domenica 29 marzo 2009

Diario - 28 marzo 2009

un ambiente primordiale: pini loricati aggrappati alle rocce del canalone nord-est, sullo sfondo del Dolcedorme - foto by Indio
La scivolata - Canalone nord-est del Monte Pollino
Il canalone nord-est del Monte Pollino era uno dei miei obiettivi fin da un po' di tempo... il classico luogo mitico da cui non è possibile staccare gli occhi. Quest'escursione al canalone resterà una delle più avventurose che abbia fatto. Le previsioni dicevano che sabato sarebbe stata una bella giornata, per cui dovevo assolutamente sfruttare il bel tempo per andare in montagna, nonostante il forte mal di denti di questi giorni. Arrivo a Colle Impiso senza particolare difficoltà. La neve è veramente tanta e degli alti muraglioni si alzano ai lati della strada. Inizia la ciaspolata da Colle dell'Impiso. Dai piani di Vaquarro mi dirigo verso il fossato sopra il quale inizia il sentiero che mi dovrebbe portare ai Piani di Pollino. Noto che ho lasciato il cellulare nella borsa della mountain bike: si è aggiunto un ulteriore problema, perché i miei mi chiameranno e risulterà che io non rispondo. Ma ormai è fatta e bisogna proseguire. Per capire la quantità di neve che si è accumulata basti pensare che i fossati scavano gole nella neve creando dei muri alti circa tre metri! In qualche occasione mi capita di dover superare con qualche difficoltà queste gole scavate dai fossati nella neve. Il mal di denti ogni tanto si rifà vivo e per attutire il dolore mi metto un po' di neve in bocca... potremo parlare di rimedi naturali! Subentra un altro problema quando, per non aver chiuso bene la borraccia, l'acqua si riversa nello zaino. Per il resto dell'escursione sarò costretto così a bere l'acqua dei fossati o a dissetarmi con la neve (il dissetarsi è apparente, perché la neve, come immagino tutti sappiano, non contiene sali minerali). La neve ha sommerso tutto ed è così tanta che non riesco, in alcuni tratti, a individuare il tracciato del sentiero che si snoda nella fitta foresta (ovviamente di segnalazioni manco a parlarne!!!). Comunque conosco la zona e so più o meno dove dovrebbe snodarsi il valico che porta ai piani. La marcia è faticosissima: si sprofonda, perché il manto nevoso è reso inconsistente dalla temperatura mite dello scirocco. Inoltre devo districarmi con le ciaspole tra i piccoli faggi buttati a terra dalla neve, che in questo modo intralciano il sentiero. Sto impiegando molto più tempo del previsto e i Piani di Pollino sembrano lontani anni luce. Ma la faciloneria si paga e a volte bisognerebbe essere meno impulsivi nel programmare un' escursione. L'idea era di scalare il canalone, arrivare in cima e scendere per la via classica a Gaudolino. Riesco finalmente ad arrivare ai Piani. Dato che è già tardi forse dovrei rinunciare. Ma ho faticato tante ore per arrivare fin qui e non me la sento di cedere in ritirata. Il problema principale risulta proprio quello di rispettare gli orari. Devo arrivare in cima per le tre al massimo e non posso farmi sorprendere dal buio. Sono da solo, in una distesa sterminata di neve, non ho il cellulare e se facessi tardi i miei si allarmerebbero. Speravo di trovare la neve più compatta e ghiacciata, almeno sulle pendici del Monte Pollino... ma niente: si sprofonda e si scivola. Ho accumulato tanta stanchezza e tensione e sicuramente non mi sto godendo al meglio i paesaggi stupendi che mi circondano. Mi porto alla base dell'inizio del canalone. Anche qui la neve, sebbene un po' più compatta, è molto scivolosa. Il pendio comincia a farsi più ripido, metto via le ciaspole, tiro fuori la picozza e per avere più libertà di movimento indosso i ramponi. D'ora in avanti comincia l'itinerario alpinistico vero e proprio. Ho fatto un lacciolo lungo, con un cordino, attaccato al foro per il moschettone della testa della picozza e legato al polso, in modo da evitare che la picozza rischi di sfuggirmi dalle mani precipitando lungo il ripido pendio. Inizio la progressione in salita, lentamente, un passo alla volta, con tanta fatica. Speravo di trovare della neve ghiacciata, almeno qui. Ma la neve del canalone è scivolosa e solo appena più compatta di quella dei piani, per cui i ramponi non riescono a fare presa, risultando così quasi inutilizzabili. Anche la picozza, il mio unico mezzo d'autoassicurazione, a volte sprofonda, facendomi mancare il punto d'appoggio necessario a mantenere l'equilibrio. Mi capita anche che, forse perché ho stretto male le cinghie, in un paio di occasioni i ramponi si sfilano e devo rimetterli allo scarpone mentre sto in una posizione che lascio a voi immaginare, ovvero scomodissima, mentre cerco di restare aggrappato al ripido