lunedì 18 maggio 2009

Diario - 16/17 maggio 2008

le "Fortezze delle Aquile", così mi piace chiamarle, strane formazioni rocciose a ridosso del lungo crinale del Monte Amaro - foto by Indio. sotto: 1. momenti della risalita della cascata di Fonte dell'Orso 2. salendo lungo il crinale 3. suggestive formazioni rocciose 4. il maestoso versante ovest del Monte Amaro 5. alla Forchetta della Maiella, 2400 metri 6. sulla via del ritorno, immersi nella nebbia, sotto la minaccia dell'imminente temporale
La montagna austera - Monte Amaro, Parco Nazionale della Maiella
Il parco nazionale della Maiella era da un po’ di tempo uno dei nostri obiettivi. Per il suo territorio aspro e selvaggio non poteva che rappresentare un’attrattiva ideale per chi come noi ricerca da sempre il contatto con la natura selvaggia. Il gruppo è quello dell’ultima escursione compiuta ad aprile: l’Indio, Vincenzo A., Vincenzo T. e Luigi. Avevamo studiato bene l’itinerario da percorrere sulle cartine e sui siti internet. L’idea iniziale era molto ambiziosa: compiere un’escursione al Monte Amaro fino ad arrivare alla cima (quasi 2800 metri) e scendere dall’altra parte, seguendo il percorso della direttissima. Il Monte Amaro è una immensa barriera montuosa, e la neve resiste fino all’estate in alta quota, per cui era evidente che l’itinerario prescelto sarebbe stato molto impegnativo, tanto da richiedere due giornate di cammino. Purtroppo le previsioni meteo non erano confortanti e per sabato indicavano piogge e temporali... mentre per domenica prospettavano bel tempo. Sicuri che sabato sarebbe piovuto, l’alternativa rimaneva quella di arrivare in serata a Campo di Giove, accamparsi e partire domenica all’alba, cercando di arrivare alla cima entro le tre di pomeriggio. Ma agli intenti non sono corrisposti i fatti: il Monte Amaro si è rivelata una montagna severa, che ha messo a dura prova le nostre abilità di escursionisti anche esperti e avvezzi alle difficoltà dell’ambiente montano; inoltre non conoscendo la zona e non essendo accompagnati da una guida, era probabile commettere degli errori lungo il percorso prestabilito.La nostra escursione si rivelerà così una faticosa esplorazione di una parte di un versante di questa immensa montagna appenninica. Prima di arrivare a Campo di Giove (bellissimo paese, sede dell’Ente parco) passiamo e visitiamo la bella cittadina di Sulmona. Anche qui l’atmosfera è condizionata dai lasciti del terribile terremoto che ha colpito L’Aquila. Infatti notiamo le tendopoli della protezione civile e chiese ed edifici storici chiusi al pubblico. La città ha importanti monumenti e caratteristici sono i negozi di confetti, nelle cui vetrine spiccano fiori realizzati con confetti colorati. Ci accampiamo al bellissimo campeggio “Orsa Minore” circondato dai rimboschimenti di altissimi pini neri. La solenne bastionata del Monte Amaro domina tutta la scena. Ci informiamo sul percorso e il gestore del campeggio dice che la neve su è ancora tanta, per cui ci converrebbe affittare delle ciaspole presso un suo amico. La sera usciamo e andiamo in un ristorante ad assaggiare i famosi “arrosticini” abruzzesi e poi passiamo dal proprietario del negozio di noleggio di materiale per scialpinismo per affittare le ciaspole (oltre agli arrosticini noto che anche le ragazze abruzzesi costituiscono una lodevole "attrattiva"!). Il Monte Amaro, per le sue immense distese innevate fino all’inizio dell’estate risulta proprio l’ideale per chi pratica questo lo sialpinismo. Ci mettiamo in tenda verso le undici di sera. Alle cinque ci dobbiamo svegliare, perché l’escursione sarà lunga. Ci alziamo alle prime luci dell’alba e dopo una veloce colazione ci dirigiamo con l’auto verso l’imbocco del sentiero di Fonte dell’Orso. La strada attraversa dei bellissimi pianori chiazzati da estese macchie di ginepro. Abbiamo delle difficoltà a trovare l’imbocco perché la segnalazione non è proprio eccellente. Perdiamo così una mezz’ora di tempo andando avanti e indietro con la macchina. Trovato l’imbocco del sentiero seguiamo (sbagliando, come avremo modo di capire alla fine dell’escursione) una stradina