martedì 29 giugno 2010

Una ferita nella foresta - Valanga su Serra del Prete

"Il tempo è capace di rimarginare anche le ferite più profonde"
(da un fumetto di Tex)

Un segno inaspettato per me, che in quel giorno, arrivato ai pianori di Toscano contemplavo le cime superbe, imbiancate dalle nevi ghiacciate. Una slavina proprio su Serra del Prete, che ha travolto nella sua corsa violenta decine e decine di faggi, ora ben visibili dopo lo sciogliersi della neve, relitti accatastati l'uno sull'altro come croste di una profonda ferita nella foresta, che attende di rimarginarsi con le cure del lento ridestarsi del corso della natura...

la slavina vista dalla Grande Porta (il segno bianco sulla destra della montagna) come apapriva il 28 marzo - foto by Indio
la slavina come appare recentemente in una foto del "maestro" Giorgio Braschi

venerdì 11 giugno 2010

Natura selvaggia - Franco Zunino

paesaggio da Serra Crispo - foto by Indio


"La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni.
E' il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all'opera dell'uomo, anche quando quest'opera è minima o ha fini di conservazione e di studio.
La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e di straripare;
è la libertà di volare e di correre degli animali; 
sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; 
è l'immensità del cielo su un panorama d'erba, è il silenzio della natura e lo scrosciare d'acque delle valli montane;
l'urlo del temporale nella foresta; 
il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; 
il lento volo dell'aquila che annulla lo spazio tra le montagne; 
è il gioco delle onde sulla scogliera.
La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d'uomo; è ascoltare e non udire rumori d'uomo."

Franco Zunino
(da: Wilderness, una nuova esigenza di conservazione delle aree naturali, Roma 1980).




sabato 5 giugno 2010

Le Quattro Volte - di Michelangelo Frammartino. Il Pollino protagonista a Cannes.

“Abbiamo in noi quattro vite successive, incastrate l’una dentro l’altra. L’uomo è un minerale perché ha in sé lo scheletro, formato da Sali e da sostanze minerali; attorno a questo scheletro è ricamato un corpo di carne, formato di acqua, di fermenti e di altri Sali. L’uomo è anche un vegetale, perché come le piante si nutre, respira, ha un sistema circolatorio, ha il sangue come linfa, si riproduce. È anche un animale, in quanto dotato di moralità e di conoscenza del mondo esterno, datagli dai cinque sensi completata dall’immaginazione e dalla memoria. Infine è un essere razionale, in quanto possiede verità e ragione”. (testimonianza di scuola pitagorica)

