ai cowboys è proprio l’atto della ricerca, esemplificato dai grandi spazi della frontiera, dalla vita vagabonda lungo le piste del sud-ovest, da sparatorie, duelli ed inseguimenti per difendere se stessi e ciò a cui si tiene di più... In questi libri i toni cupi e quasi lugubri dei primi i romanzi vengono stemperati mentre prende corpo una narrazione avventurosa, a tratti dai toni epici, con pagine di grande lirismo narrativo, dove a dominare sono le distese selvagge del West, le vicende di cowboys, di cavalli e di lupi… E siamo arrivati al significato della natura nell’opera di McCarthy. La natura, nella sua accezione di wilderness, è la vera protagonista, forse, dei suoi romanzi. Una natura nè romantica, né ostile: semplicemente indifferente ai destini degli uomini, e che custodisce, come sembra volere suggerire l’enigmatico scrittore, il segreto dell’esistenza umana e contemporaneamente di tutti gli altri esseri, di alberi e animali, della pietra stessa. Una natura fatta di caos e conflitto, la quale serba in sé i meccanismi di una violenza primordiale, che nell’uomo diventa “malvagità”, sopraffazione insensata. E forse è il segreto del Male, come dicono i critici, l’ossessione di McCarthy (tema che rimanda al Moby Dick di Hermann Melville, una delle grandi fonti di ispirazione letterarie di questo scrittore). Un’ossessione che si ritrova nella sua ultima prova (premiata nel 2007 con il Premio Pulitzer), La strada, il romanzo più cupo, violento e visionario di McCarthy, da cui è stato tratto un grande film di John Hillcoat che il bigottismo made in Italy ha ritenuto non essere degno di uscire nelle sale italiane ( “troppo pessimista” “troppo amaro” ci hanno detto i nostri censori, abituati ad infarcire le sale italiane di polpettoni sentimentali o di volgari commedie all’italiana).
In un mondo letteralmente “carbonizzato”, senza più speranze, percorso dalle scorrerie sanguinarie di bande di sopravvissuti, distrutto da un’apocalisse di cui l’autore non spiega l’origine né le cause (potrebbe essere anche una catastofe naturale...), un padre e un bambino viaggiano lungo la strada, verso sud, alla ricerca di una possibile salvezza. Ciò che rimane, anche nella più nera devastazione, è l’orgoglio di essere “i più buoni tra gli uomini”. Anche se McCarthy non esprime mai giudizi, i suoi romanzi contengono in realtà una forte carica “morale”; spesso i suoi cowboys e in genere i protagonisti dei suoi romanzi, non svendono mai, a costo della propria pelle, quella dignità che coincide anche con l’affermazione di “valori” autenticamente umani… 
Indio

giovedì 2 settembre 2010

Diario - 1 settembre 2010


Un’arrampicata sulla slavina - Slavina di Serra del Prete, cima, Colle Impiso. 

 la violenza della slavina: un paesaggio di grande forza e suggestione - foto by Indio. sotto: 1. faggi travolti presso la base terminale della slavina 2. lo spiazzo nella foresta dove termina la slavina; 3. uno "storto" autoscatto; 4. particolare: lo sradicamento dei faggi; 5. il tratto iniziale della slavina coni primi faggi abbattuti... sullo sfondo il Monte Pollino; 6. veduta generale del cuore del massiccio del Pollino, dalla cima di Serra del Prete