che sembra portare verso il ripido canalone. La stradina ad un certo punto si perde, sepolta da un’alta muraglia di neve, che si erge davanti a noi. Tutta questa neve è stata portata qui da una enorme slavina, che ha travolto tutti gli alberi che si è trovata innanzi. La neve è quasi ghiacciata e il pendio si fa subito ripido. Ci vorrebbero ramponi e picozza, ma già è una fortuna se possiamo procedere con le ciaspole che abbiamo affittato. Capiamo qui che o abbiamo sbagliato percorso oppure che la traccia del sentiero si perde sotto la neve e non possiamo pertanto più sapere dove va. Dobbiamo pertanto procedere fino alla gola del ripido canalone, la cui sommità è dominata dal gettito di una spettacolare cascata. Senza volerlo stiamo percorrendo uno dei percorsi alpinistici segnati anche sulla cartina. Infatti in inverno la cascata è ghiacciata e si può praticare la “piolet traction”, con ramponi e picozze: una via che deve essere uno sballo! Il gettito d’acqua ha scavato un buco nel nevaio per poi continuare la sua corsa giù a valle, sotto la neve della slavina. E’ un posto davvero spettacolare. Mi viene in mente una scena del film “Nosferatu”, di Werner Herzog, nella quale il protagonista ascende una ripida montagna seguendo la linea delle cascatelle. Sbagliando percorso abbiamo così attraversato questo luogo selvaggio (che poi ho individuato sulla cartina col nome di Valle di Fondo) che almeno per me si rivelerà una delle sequenze più interessanti dell’intera escursione. Superato il nevaio, dobbiamo arrampicarci adesso sulle rocce soprastanti. Il terreno è anche ingombro di pietrisco e perciò si rischia di scivolare. Andiamo uno avanti uno alla volta, perché se malauguratamente uno di noi dovesse scivolare travolgerebbe anche gli altri. Io sono l’ultimo ad arrampicarmi. Arrivato sulla sommità devo ritornare di nuovo giù , perché il bastone mi cade e devo andare a recuperarlo. Così ripeto l’operazione due volte. Questo passaggio ci farà perdere un bel po’ di tempo. Siamo arrivati finalmente verso il Fondo di Maiella. La neve è ancora tanta e i pendii sono molto ripidi. Il sentiero escursionistico segue il vallone che conduce a Forchetta di Maiella. Il dislivello da Fonte dell’Orso alla “forchetta” è di ben 700 metri! Non avendo i ramponi ma ciaspole da passeggiata (come rimpiango le mie racchette “alpinistiche”!) decidiamo che è meglio salire sulla lingua di terreno scoperto, rappresentata dal ripido crinale che costeggia il canalone, dirigendoci verso la sommità, dominata da strani e suggestivi denti rocciosi. Sotto la sommità della cresta del Monte Amaro si ergono invece, allineate come tante fortezze, delle strane rocce dalla forma vagamente dolomitica. Da lontano si notano alcuni scialpinisti, che risalgono lentamente i canaloni innevati della montagna. La nostra salita si rivelerà più lunga e faticosa del previsto, anche perchè dobbiamo affrontare lunghi tratti di pietrisco. Non ho difficoltà a salire, perché il fiato non mi manca, ma si rifà vivo un fastidioso dolore al tendine del mio ginocchio sinistro… bisogna sopportare e proseguire comunque! E’ una montagna che inganna sulle distanze questa: una roccia, un canalone innevato sono molto più lontani di quanto possa sembrare a prima vista. E’ una montagna selvaggia e austera, dall’aria quasi inospitale e che richiede tanto impegno e forza di volontà, tanto più con le condizioni ancora tipicamente invernali che persistono ancora adesso ad alta quota. Perciò la Maiella sembra molto diversa dall’ambiente del Pollino, che, pur presentando alcune vie di elevata difficoltà, è anche l’ideale “montagna per tutti”, un immenso “giardino” per la modesta difficoltà delle vie classiche. Siamo quasi sulla sommità del crinale. Ci dispiace ammetterlo ma dobbiamo ormai rinunciare alla cima. Siamo infatti in estremo ritardo con la tabella di marcia. Non siamo arrivati ancora a Forchetta di Maiella, l’avvallamento da cui inizia il Fondo di Femmina Morta e poi il Vallone di Femmina Morta (che conduce verso la cima). Anche marciando speditamente arriveremo alla cima per le cinque e al ritorno ci sorprenderebbe