"Le Quattro Volte" è il film di Michelangelo Frammartino premiato a Cannes ed uscito ultimamente nelle sale italiane. Indubbiamente è a mio avviso uno dei film migliori che il cinema italiano abbia prodotto di recente. Soprattutto un'opera che non può essere ignorata da coloro i quali sono originari del Pollino, o vivono ancora nelle sue valli.  Gran parte delle riprese si sono infatti svolte nelle strade, nei pascoli e nei boschi  di Alessandria del Carretto, piccolo borgo del Pollino calabrese, paese già noto per un altro grande film-documentario: "I dimenticati", del grande regista Vittorio De Seta. Come in De Seta, anche in questo film i protagonisti appartengono al mondo sommerso della civiltà contadina, i cui relitti persistono ancora nelle sperdute contrade dell'appennino meridionale. I protagonisti di questo film non sono però solo contadini, ma anche animali, alberi, natura inanimata, ovvero la terra stessa. Come suggerisce la testimonianza di Pitagora l'uomo è egli stesso tutte queste cose. Proprio da questo concetto pitagorico si ricava il filo che tesse l'intera trama del film e che gli dà il titolo. L'originalità di Frammartino sta proprio qui: egli fa parlare quattro diversi protagonisti che rimandano anche alla suddivisione del film in quattro capitoli  differenti, ma legati strettamente l'uno all'altro. Ad aprire il film è un vecchio pastore di capre alla fine dei suoi giorni: anche se l'elemento simbolico più importante all'inizio appare la terra, come sostanza minerale, sotto forma della polvere accumulata sul pavimento della chiesa del paese... Una terra che assume carattere sacrale, per il pastore un rimedio magico ai suoi mali. Dalla morte che fa incursione nel piccolo paese la scena successiva ci mostra la vita che rinasce, questa volta sotto le sembianze di un capretto appena venuto al mondo.
La "terza volta" è invece rappresentata dalle vicissitudini di un abete bianco, colto nel mutare delle stagioni,  il cui destino è legato alla cultura della civiltà agropastorale. Attraverso il lungo cammino e le trasformazioni dell'abete si ritornerà nuovamente all'uomo, per inaugurare una distruzione che rappresenta però anche un nuovo inizio e un nuovo ritorno.
Morte e vita in questo film convivono e si confondono, e la successione delle scene rimanda anche alla rappresentazione dei cicli della natura, che pervadono l'esistenza dell'uomo nel mondo agreste delle montagne. Ogni essere è legato all'altro, anzi, ogni essere entra a far parte di un altro e della sua rispettiva sfera di vita, per poi ritornare alla sua origine (efficace ad esempio la scena dell'albero entra nel camino delle abitazioni e ne esce come fumo, espandendosi nell'aria...); e la successione delle sequenze dà quasi l'idea della reincarnazione... Penso che ci sia in questo film un forte accento sul cosidetto "senso del sacro": quest'ultimo è espresso dalla polvere della chiesa, usata nel rituale salvifico del vecchio pastore come medicina; e soprattutto nella venerazione della natura espressa dagli antichi  (e pagani) riti arborei. Quando, dopo che la festa è finita, l'abete verrà venduto ai carbonai, essi erigeranno una catasta verticale con i suoi ceppi, posta al centro della loro arena circolare di legna accatastata (mi viene in mente il significato che ha il cerchio nelle culture tradizionali..). Nel centro del cerchio, nell'interstizio della catasta, verrà appiccato il fuoco, con un gesto augurale che vuole in qualche modo "benedire" il risultato del duro e delicato lavoro dei carbonai e "ringraziare" allo stesso tempo il "tutto cosmico".
E alla fine il fumo della legna ritornerà tra gli alberi, confondendosi con la nebbia che aleggia sulla foresta di faggio e abete bianco (bella l'inquadratura degli abeti che spuntano dalla faggeta... al tempo stesso mistica e a me così familiare...).
Il pregio di questo film è anche dovuto all'elevato livello tecnico- espressivo. Grande importanza assumono perciò le meditate scelte stilistiche. Si capisce ad un'analisi attenta del film che in esso non c'è nulla di improvvisato. Ogni sequenza obbedisce alla solida logica filosofica che sta dietro a tutto il film. Lo sguardo del regista è inesorabile, distaccato: molte le scene girate dall'alto e con la telecamera fissa. Nell'inquadratura fissa c'è un mondo che vive, con le sue ripetizioni, la quotidianità, ma anche i suoi eventi di rottura e di cambiamento.  Fondamnetali anche i primi piani, fortemente evocativi: mi viene in mente il confronto fra la scena della formica che si aggira sul volto rugoso del vecchio pastore e la scena di un'altra formica, che invece si vede camminare sulla corteccia del grande abete che viene mostrato all'inizio del terzo capitolo...

La maestria del regista è anche l'aver saputo raccontare la sua storia evitando commenti fuori campo  e sottotitoli, e rendendo incomprensibili i limitati dialoghi che pure esistono in alcune scene del film. E' un film perciò che si esprime molto con l'immagine e gli effetti sonori. Un film di rumori e suoni quindi: i belati del capretto, i colpi di tosse del vecchio, i tuoni e il chiacchiericcio sommesso e lontano degli uomini, lo scricchiolio della legna carbonizzata...
Un film che sicuramente piacerà a noi giovani appassionati del Pollino, a tutti quelli in cui  è ancora viva la coscienza e la memoria che ci lega alle radici del mondo contadino, al ricordo della nostra gente e alle atmosfere della nostra terra. E' un fatto di cuore, e al cuore non si comanda...
Indio

giovedì 3 giugno 2010

Diario - 30 maggio 2010




Montagne della Duchessa - Lago della Duchessa - Monte Morrone

 
Il Lago della Duchessa - foto by Indio. sotto: 1. mucche al pascolo sulle rive del lago; 2. una curiosa foto: sembra in bianco e nero, perchè riflette gli elementi caratteristici di questa aspra montagna: pareti rocciose verticali, con alla base accumuli di detriti e qualche rada macchia di ginepro come vegetazione; 3. Vincenzo A. mentre saliamo al Monte Morrone; 4. lo scenario delle Montagne della Duchessa, dal Monte Morrone: un paesaggio desolato che ricorda vagamente gli altipiani del Tibet...