pendio. E' in questi momenti che si nota quanto siamo legati ad oggetti come la picozza o il proprio zaino, da cui dipende tutta la nostra sicurezza. Sono impegnato nella durezza della salita ma ciò non mi ha impedito di ammirare la visuale eccezionale che si gode da qui. Il canalone nord-est appare come un immenso corridoio tra rocce ripide e scoscese, popolate da pini loricati inavvicinabili e il suo limite, indicato dai cornicioni di neve, sembra portare verso un tesoro indefinito e misterioso. La neve, le rocce e i pini loricati che sovrastano il canalone fanno da cornice all'immensa bastionata del Dolcedorme... Il posto dà la sensazione di qualcosa di primordiale e a tratti anche inquietante, sensazione che cresce nell'ultimo tratto quando il pendio si fa ancora più ripido. Arrivo alle rocce che costeggiano il tratto sommitale del canalone dominato dai cornicioni di neve. E' così scosceso che ormai non posso fare altro che procedere accovacciato, scalciando con forza le punte degli scarponi nella neve, e usando la picozza come fittone, oppure di tanto in tanto scavando dei gradini con la paletta della picozza per creare dei punti d'appoggio per i piedi. Non posso nemmeno aiutarmi con la picozza utilizzando la becca, proprio perché, in assenza di vetrato, essa non mi può tenere. Sono quasi nel tratto finale e la cima è (apparentemente) a meno di un soffio... Ma si procede lentamente proprio perché l'ultimo tratto del canalone è molto ripido, perciò difficile e insidioso. La sommità del canalone appare vicinissima e allo stesso tempo lontana e inafferrabile. Altro problema: arrivato sulla sommità del canalone dovrei superare poi la barriera verticale delle alte cornici di neve, un'operazione delicata e pericolosa e che porterebbe via sicuramente parecchio tempo. Procedere ancora richiederebbe perciò tanta calma e pazienza, cose che non posso permettermi. L'ideale sarebbe stato campeggiare, magari con un compagno e prendersela comoda nella salita. Sono passate le tre e mezza e mi rimangono a malapena tre ore di luce. Ripenso al fatto di non avere il cellulare. Se mi sorprendesse il buio cosa potrebbero pensare i miei familiari? Questo pensiero mi fa andare in agitazione. Per giungere alla cima impiegherei come ho già detto parecchio tempo. Devo allora arrendermi e rinunciare alla cima. Tuttavia tornare indietro ai Piani di Pollino sarebbe ancora peggio, perché impiegherei un casino di tempo nel rifare in discesa lo stesso percorso del canalone su una pendenza per giunta così elevata. Sopraggiunge la sensazione di sentirmi imbottigliato. A mali estremi però, estremi rimedi... Osservando il canalone in discesa si nota che è sgombro da rocce sporgenti e da alberi. Giungo alla conclusione che l'unica alternativa è... la scivolata. A questo punto mi avrete già dato del pazzo... Ma se opto per questa scelta è anche perché ricordo di aver letto su un utilissimo manuale di alpinismo come la scivolata possa diventare, con le dovute accortezze, una tecnica veloce di discesa. Le ginocchia vanno tenute piegate leggermente. Non bisogna avere ai piedi i ramponi. La picozza invece fa da freno, morde la neve e viene tenuta con entrambe le mani. Prima di procedere però metto il copribecca di gomma alla picozza, per evitare che nella discesa questa mi possa ferire. Così mi posiziono per terra e mi lascio andare lungo il canalone. All'inizio scivolo perfettamente ma l'estrema pendenza del canalone, com'era inevitabile, mi fa acquistare subito velocità e non riuscendo a mantenere l'equilibrio inizio a rotolare su me stesso per un bel po' di metri. Mi fermo, un po' scosso, tutto imbrattato di neve, che copre anche gli occhiali, osservo se è tutto a posto e ricomincio a scivolare. Stavolta sto più attento a sollevare e ad allargare maggiormente le gambe e noto che così va molto meglio. Sotto il sedere si forma una specie di slittino naturale di neve, che mi fa scivolare alla perfezione. Prima di fermarmi faccio un'altra breve rotolata. Sono alla base del canalone. Ho percorso in pochi secondi ciò che avevo faticosamente scalato in ore di dura salita. E' una scivolata che ho deciso di fare in una situazione di emergenza, e solo perché il canalone era sgombro da rocce sporgenti; ma a costo di sembrare esagerato, non posso non ammettere che sia stata anche... divertente! Arrivato così (velocemente) in fondo al canalone, mi rimetto le ciaspole ai piedi e mi dirigo ai Piani di Pollino, seguendo le tracce del percorso dell'andata che mi porteranno senza difficoltà fino ai Piani di Vaquarro... Non ho "conquistato" nessuna cima, molte cose sono andate male, ma sicuramente non dimenticherò questa avventurosa escursione...