il buio. L’obiettivo nostro è diventato molto più modesto, perché arriveremo a Forchetta di Maiella e poi prenderemo la strada del ritorno. Arriviamo così sulla linea della cresta, raggiungendo la sommità del crinale (a più di 2400 metri) e da qui possiamo ammirare le distese enormi del Vallone di Femmina Morta. Ci riposiamo e mangiamo qualcosa. Nubi basse scendono sulla linea di cresta mentre all’orizzonte si avvertono tuoni minacciosi. Il tempo diventa sempre più instabile per cui decidiamo di arrivare alla “forchetta” per poi iniziare immediatamente a scendere. Il pendio è molto ripido e dobbiamo decidere da dove cominciare a scendere. Faccio io da apripista. Provo all’inizio a scendere in diagonale in direzione delle rocce sottostanti, ma mentre scavo i gradini con gli scarponi avverto che la mia posizione è instabile, per cui rischierei di perdere l’equilibrio e di scivolare, finendo magari contro le rocce. Torno indietro e provo a scendere giù, in direzione della traccia del sentiero classico, scoperto in un tratto dalla neve. Il pendio è molto ripido ma riesco a creare dei gradini profondi con lo scarpone, agendo di tallone, mentre gli altri mi seguono in fila indiana ripercorrendo i miei passi. Continuo così senza problemi, fino a che il pendio si fa meno ripido. Abbiamo perso velocemente quota e ci dirigiamo cosi verso il fondo del vallone, dove si può notare un rudere di pastori. Intanto la nebbia ha ormai sommerso Forchetta di Maiella e il cielo si è tinto di un grigio cupo e minaccioso. Il mio sguardo si concentra sulle rocce di forma dolomitica allineate sotto la linea del crinale. E’ da stamattina che le sto osservando. Dalla loro sommità possiamo udire uno stridìo di uccelli che lacera il silenzio di questa grande desolazione… Forse i richiami che ascoltiamo provengono da qualche nido di aquile posto sulla sommità di questi templi naturali. Resto come ipnotizzato da quest’immagine, accompagnata dalla melodia dei richiami dei rapaci, che echeggiano nella vastità di questi grandi spazi. Ho così la mia “visione”, un attimo di fugace immersione nel “Grande Mistero”, che sparisce lasciandomi gli occhi umidi per la commozione... Per un momento, anche se in compagnia dei iei amici, sono rimasto solo con me stesso, a contemplare qualcosa che ha a che fare con la suggestione dell' eternità... La nebbia intanto cala anche su queste formazioni rocciose, a cui associo spontaneamente il nome di “Fortezze delle Aquile”, e i pinnacoli di roccia sembrano adesso svanire e riapparire come fuggevoli ombre scure… Dico ironicamente agli altri che questo sarebbe un buon posto per dedicarsi ad una vita ascetica e contemplativa! I tuoni si fanno sempre più vicini e alla fine si mette prima a piovere e poi a grandinare. Adesso dobbiamo affrontare l’ultimo tratto della discesa, quello che ci porterà all’imbocco nei pressi del quale abbiamo lasciato l’auto. Non possiamo ridiscendere lungo il canalone perché sarebbe molto pericoloso; non sappiamo inoltre dov’è il sentiero di Fonte dell’Orso che avremmo dovuto prendere stamane. Un sentierino sembra procedere verso il bosco, aggirando la slavina della gola di stamane sulla destra. Dopo aver esplorato un crinale dalla vegetazione fittissima decidiamo che l’unica alternativa è seguire il sentiero notato poc’anzi. Il sentiero risulterà essere proprio quello che avremmo dovuto percorrere stamane. Il sentiero attraversa una bellissima faggeta e passa accanto alla sorgente Fonte dell’Orso: è l’acqua che sgorga da qui che alimenta il gettito della cascata attraversata stamane. Il sentiero si ricongiunge alla stradina che abbiamo percorso all’inizio dell’escursione, proprio nelle vicinanze del posto in cui abbiamo lasciato l’auto. Possiamo dire che ormai conosciamo la zona e che alla prossima escursione al Monte Amaro sapremo dove dirigerci… Sì, perché la nostra esperienza con l’austera montagna, con la "Grande Madre" (appellativo che con cui ci si riferisce alla Maiella) non finisce qui: ritorneremo su questa bellissima montagna, magari a luglio, per ammirare finalmente il vasto panorama che si aprirà a quota 2793 metri!