La recente slavina di Serra del Prete è diventata quasi  una sorta di evento, che ha destato meraviglia e stupore tra i tanti appassionati del Pollino. 
Già in un’escursione a fine marzo avevo notato che su Serra del Prete c’era una ferita su un fianco della montagna, che aveva cambiato il suo abituale aspetto.
Di solito gli alpinisti creano nuove vie sulle montagne, ma in questo caso è come se la via alla cima l’avesse tracciata la montagna stessa: nella mia testa era subito balenata l’idea di seguire il percorso della slavina dalla base (ovvero dal posto in cui è terminata la corsa violenta della valanga) fino alla sommità della montagna, da cui si è scatenata.
Avevo visto anche altre foto fatte da lontano e altre di sopralluoghi  di escursionisti le quali non hanno fatto altro che aumentare la mia curiosità. Volevo essere là, “sul luogo del disastro”, in mezzo ai resti della devastazione. Be’ direte, voi, potevi scendere dalla cima senza complicarti la vita in una faticosa scalata. 
Be’, che vi devo dire, mi entusiasmava proprio l’idea della scalata… e poi… a me piace sempre complicarmi la vita! Il problema è stato trovare nella faggeta il punto in cui la slavina è terminata.
Intanto sono arrivato ai piani di Vaquarro per rendermi conto della direzione da prendere. La slavina sta di fronte a me e devo procedere nella foresta mantenendomi un po’ sulla destra. La faggeta è intricata. Finalmente noto un gruppo di faggi secchi e piegati dalla neve e penso che lì, salendo, dovrei incontrare lo spiazzo nella foresta creato dalla valanga. Arranco sul ripido pendio boscoso  ma incontro di nuovo il bosco fitto. Poi incontro un crinale sassoso scoperto: decido di risalirlo per vedere se mi porta da qualche parte e se dalla sua sommità spoglia dagli alberi possa finalmente intravedere qualcosa. 
Anche se è estate ho portato una picozza da neve corta, per avere stabilità quando risalirò il ripido canalone formato dalla slavina, ma già qui mi offre un valido aiuto per stare in equilibrio sul tappeto scivoloso di foglie secche. Arrivo sulla sommità del crinale.
La slavina dovrebbe essere qui, da qualche parte, a sinistra o a destra del crinale. Sono disorientato perché vedo solo fitta foresta e comincia ad assalirmi l'impazienza, ma appena faccio due passi ecco che noto, in basso e sulla mia destra, dei faggi secchi accasciati al suolo: l’ho trovata, è il punto terminale della slavina. “L’ho trovata, l’ho trovata!” . .. mi ritrovo ad esultare come un mezzo scemo e mi dirigo subito verso lo spettacolo che mi attende. In questo punto la slavina ha creato uno spiazzo nella faggeta, dove sono ammassati cataste di  faggi sradicati o spezzati e trascinati qui anche dopo decine di metri dal posto in cui mettevano le radici. Adesso devo trovarmi la strada tra i tronchi, scavalcandoli o a aggirandoli ed evitando di incastrare le caviglie. In alcuni punti i faggi sradicati hanno creato buchi circolari… all’interno restano le pietre che erano incastrate tra le radici. Noto un faggio dritto e solitario, scampato al disastro, in mezzo a quello sfasciume generale. Faccio tante foto, quasi come se dovessi realizzare un reportage dell’evento. E’ mezzogiorno ed ho una certa fame. 
Pranzo a base di prugne e biscotti, in piedi, mentre osservo il panorama apocalittico che mi sta di fronte. Il pendio si fa più ripido e i faggi sono più esili… quelli riusciti a rimanere in piedi. La slavina ha creato un enorme corridoio nella foresta, che però scendendo traccia una specie di curva, delineando la direzione seguita dalla valanga durante la sua corsa.  Adesso la scalata si fa più impegnativa. Bisogna procedere accovacciati, bacino all’indietro e picozza come punto d’appoggio: è il segreto per non stancarsi come direbbe un maestro dell'arrampicata del calibro di Caruso. Gli scarponi massicci da alpinismo che ho ai piedi sono qui molto utili. Mi porto finalmente al limite della faggeta, sotto la cima. Qui la slavina ha creato due “rivoli” che hanno attraversato la faggeta senza travolgere tutti gli alberi (in effetti al limite della faggeta pochi sono stati gli alberi sradicati), e che poi si son riuniti più sotto e hanno ingrossato la valanga: questa si è  poi catapultata giù "strappando" alla montagna  un lembo di foresta che ne ammanta un fianco, come un enorme rasoio elettrico. Mi porto poi al lato del corridoio, tra i faggi “fortunati”, quelli che non hanno incontrato la corsa della valanga.
Provo ad immaginare i momenti della catastrofe, tento di ricostruire quel giorno cosa può essere successo: un rumore assordante, la neve che si scatena dalla montagna, la valanga che diventa sempre più gigantesca, che scivola nel bosco e travolge gli alberi, li spezza, li sradica e li trascina come un fiume in piena giù a valle.
Mi metto anch’io nei panni del superstite e mi vedo qui da solo, a contemplare per un attimo, terrorizzato, quello che sta succedendo, prima di  buttarmi a terra per evitare di essere colpito dai rami, ma con la coscienza di avere scampato il pericolo per un pelo… e con addosso un' inconscia contentezza per avere assistito all'evento uscendone vivo. Esco finalmente dalla faggeta e mi ritrovo sotto la cima di Serra del Prete. Seguo il crinale roccioso che mi ricongiungerà al versante nord, dove si snoda la via classica per arrivare alla cima. E’ divertente arrampicarsi tra le rocce, tanto che non senti più la fatica addosso. Ed eccomi sotto la cima, un ultimo tratto e arrivo al mucchio di sassi che indica il punto più alto. Il panorama è superbo oggi, perché l’aria è estremamente tersa e nitida. Riesco a vedere perfettamente il Tirreno e il Golfo di Policastro, ma anche lo Ionio. E poi posso ammirare le selvagge foreste che ammantano Monte Pollino, Timpone Cannocchiello e Serra di Crispo. Noto anche i maestosi abeti bianchi che sovrastano il corso del torrente Frido, sotto Cannocchiello,  nella foresta: è probabilmente l’ultima colonia in direzione sud-ovest. Adesso non mi resta scendere il crinale nord e arrivare a Colle Impiso. Nel bosco, lungo il sentiero, rivedo quei caratterstici faggi attorcigliati come pitoni: i cosiddetti “alberi serpente”. 



Una disavventura da ricordare.