mercoledì 25 marzo 2009

La storia di Buck

il piccolo Buck - foto by Indio
Tanti anni fa (avevo circa diciassette anni), nel nostro villaggio cominciò ad aggirarsi un cane da pastore bianco, un maremmano, di grosse dimensioni. O era stato abbandonato oppure qualche pastore lo aveva smarrito. Il randagismo è diffusissimo dalle nostre parti e ogni tanto sbuca sempre qualche nuovo cane dall'aria spaurita e con lo sguardo perso. Il cane era femmina e si conquistò subito la simpatia del vicinato. Cominciai ad avvicinarlo, a dargli da mangiare e ad accarezzarlo. Notai subito che era un cane socievole e affettuoso, e lo dimostrava quando ti guardava con quei suoi grandi occhi dolci. La cagnetta ebbe anche il suo (nuovo) nome: Gemma, così la chiamò il mio vicino di casa. Gemma si era subito affezionata a me e avrei voluto tanto adottarla; ma all'epoca avevamo già un cane, il mitico Zeus, e poi il fatto che fosse anche femmina ci avrebbe creato non pochi problemi. La cagnetta così rimase tra i vicoli del vicinato e per il suo carattere affabile era sempre coccolata da tutti. Dopo un po' andò in calore e quando partorì ebbe due cuccioli bellissimi, bianchi come lei. Era una cagnetta intelligente e si scelse come tana un piccolo scantinato di una casa disabitata, vicino alla strada. Ricordo che mi lasciava sempre entrare nella "tana" e mi dava il permesso di toccare i suoi cuccioli. Non aveva assolutamente timore di me. I cuccioli furono allattati e quando li svezzò mi occupavo di portargli sempre da mangiare. Ma la situazione prima o poi doveva cambiare, perchè i cuccioli di lì a poco dovevano essere adottati da qualcuno. La foto della cagnetta finì anche sulla Gazzetta del Mezzogiorno, comparendo in un articolo sul randagismo nel Pollino, scritto dalla mia vicina di casa, che all'epoca era corrispondente di quel giornale. I cuccioli già cominciavano ad uscire dal piccolo scantinato e andavano sulla stradina, dove ogni tanto scendeva anche qualche auto. Era pericoloso. Avvenne il peggio, perchè un cucciolo venne travolto dalle ruote di un'auto. Sotto la disperazione della madre andai a seppellire il cucciolo in un terreno incolto lì vicino. Era il secondo cane che seppellivo. Ne avrei seppelliti ancora altri due in futuro, i nostri Zeus e Brahms; loro adesso stanno sotto le radici di un boschetto di olmi cresciuto come per magia, dopo il taglio di un grande olmo, nel giro di dieci anni. Dovevo assolutamente trovare un padrone per l'altro cucciolo. Domandai a mio padre se mi facesse tenere il cucciolo con noi ma ricevetti una risposta negativa. La prima persona che mi venne in mente fu il buon Antonio, che aveva un bel po' di campagna attorno a casa sua e avrebbe così potuto accudire il cucciolo a dovere. Andai a domandargli così se voleva il cucciolo e lui mi rispose che avrebbe tenuto anche la cagnetta. Portai così il cucciolo in braccio seguito dalla madre che mi veniva appresso col suo sguardo apprensivo... Non rividi per quasi due anni la cagnetta. Poi un giorno mi trovai a passare con la bici e ci incontrammo. Mi riconobbe subito. Mi guardava come in passato con quegli occhi dolci, che risplendevano d'affetto. La accarezzai per un bel po' e lei venne appresso alla bici per quasi due chilometri. Non la rividi più. Passarono molti anni ancora e poi la cagnetta morì, lasciando la sua numerosa prole, ovvero dei bellissimi cani da pastore dal pelo candido come la neve. Era il mese di gennaio di quest'anno e stavo passando un brutto periodo. Nevicava e girovagavo pensieroso per le strade deserte del villaggio. Pensai che forse mi avrebbe fatto bene trovarmi un