mercoledì 6 maggio 2009

La via interiore alla montagna. Meditazioni delle Vette - Julius Evola

"...coloro che, in fondo, può dirsi che mai ritornano alla pianura, di quelli per i quali non vi è più nè l'andare nè il tornare, perchè la montagna è nel loro spirito, perchè il simbolo è diventato realtà, perchè la scorza è caduta. La montagna per essi non è più novità d'avventura, nè romantica evasione, nè sensazione contingente, nè eroismo per l'eroismo, nè sport più o meno tecnicizzato. Essa si lega ivece a qualcosa, che non ha principio nè fine e che, conquista spirituale inalienabile, fa ormai parte della propria natura, come qualcosa che si porta con sè ovunque a dare un nuovo senso a qualsiasi azione, a qualsiasi esperienza, a qualsiasi lotta della vita quotidiana." (Julius Evola)

“Meditazioni delle Vette” ( Edizioni Mediterranee, 2003) è un'antologia di scritti sulla montagna pubblicati nel corso degli anni '30 dal filosofo tradizionalista Julius Evola, su varie testate sia specialistiche (la Rivista del C.A.I.) che giornalistiche. Sicuramente è uno dei libri più originali sull'alpinismo e la montagna (la copertina dell'ultima edizione reca un commento positivo nientemeno che di Reinhold Messner!) anche perché, come afferma Luisa Bonesio nella sua introduzione, è "sorprendente per chi non conosce questo aspetto di un pensatore che si riteneva confinato tra esoterismo e tradizionalismo" e che rivela "una prosa educativa e profonda degna del miglior giornalismo culturale." Inoltre come afferma il curatore del volume, nella rievocazione della letteratura "classica" sulla montagna questi scritti di Evola sull'approccio "spirituale" all'alpinismo sono stati del tutto ignorati. Si sa poco così dell'esperienza di Evola alpinista e delle sue difficili ascese che lo portarono a compiere imprese che arrivarono fino al quinto grado di difficoltà. Julius Evola è un pensatore generalmente associato ad un pensiero di destra, radicale, spiritualista e tradizionalista ( e, vorrei sottolineare, del tutto all'opposto della mia visione politico-ideologica!). Egli rimase sempre ai margini della politica vera e propria, e anzi uno dei capisaldi del suo pensiero era un vero e proprio appello a rifuggire l'attivismo politico, seguendo un percorso di affermazione interiore. Come intellettuale fu anche osteggiato e guardato con sospetto dallo stesso regime fascista dell'epoca. Detto ciò è indubbio che le sue opere abbiano comunque rappresentato un importante riferimento ideologico per la destra e l'estrema destra del dopoguerra. Un pensatore discutibile per l’impianto fondamentale del suo pensiero, ma sicuramente , nel bene o nel male, di alta statura intellettuale. Tuttavia in questa sede non ci occuperemo del pensiero politico-ideologico di Julius Evola, ma appunto dei suoi articoli sulla montagna che sicuramente, sia per alcuni contenuti che per la prosa vivace con cui sono scritti, rappresentano un'opera originale e interessante nel panorama della letteratura per così dire "classica" sulla montagna. Ogni libro può insegnarci qualcosa, per cui penso che chi legga e si interessi di cultura non debba seguire le facili etichettature, per cui esistono libri di "destra" o di "sinistra", pensatori da boicottare e altri da esaltare acriticamente. E' ovvio che anche gli scritti sulla montagna rispecchino la visione filosofica di fondo del filosofo tradizionalista, che si sintetizza in qualche modo in quella che Evola chiamava la "rivolta contro il mondo moderno" (tra l'altro tale definizione è anche il titolo di un altro suo famoso libro). Sebbene inevitabilmente “reazionaria”, questa visione richiama problemi e nodi irrisolti della società contemporanea, prima di tutto l'indiscutibile, effettiva ( almeno a mio avviso) rottura di quel senso di armonia dell'uomo con la natura e di conseguenza la scomparsa del "senso del sacro"di cui appunto parla l’autore. Sono affermazioni quelle di Julius Evola che, per quanto inserite in un discorso dai confini ideologici inequivocabili, inducono comunque ad una riflessione sulle modalità che assume il rapporto dell’uomo di oggi (la modernità) con il mondo naturale. Come afferma Luisa Bonesio "Evola, acuto e implacabile diagnosta della modernità, era attento ai segni di degrado del mondo naturale sotto la spinta dell'industrializzazione e del consumo turistico, consapevole che questo fenomeno è uno dei segni della fine della coappartenenza cosmica e metafisica dell'uomo con il Tutto." La sua è perciò una visione che richiama anche l'idea di "sacralità della montagna" come si configurava nell'immaginario e nella simbologia delle culture antiche.

Il fondamento generale per il simbolismo della montagna è semplice: assimilata la terra a tutto ciò che umano (... ) le culminazioni della terra verso il cielo, trasfigurate da nevi eterne - le montagne - si dovevano presentare spontaneamente come la materia più adatta per esprimere attraverso allegorie stati trascendentali della coscienza, superamenti interiori o apparizioni di modi super-normali di essere, spesso dati figuratamente come "dei" o "numi".

L'approccio all'alpinismo di Evola è, come lo stesso pensatore ammetteva, di tipo elitario, aristocratico, basato sulla riaffermazione del senso eroico della vita e sulle doti dei grandi iniziati. Proprio nell'alpinismo Evola vedeva quasi una inconsapevole manifestazione di quell'ancestrale volontà eroica, che a suo dire era stata inevitabilmente soffocata dal mondo moderno: "forse la febbre per lo sport, nei moderni, ne è, seppur in forma deviata, una manifestazione. Ma la lotta con le altezze e le vertigini montane è la forma più pura e più bella, svincolata com'è da tutto ciò che è macchina, da tutto ciò che attenua il rapporto diretto, assoluto, fra l'Io e le cose." E quest'esperienza eroica "ha per caratteristica appunto l'essere valore in sé stessa, l'essere bene in sé stessa, laddove la vita comune non va che sotto la spinta degli interessi, delle cose esterne e delle convenzioni." L'alpinismo rappresenta così la forma più alta del rapporto dell'uomo con gli elementi naturali e in montagna l'individuo è libero e lasciato solo alla sua forza e determinazione:

Sentirsi lasciati a se stessi, senza aiuto, senza scampo, vestiti soltanto della propria forza e della propria debolezza, senz'altro che sè a cui chiedere, e portarsi di roccia in roccia, di appiglio in appiglio, inflessibilmente, per ore, e il senso dell'altezza e del pericolo imminente, inebriante, e il senso della solitudine solare, e il senso di indicibile liberazione e di respiro cosmico alla fine, all'attingere le vette..