“Perché là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” 
(dal Vangelo secondo Matteo)

Ad un'ora di macchina dalla capitale e a pochi chilometri dall'autostrada Roma L'Aquila, ai confini con l’Abruzzo,  si ergono probabilmente le più belle e selvagge montagne del Lazio, le Montagne della Duchessa. Sono inserite in una riserva naturale integrale che conserva un'eccezionale ricchezza di paesaggi e di biodiversità (a quanto pare sono anche territorio dell’orso bruno marsicano). A differenza che in tanti parchi (dove si tende a mettere di tutto e di più) i confini della riserva sono stati individuati con criterio, comprendendo solo le aree più selvagge.  Il tesoro più bello di queste montagne è indubbiamente il Lago della Duchessa, che si estende in una conca tra le montagne. Avevamo già percorso questa bella montagna tre anni fa, da un altro versante (percorrendo la selvaggia Valle Amara) e con metri e metri di neve che coprivano le estese praterie di alta quota. All’epoca non riuscimmo a trovare il lago.  Oggi siamo in due, io e Vincenzo A., l’inseparabile e instancabile compagno di tanti trekking sul Pollino e altrove. La nostra escursione  comincia nell'antico borgo rurale di Cartore. Il borgo  si erge su un esteso pianoro alla base delle montagne, oggi è destinato ad uso turistico ma ha un'antichissima storia, perchè risale al XIII secolo. Abbandonato nei decenni passati e oggi è stato ricostituito con un accurato ed esemplare intervento di recupero. E' un vero gioiello architettoni co e paesaggistico, isolato dalle strade asfaltate (vi si arriva per una strada forestale). Da lì prendiamo il sentiero che sale seguendo il valico del Vallone del Cieco, una profonda forra incastonata tra pareti strapiombanti e selvagge. Il sentiero è abbastanza ripido e in alcuni tratti è scavato nella roccia. Una pecca è rappresentata da alcune brutte segnalazioni giallo-rosse sulle rocce (forse son state fatte da romanisti?). Qualcuno poi ha pensato bene, in due tratti che pericolosi non mi sembrano proprio, di impiantare nella roccia con dei chiodi di ferro delle inutili e deturpanti catene (al limite non si poteva mettere una semplice corda?). Esprimo il mio disappunto e per coerenza non usufruisco dell’aiuto delle catene! Questo è proprio uno di quei classici sentieri che piacciono a me, di quelli scavati a tratti nella roccia, a volte ripidi e che attraversano angoli incantati di foresta. Ci ricorda vagamente la nostra Scala di Gaudolino. La vegetazione cambia mentre saliamo… Nell’ultimo tratto del sentiero comincia a prevalere la faggeta. Usciamo dal bosco sulle praterie d’alta quota. Ci accoglie la luce del sole che fa brillare le fioriture primaverili e il verde dei prati. A destra  le propaggini del Murolungo, ricoperte da una rada faggeta. Salendo incontriamo un tipico ambiente agropastorale: antichi recinti di pastori costruiti a secco con le bianche pietre della montagna. Si ergono alcune piccole baracche. Una di esse è destinata a rifugio. Sono in genere contrario ai rifugi d’alta quota ma in questo caso il rifugio oltre ad essere piccolo e molto rustico  si armonizza bene con le umili dimore dei pastori, vecchie e nuove. Entriamo nella piccola costruzione  e subito ci balena un’idea: venire qui in inverno quando questa montagna sarà sommersa dalla neve e usare il rifugio come campo base per escursioni su neve ghiacciata, con tanto di ramponi e picozza per raggiungere le vette dei monti!  Si procede nell’ampio pianoro che comincia ad estendersi alla nostra vista. Cerchiamo il lago… Esisterà? Oppure è una proiezione metafisica, un’allucinazione collettiva? Altura dopo altura, con gli occhi fissi a cosa di volta in volta si dipana alla nostra vista, finalmente il lago ci appare, e in tutta la sua bellezza. Il lago è incastonato ai piedi del Monte Morrone, alla cui cima siamo diretti. Occupa una conca glaciale ed è alimentato solo da acque piovane. Siamo a quota 1788 metri.  Sulla sua riva opposta alcune mucche ci osservano. Hanno il colore dei massi , un biancore cupo…  appaiono quasi come una razza selvaggia che da sempre abbia popolato  queste lande  brulle e desolate.