cucciolo da accudire. Avrei voluto un cane da pastore, un maremmano magari, cani dalla scorza dura e che ho sempre ammirato. Da grande un cane così mi avrebbe fatto compagnia nelle mie lunghe camminate in montagna o quando sarei andato a funghi. Vado verso il negozio di Antonio sperando di trovarlo, per domandargli se la sua cagnetta, la figlia di Gemma, sia magari in procinto di avere dei cuccioli. Mentre scendo i gradini che portano verso il negozio mi vedo di fronte la cagnetta di Antonio, già gravida, che mi guarda un po' timorosa. "Là, in quella pancia c'è il mio cane", penso. Parlo con Antonio e lui mi comunica che la cagnetta partorirà tra un po' e che penserà lui a portarmi il cucciolo una volta svezzato dalle cure della madre. Mentre torno a casa penso già al nome che dovrò dargli. Anche se è poco originale non posso che dargli il nome di "Buck", il cane protagonista de: "Il richiamo della foresta" il famoso libro del mio scrittore preferito, ovvero il mitico Jack London. Il pastore maremmano è un cane rude e ama la libertà dei grandi spazi; sul Pollino poi è stato ed è uno dei più grandi alleati dell'uomo nel custodire i greggi e difenderli dai lupi. Non sono un pastore e Buck avrà poco da lavorare qui da me, ma sicuramente diventerà un cane fedele e mi seguirà nei miei vagabondaggi sul Pollino, tra foreste e pascoli di alta montagna. Buck è a casa mia da pochi giorni e già dimostra di essere un cane affettuoso, dagli occhi dolci e un po' malinconici... un po' come quelli di sua nonna, la cara vecchia "Gemma"...

venerdì 20 marzo 2009

Il taglialegna e l'albero


Sembra che la natura obbedisca ad una logica imperscrutabile. “In montagna c’è il freddo, allora all’uomo che vive nelle sue valli è stato dato il bosco e quindi la legna, e così egli può scaldarsi…” Questa era una riflessione di mio padre che era un grande boscaiolo e conosceva bene gli alberi e la loro personalità. Fin da piccolo lui mi portava nei boschi (di nostra proprietà ovviamente) a fare la legna. Lui si metteva a lavorare e io mi allontanavo un po’ per i sentierini che si snodavano tra i cerri e gli agrifogli che apparivano di tanto in tanto con il loro verde luccicante. E’ in queste occasioni che mi avvicinai al bosco e alla natura. Sono quasi laureato e perciò nella mia vita ho praticato più che altro l’attività intellettuale, ma sono contento di avere appreso, anche se non in maniera completa, l’arte – durissima e faticosa – del taglialegna. Già dai quindici anni mio padre cominciò a insegnarmi come si lavora la legna. All’epoca facevamo tutto a mano. L’abbattimento dell’albero era un’operazione delicata e pericolosa. Si studiava l’albero e la direzione della sua pendenza e poi si cominciava a segarlo con la motosega. Quando l’albero era caduto si divideva in pezzi da circa un metro e mezzo. Alcune volte poteva capitare che, nella caduta, restasse appoggiato ai rami degli altri alberi e allora bisognava o tirarlo con la corda per farlo cadere oppure cominciare a tagliarlo così come era rimasto appeso. Quando era stato tagliato a pezzi, bisognava poi ad uno ad uno alzare i ceppi, a volte davvero grossi e pesanti, e farli stare in equilibrio in verticale. Se il ceppo era lungo di diametro si utilizzavano due cunei contemporaneamente e con la mazza pesante di cinque chili si dava un colpo ad uno e poi all’altro. I cunei non si inserivano a caso… bisognava sfruttare le piccole lesioni già esistenti nel legno: era il segno che il cuneo poteva penetrare all’interno del ceppo. Il cuneo poi non va mai inserito nel cuore, perché quest’ultimo è molto duro, ma nella parte più