L'alpinismo per Evola va al di là dei meri intenti sportivi, delle stravaganze di gente pronta al rischio o del gusto romantico per la natura. L'alpinismo invece è soprattutto una via di liberazione e compimento interiore dove i due grandi poli della vita, per Evola rappresentati dall'azione e dalla contemplazione,si congiungono e si compenetrano. L’ascendere delle montagne ha perciò il suo corrispettivo metafisico in un’ ascesi interiore che ha come conseguenza il ricongiungimento “al nostro ambiente naturale e cosmico, che è il silenzio; alla nostra natura più profonda, che è quella delle forze elementari della terra, la cui purità possente e calma si fissa nelle vette ghiacciate e lucenti, come in apici e assoluti immateriali, come in nodi magnetici di ritmi nella grande trama del Tutto.” La montagna suscita nell'uomo che fa la sua esperienza delle emozioni, le quali si configurano come il riflesso di una grandezza che egli non riesce a spiegare e che relega all’ambito dell’irrazionale. Ma esse sorgono perchè l'individuo entra in contatto con una dimensione superiore. Le considerazioni di Evola sono su quest'aspetto di grande suggestione...

E' dall'irrazionalità di impressioni, visioni, di inesplicabili slanci e inesplicabili, gratuiti eroismi cha egli viene portato avanti, lungo vie di un ascendere, che alla fine giunge inavvertitamente ad agire anche in termini d'interiorità. E' in sede di subcoscienza che egli si trova inserito in una realtà più vasta e che da essa riceve non solo trasfigurazione in senso di calma, sufficienza, semplicità, purezza, ma anche un afflusso quasi sovranormale di energie...

Ciò che gli parla e che lo muove, è il possente messaggio interiore direttamente evidente in tutto quel che la natura alpina ha di più non-umano, quasi di distruttivo e di sgomentante nella sua grandezza, nella sua solitudine, nella sua inaccessibilità, nel suo immane silenzio, nella primordialità scatenata delle sue tempeste, nella sua immutabilità attraverso il monotono susseguirsi delle stagioni e il vano alternarsi delle caligini e dei liberi cieli solari: vicenda infondente il senso più immediato di quel che è caduco e che come tale si eclissa di fronte ad un presentimento dell'eterno.

Evola parla anche dell'allenamento psichico oltre che fisico nell'alpinismo. Richiamando esperienze di dominio e di autocontrollo rilevati dagli studiosi tra i tibetani, egli nota come possa subentrare nella pratica dell'ascesa alpina uno stato emotivo, quasi di trance, grazie al quale si può distruggere la stanchezza e marciare ininterrottamente.

Il potere che il fattore psichico morale può avere sul fisico è sufficientemente noto, perchè qui si debba insistere: per via di disposizioni interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili.

Importante è il controllo del respiro, proprio come nelle pratiche ascetiche orientali: il ritmo del respiro deve legarsi a quello del passo in una connessione che non deve mai rompersi. Anche per questo motivo, l'approccio proposto da Evola alla scalata alpina era quello dell' assalto.

Allora subentra il nuovo stato: passo e respiro formano una nuova unità naturale che non chiede più il controllo, non vi è più stanchezza, e la velocità iniziale d' "assalto", nonchè essere mantenuta senza sforzo, quasi per una misteriosa spinta dall'interno viene aumentata malgrado pendenze anche forti.

E' un approccio all'escursione che ho potuto sperimentare io stesso, pur non essendo un alpinista che abbia scalato montagne difficili ed elevate. Ricordo che in alcune escursioni impegnative anche di dodici ore su creste ghiacciate, mantenendo sempre lo stesso ritmo costante e a velocità sostenuta, subentrava davvero la sensazione di non avvertire più stanchezza; e ciò magari proprio quando si procedeva nei tratti più ripidi di un crinale o di un valico. Effettivamente la "tecnica dell'assalto" produce questa situazione.