Sono in mountain bike, l'unico mezzo che ho a disposizione oggi per giungere a Colle Impiso. Tutto bene. Sono allenato e piano piano procedo senza fatica. Noto che la ruota non è tanto stabile. Devo stringere l’asse della ruota posteriore. Forse stringo un po’ troppo la leva, picchiandola con il palmo della mano. Sta di fatto che evidentemente la pressione è troppo forte e l’asse si spezza in prossimità della vite che fa da fermo. Sono davvero un idiota e non avrei dovuto forzare l’asse a quel modo. Chi ha un po’ di forza la usi in maniera ponderata, altrimenti rischia di fare i danni che spesso faccio io (come le macchinette del caffè coi manici spaccati o spanate per avvitamenti troppo forti). Vebbè ormai è fatta e non posso più procedere pedalando. Ma non mi va di rinunciare all’escursione, perciò decido che andrò a piedi. Devo nascondere la bicicletta da qualche parte per poi ritornare a prenderla, magari in auto se trovo un passaggio. E poi da lì tornare a piedi fino al mio villaggio, bicicletta alla mano, in discesa! Una vera e propria sfiga/sfida oggi. E se fosse un segno del destino per esortarmi a rinunciare all’escursione? Forse mi capiterà qualche incidente, che so,  un faggio che mi crolla addosso e io che rimango sotto chiedendo aiuto al nulla. Ma non sono superstizioso e mi levo subito dalla testa simili pensate. Be’, sono appiedato, sono sul ciglio della strada come direbbe Robert Johnson, e dato che il blues è in tema sfodero il lettore MP3 e scelgo di ascoltare proprio dei brani di acoustic blues del Mississipi, così non mi annoio troppo per la strada. A Piano Visitone c’è un pastore di Viggianello che conobbi l’anno scorso. Lo precedono un paio di vacche e lo accompagnano due cani. Si ferma alla cappelletta di San Francesco, si leva il cappello e si fa la croce. Poi si dirige come me verso la fontana. Parliamo un po’ e gli racconto della mia disavventura e gli dico che ho intenzione di scalare la slavina di Serra del Prete. Non sapeva nulla della slavina a Serra del Prete, si ricordava solo della slavina al Monte Pollino. Comincia a darmi consigli sia sui modi più comodi per tornare a casa dopo l’escursione, sia sui sentieri da prendere per l'escursione, ma poi gli faccio capire che conosco anch'io abbastanza bene i posti e che sulla Serra del Prete ci son stato anche con la  neve. “Sono posti impervi - dice lui - c’è gente che là si potrebbe perdere… Prendi Gaudolino. Da quelle parti esistono timpe dove se non stai attento ti perdi di sicuro...  Mica sono  tutti come noi, che ce la sappiamo cavare…” Mi ha riempito un po’ d’orgoglio quel  “come noi” , anche perché i più grandi conoscitori delle nostre montagne son stati sempre i pastori. Un pizzico di vanità non guasta. Vuol dire che c’è comunanza tra noi sulla montagna e sulla sua esperienza, anche se lui è un pastore e io un escursionista - fotografo. Dico al pastore che al ritorno una soluzione si troverà per andarmene a casa e che forse prenderò delle scorciatoie invece di seguire la strada asfaltata. Saluto il pastore di Viggianello e proseguo per la mia strada. Eccomi a Colle Impiso, dove inizia l’escursione.

Sono sopra Colle Impiso, sul sentiero che scende da Serra del Prete. Che bello, è finita l’escursione. Peccato che invece di un’entusiasmante discesa in mountain bike mi aspettino solo 20 chilometri da percorrere a piedi fino a casa mia. Potrei farmi venire a prendere da qualcuno, ma voglio cavarmela da solo. E’ subentrata la fase del “trekking delirante”, la fase delle disavventure un po' folli che caratterizza spesso le mie uscite. A Colle Impiso potrei trovare qualcuno che mi dia un passaggio fino al posto in cui ho lasciato la bici. Ma non trovo nessuno, mi avvio a piedi e lungo la strada non passano auto. A Visitone decido di prendere una scorciatoia fino al posto dove ho lasciato la bici. Attraverso boschetti di faggio percorrendo sentieri di pastori, scavalco fossati e cammino tra l’erba alta dei pascoli e riesco a portarmi lungo la cresta rocciosa di Timpa del Demonio, un dente di roccia che si erge solitario sui pascoli. A ridosso di una sporgenza rocciosa noto una piazzola adibita a rifugio dai cinghiali: me ne rendo conto dal terreno scavato e dagli escrementi. La tipica tana del cinghiale. Mia sorella mi chiama, gli spiego l’accaduto e vorrebbe venire a prendermi, ma non voglio farle perdere mezza giornata di lavoro. E poi ormai è diventata una sfida quella di cavarmela da solo. Una sfida che parte dalla sfiga. Proseguo così fino a sbucare sui pascoli attraversati dalla strada che va a Visitone. Prendo la bici e inizio a camminare. Finchè si tratta di sentieri potrei camminare anche 50 chilometri, ma camminare su una strada asfaltata e per giunta in discesa con la bicicletta portata a mano non è una cosa tanto divertente! E il dolore ai piedi si fa insopportabile quando cammini sull’asfalto. Prima di Voscari incontro un pastore che mi dice “Ma come, invece di portare la bicicletta a mano in salita, te la porti così in discesa?” “Eh già” - dico - “Io faccio sempre tutto al contrario…”