Costeggiamo il lago e ci portiamo sul sentiero che ci condurrà  al monte Morrone, del quale osserviamo il versante roccioso e selvaggio: terrazzi primordiali di roccia, quasi dei ripari naturali, spuntano dalla montagna… un grande rapace si leva in volo. Pensiamo si tratti di un’aquila reale, per come è grande. Ma poi capiremo, leggendo la tabella escursionistica a Cartore, che in realtà abbiamo avvistato il grifone, che qui è stato reintrodotto negli anni 90 ed è facile da vedere librarsi in volo. Bell’incontro questo. E’ la prima volta che avvisto questo maestoso dominatore dei cieli… Il sentiero percorre tratti di pietraia e ci porta sulla cresta del Monte Morrone. Curiose segnalazioni “giamaicane” (ovvero con i colori della relativa bandiera) ci indicano la strada. Salendo la visuale si amplia: queste montagne spoglie e desolate mi ricordano vagamente gli altipiani del Tibet. Il Monte Murolungo domina la scena con le sue verticali pareti rocciose; più in fondo un’altra austera montagna ancora quasi del tutto innevata (Monte Rozza). E poi, come centro e motivo del tutto, come segno distintivo in cui converge l’identità di queste montagne, il lago, uno specchio d’acqua che riflette la mutevolezza del cielo,  incastonato in una conca. Procediamo salendo la dorsale rocciosa che si fa più ripida. Alcuni tratti di facile arrampicata e siamo sulla sommità della montagna, a cica 2200 metri.  Da qui possiamo notare la foresta che attraversammo tre anni fa… la foresta circonda solo i fianchi delle montagne. Il cuore del massiccio è invece spoglio, un’estensione selvaggia di creste rocciose e praterie d’alta quota. E’ da un po’ che osservo Murolungo: quelle pareti così ripide e selvagge rappresentano un’attrazione irresistibile: mi immagino là, mentre arranco sull’accumulo di detriti alla base delle rocce o mentre  cerco una via tra le rocce verticali, lottando contro la montagna che mi vuole respingere.
Davvero una montagna appetibile per gli alpinisti! Notiamo lontani sotto di noi dei curiosi segni geometrici di pietra, che ribatteziamo le “linee Nazca”. No, non c’entra la civiltà d’Atlantide né gli Ufo: sono antichi resti di recinti di pastori, espressione di una civiltà ben più umile. Si torna indietro e lo sguardo si volge verso il lago, attrazione viva e quasi ipnotizzante di queste montagne. Raggiungiamo lesue rive e ci riposiamo nell’erba. La riva del lago è un microcosmo popolato da erbe e piante grasse fiorite a me ignote. Quali esseri possono vivere in un lago d’alta quota come questo? Guardo quell’acqua limpida cercando di scovare qualche piccola rana o insetto, ma non vedo nulla. Il lago sembra un ambiente spoglio di vita; ma in realtà è solo apparenza perché qui vive una rara specie anfibia: il tritone crestato. Mi sdraio anch’io come Vincenzo ma non smetto di osservare il lago e di fotografarlo da varie prospettive. Mi alzo e ne costeggio la riva. Avverto la sensazione piacevole di una calma e di una serenità rassicurante, tanto che sono sicuro che potrei restar e qui per ancora molto tempo, avvolto  e rapito dalla mistica purezza di questo semplice laghetto montano. Il paragone col Marasarovar del Tibet (il grande Messner, fece un trekking attorno al Kailash e al lago Marasarovar che, nel rispetto delle tradizioni spirituali di quei popoli, che quindi assunse quasi il significato di un pellegrinaggio) è un’assurda forzatura certo, ma penso al carattere di sacralità che i popoli del Tibet gli hanno conferito. Forse perché quest’acqua rimanda agli elementi primordiali della natura ed anche alla vita. Dall’acqua nacque la vita e forse da questa inconscia consapevolezza il lago diventa  uno specchio del nostro essere… Ma bando al misticismo bisogna ritornare al sentiero e poi al borgo di Cartore… e quindi alla civiltà rappresentata dalla metropoli più estesa d’Italia. Ripercorriamo i nostri passi gustandoci la discesa lungo il sentiero che serpeggia lungo la forra del Vallone del Cieco…