Un'altra considerazione di Evola, al di là dei riferimenti ideologici e culturali richiamati nel libro (visione eroica dello spirito esemplificata dalla tradizione classica antica ecc.), è relativa alla scissione, prodottasi nella società moderna, tra l'attività intellettuale e l'attività fisica o sportiva. Da una parte c'è l'astrattezza della cultura, dall'altra l'esaltazione della forza fine a se stessa, priva cioè di ogni riferimento al raggiungimento di un ideale (spirituale) superiore. Infatti "nel tipo del cosiddetto 'uomo di cultura' è implicita una certa ripugnanza per ogni specie di disciplina fisica, allo stesso modo che nell'uomo di sport il senso della forza fisica spesso alimenta un disprezzo per le pallide torri d'avorio relegate fra libri e innocui battagliamenti a colpi di parole." A voler ben vedere, è proprio quando questa congiunzione tra l’attività intellettuale e l’azione si è realizzata (e si realizza) che si sono scritte (e si scrivono) a mio avviso le pagine più belle della narrativa di montagna e d’avventura in genere. Lo sport per il filosofo tradizionalista non è un fine, ma un mezzo per l'elevazione spirituale dell'individuo. Leggendo il libro si nota anche come Evola avesse già negli anni '30 ravvisato quegli aspetti negativi che possiamo riscontrare ancora oggi nell'alpinismo: il tecnicismo fine a se stesso, la mania per i record, le stravaganze più futili...

Che il tecnicismo dell'alpinismo moderno, intonato prevalentemente alla ricerca del record , alla caccia della massima difficoltà, della parete mai scalata anche quando la cima sia raggiungibilissima per altra via ecc. – che un tale tecnicismo, col suo inevitabile meccanismo, rappresenti spesso una caduta rispetto all’ideale totalitario ora accennato – ciò ci sembra difficilmente contestabile. Quel che spiritualmente può dare la montagna a chi l’affronta perché, per così dire, scelto e chiamato da essa, noi riteniamo che nessuna scuola e nessuna tecnica del quinto o del sesto grado possa darlo.

Anche l’interesse tecnico dell’ascendere può facilmente degenerare, e non di rado si incontrano degli scalatori portati automaticamente per abitudine a studiare vie di possibile ascesa per ogni dove, perfino di fronte a facciate di palazzi.

Evola è lucido anche nell’individuare le prime avvisaglie di quel turismo di massa che tanti danni ha arrecato e continua ad arrecare alle nostre montagne. Da questo punto di vista, anche se mosso dalla sua visione aristocratica della montagna, anticipa i temi della salvaguardia dell’integrità ecologica della montagna e dell’etica dell’escursionista. Il suo giudizio su quella che oggi i sociologi definiscono “urbanizzazione della montagna” ovvero la costruzione di impianti di risalita, hotel di lusso in alta quota e strade asfaltate, e quindi sull’impatto del turismo di massa, è inequivocabile e si ritrova a più riprese nei vari scritti dell’antologia

Grand Hotel delle Dolomiti. Senso come di un grande transatlantico ancorato nella penombra. Luci splendenti, allineate, regolari. Trasformazone subitanea: l’Alpe non esiste più – è un brano di metropoli mondana a 1500 metri di altezza. Eleganze, smoking per il pranzo, grooms, in un tepore artificioso. Primi sobbalzi del ritmo menadico dello jazz.

Così solitudini quasi fino a ieri inviolate, quasi sino a ieri sideree, oggi conoscono l’impronta della trivialità moderna in resti di pasti crassi, in voci e risa e lazzi, in macchine fotografiche, in promiscuità intersessuali di “comitiva”, in una allegria scema quanto la stessa vicenda puramente fisica di questi “alpinisti.”

Fu l’anno in cui venne inaugurata la teleferica che da Cervinia porta fino al ghiacciaio del Plateau Rosà, a circa 3500 metri. Le condizioni per chi ama veramente la montagna e soffre per ogni sua contaminazione turistica erano, allora, ideali. Trattandosi della zona di frontiera con la Svizzera, solo con un permesso speciale si poteva giungere fino alla stazione terminale di quella teleferica. Il rifugio mondano, villeggiantesco e pseudo-sportivo di coloro ai quali la montagna a portata di mano, quasi come in una salita d’ascensore a pagamento, era inesistente.

Al di là dei contenuti riguardanti il significato autentico dell’alpinismo e della montagna, che si ritrovano soprattutto nella prima parte del libro, sono da considerare anche e soprattutto i resoconti delle scalate effettuate dal pensatore in prima persona e che rappresentano pagine di alto livello narrativo. E’ non sempre facile trovare, nella narrativa relativa alle imprese alpinistiche dei racconti tanto evocativi e dallo stile così avvincente. Spesso purtroppo gli alpinisti non sono tanto bravi a scrivere quanto a scalare e il livello letterario dei tanti (e spesso noiosi) libri da loro pubblicati risulta abbastanza mediocre. Evola è invece efficace nel richiamare le immagini dell’ambiente alpestre, dominato da una natura aspra, primordiale, in cui risalta la forza originaria degli elementi naturali. Sono rievocazioni che non hanno nulla a che fare con una visione puramente romantica della natura, oppure condizionata dalla concezione buonista del naturismo. Ecco di seguito un’ immagine evocativa:

Verso Nord credevamo dunque, dopo ore di ascesa, di trovar dietro una nervatura rocciosa di nuova terra salda e sentiero, quando invece una strana natura fece aparizione: un mare di ghiaccio, una corrente solidificata di ghiaccio, mostruosa, quasi piana, non bianca ma bigia, di un bigio semisplendente come piombo, distesa interminabilmente fra due costoni fatti non di terra o di rupi, ma di macigni, di scaglie di roccia, qui nere, là rossastre, là livide. E un silenzio mortale, una solitudine desertica, una assenza integrale di ogni specie di vita, di animazione, di pluritonalità. Unico, e uguale, un sotterraneo scorrere di acque. Spesso dalle parole si affaccia istintivamente alla mente un loro contenuto indefinito, legato a misteriosi nessi di analogie. La parola che qui sorse fu: La Valle della Dannazione…

Evola fu sicuramente - nel bene o nel male - un “idealista”, che evidentemente cercò nella montagna una via di fuga dalle bassezze della vita quotidiana, per ricongiungersi a quel “qualcosa” indefinito, di elevato e superiore, che alcune persone sentono di avvertire quando si trovano a contatto con la natura selvaggia della montagna. Dopo essere stato “licenziato” dal fascismo, che non tollerava i suoi articoli pubblicati su La Torre dichiarò : “Io ne ebbi abbastanza, smisi e me ne andai in alta montagna...”

sabato 2 maggio 2009

Miserie dell'alpinismo. Grido di Pietra - Werner Herzog

le verticali pareti di granito del Cerro Torre in Patagonia sotto: 1. una locandina del film di Werner Herzog 2. Werner Herzog assieme all'eroe dell'alpinismo Reinhold Messner 3. una scena del film
Ho recentemente visto - per la prima volta - "Grido di Pietra" uno dei film meno noti del grande regista Werner Herzog, basato su un soggetto di Reihnold Messner e ispirato alle vicende controverse che riguardarono la scalata del Cerro Torre in Patagonia. Il Cerro Torre, detto "Grido di Pietra", è una montagna che non supera i 3000 metri ma difficilissima da scalare ,per le proibitive condizioni climatiche, per essere costituita da pareti di granito di almeno 800 metri e per la presenza sulla sua cima di un enorme fungo di ghiaccio. Il film non è uno dei più riusciti di Werner Herzog, forse anche perché non fu egli a scriverne la sceneggiatura, ma sicuramente risulta uno dei migliori film tra quelli che riguardano l'alpinismo. La caratterizzazione psicologica dei personaggi lascia a desiderare e pesa in maniera negativa anche il ritmo un po' lento del film, ma la maestria del nostro regista si manifesta lo stesso nelle inquadrature suggestive delle scalate alla montagna, nella musica e in generale in quell'atmosfera dominata dalla forza misteriosa e inquietante del "Grido di Pietra" che permea con la sua imponente presenza l'intero film. La trama è semplice: un campione mondiale di arrampicata sportiva, Martin, accetta la sfida di scalare in Cerro Torre lanciata da "Roccia", un alpinista esperto e di fama mondiale che giudica l'arrampicata sportiva uno sport di acrobazie che non ha niente a che fare con il vero alpinismo. Martin, in segno di rivalsa, si aggiunge così alla spedizione di Roccia al Cerro Torre. L'azione si sposta così tra ighiacci della Patagonia. Al campo base il tempo è instabile e Roccia è inquieto e titubante nel decidersi ad affrontare la scalata, mentre Martin non vorrebbe più aspettare. A far parte della spedizione vi sono anche la donna di Roccia, Hans e il giornalista Ivan. Approfittando del fatto che Roccia si allontana dal campo base diretto a valle per procacciarsi dei viveri , Martin convince Hans a tentare la scalata ad insaputa di Roccia. La scalata finisce in tragedia, perché Hans muore travolto da una valanga. Martin si salva calandosi in corda doppia dalle pareti di granito. Ritornato al campo base, Martin racconterà mentendo di essere salito sulla cima del Cerro Torre. Non può dimostrarlo perché le prove stanno nella macchina fotografica di Hans, sepolta assieme ad egli sotto metri di neve. A questo punto i media e il giornalista Ivan avranno tutto l'interesse a sfruttare la fama di Martin, considerato un nuovo eroe dell'alpinismo, nonostante il resoconto della scalata sia contraddittorio, per cui vecchi alpinisti di fama mondiale mettono in dubbio la verità del suo resoconto. Martin, che intanto ha sottratto a Roccia non solo la notorietà ma anche la sua donna, deciderà , sotto l'impulso di un moto d'orgoglio, di tentaredi nuovo la scalata, questa volta in solitaria e sotto i riflettori televisivi. Prende così contatto con un magnate della televisione che gli impone i dettami del business dell'industria televisiva. Roccia intanto si ritira in una casa di montagna nei pressi del Cerro Torre, vagando nella natura selvaggia, per fuggire la meschinità che lo circonda. La storia narrata nel film ripercorre le vicende che riguardarono la scalata di Cesare Mestri al Cerro Torre nel 1954. Cesare Maestri sostenne di essere arrivato in cima ma senza poterlo dimostrare, proprio perché il suo compagno di scalata era scomparso assieme alle prove dell'avvenuta conquista della cima. Il resoconto di Maestri si dimostrò fallace anche perché gli alpinisti che seguirono successivaente l'itinerario da egli descritto non riuscirono mai ad arrivare in cima. Nel 1970 Maestri tentò la scalata dalla parete sud-est, attrezzò la parete grazie ad un martello compressore e arrivò alla sommità della parete rocciosa senza tuttavia riuscire a raggiungere la cima dell'enorme fungo di ghiaccio, che secondo Maestri "non faceva parte della montagna"(sic!). Molto rappresentativi sono nel film i personaggi, tipicamente herzoghiani, della vecchia india le cui parole, provenienti da una saggezza ancestrale, sommergono la vanità degli alpinisti che si affannano inutilmente nella corsa alla cima, e dell'alpinista folle (personaggio di contorno ma che alla fine si rivelerà decisivo) che si aggira come uno spettro in tutto il film, collezionista di foto dell'attrice americana Mae West, un uomo che sostiene di aver scalato il Cerro Torre e che mostra la sua mano senza dita, "mangiate dalla crudeltà della montagna". Il pregio maggiore del film sta a mio avviso proprio nell'avere messo in risalto la meschinità e le miserie che hanno spesso circondato il mondo dell'alpinismo: la rincorsa smodata al record, alla notorietà e al denaro, l'esasperante spirito di competizione senza limiti, che porta gli alpinisti a ricorrere persino allo stratagemma della menzogna, i tecnicismi di ogni sorta e il narcisismo stesso dell'alpinista (del narcisismo degli alpinisti ha parlato recentemente anche Mauro Corona in un'intervista). Senza dimenticare ovviamente il prezzo in termini di vite umane che ha richiesto l'ossesione della "conquista della cima". Le scene finali con alpinisti che perforano tramite trapani elettrici le pareti dell'inviolata montagna per appendervi le telecamere necessarie a filmare l'impresa di Martin ci rimandano al consumismo e alla spettacolarizzazione di pessimo gusto che hanno spesso circondato il mondo dell'alpinismo... Va dato atto in primo luogo a Messner l'avere aperto una riflessione sulle questioni etiche ed ecologiche sollevate dalla pratica di questo sport, e che rimandano più generalmente al rapporto tra l'alpinista e l'ambiente naturale della montagna, all'etica dell'alpinismo e alle relazioni con le comunità indigene. Sicuramente record, tecnicismi, stravaganze e fenomeni consumistici di massa hanno poco a che fare con la vera essenza della montagna. Il vero alpinismo è invece quello che abbina contemporaneamente l'"azione" alla "contemplazione"... Ma torniamo al film. Le scene finali sono quelle più spettacolari e ridanno vigore al ritmo scenico del film. Ha luogo finalmente la sfida titanica tra l'arrampicatore Martin e l'alpinista Roccia, che attaccano la montagna da due opposti versanti. Durante la scalata sopraggiunge una tormenta di neve che distrugge le pale degli elicotteri che dovrebbero filmare l'evento della conquista della cima; le troupes televisive sono costrette a rifugiarsi in tenda. Le riprese di Herzog sono davvero entusiasmanti, da lasciare col fiato sospeso; qui c'è il vero cinema di Herzog, quello delle imprese e dei sogni di uomini folli che si confrontano con una natura imperscrutabile dominata da "caos, conflitto e morte", una natura che con la sua forza sommerge le miserie e le illusioni umane. Martin sfrutta le sue doti di arrampicatore e durante la tormenta, a differenza di Roccia, non si ripara ma continua a scalare, arrivando per primo alle pareti di ghiaccio dell'enorme fungo; ma una piccola valanga lo fa precipitare nel vuoto: la scarsa conoscenza dell'ambiente alpino rende vane le sue abilità acrobatiche. Roccia giunge sulla cima e trova conficcata nel ghiaccio una vecchia picozza con un'immagine di Mae West, la prova che dimostra la veridicità della storia raccontata dall'ex alpinista folle... Il pilastro roccioso del "Grido di Pietra", col suo enorme fungo di ghiaccio domina la scena e gli uomini che si sono affannati su di esso per la conquista di glorie effimere, sembrano adesso solo due puntini sospesi sull'abisso...