vicina alla corteccia, in dialetto “la vilinga”. Se i legamenti del legno resistevano si utilizzava un grosso cuneo di legno, la cui funzione è quella di allargare le spaccature che non si aprono. Quando la spaccatura si era allargata abbastanza si spingeva a terra il tronco e si finiva il lavoro con l’ascia. Si rialzava poi una delle metà del tronco e si ricominciava il lavoro, fin quando i pezzi che si erano ricavati risultavano non troppo pesanti per essere maneggiati. Ricordo che all’inizio quando portavo sul cuneo il colpo della mazza, non riuscivo a prendere la mira. Sembra facile, ma ci vuole esercizio. A volte eravamo costretti a tagliare alberi che crescevano sui pendii anche ripidi. Mio padre non amava la comodità a tutti i costi e la sua regola era sempre tagliare (e mai nellos stesso posto!)li alberi “adulti”, anche quelli che crescevano nelle zone più ripide, per fare spazio a quelli più giovani, che potevano così vedere la luce e crescere. Così il bosco sopravvive, si mantiene sempre, diceva. Mai nello stesso posto, sceglievamo ogni anno una zona diversa del bosco.La cosa più aberrante per lui era tagliare le piante giovani, disboscando un'intera area. Lo considerava un vero danno, perché così facendo il bosco scompariva. La vecchia cultura contadina è stata presentata a volte come antiecologica, ma in realtà c’erano dei criteri che venivano sempre rispettati nel taglio della legna. E poi in passato nemmeno esistevano le motoseghe per cui mio nonno e altri ad esempio si procacciavano il legname soprattutto con i muli e gli asini, caricandosi cioè la legna secca, che è sempre abbondante tra i boschi. I veri responsabili dei disboscamenti del Pollino e delle foreste di alta montagna sono state le aziende di legname, che sfruttavano in aggiunta il duro lavoro della manodopera degli operai del posto. Durante gli anni del fascismo fu una ditta tedesca, la Rueping, ad arrecare i maggiori danni ai nostri boschi (pubblici). Quando tagliavamo un albero su un costone dovevamo far ruzzolare tronchi rotondi lungo il pendio, facendoli cascare sulla strada. Ma se la distanza tra il luogo dove sorgeva l’albero abbattuto e la strada era troppo lunga, oppure se la strada era a monte rispetto all’albero, bisognava spaccare la legna sul pendio, accatastarla, e poi portarla sulla strada con una carriola. I tronchi possono essere fatti ruzzolare, ma è una dannazione se si impigliano tra i piccoli alberi e i rovi. Ricordo che a volte dovevamo scavare dei sentierini con il piccone per far procedere la carriola piena di legna. Un giorno d’estate di tanti anni fa portai sulla strada tonnellate di legna con questo metodo, tra gli sciami di tafani che mi avevano infestato! Così “cacciavamo” la legna, che veniva poi accatastata ai margini della strada in “canne”. Una canna di legna è se non ricordo male quattro metri di lunghezza, un metro di larghezza e circa un metro e mezzo di altezza. Anche mettere i pezzi uno sull’altro senza lasciare spazio richiedeva abilità. Mio padre diceva che era come l’arte dei muratori, o meglio dei “mastri”, che un tempo costruivano i muri grazie all’abilità del gioco ad incastro delle pietre rotonde, tenute assieme solo dall’argilla dei fossati. La legna andava poi caricata sul trattore o sul motozappa e scaricata dove di dovere. Spaccare la legna era e ancora è un lavoro molto duro, e spesso ammiravo la forza di padre che maneggiava ceppi enormi e sembrava non si stancasse mai. Anche adesso, quando c’è da sistemare la legna, spaccarla e accatastarla non mi pesa farlo. E se oggi ho una schiena molto robusta, capace di reggere i molti chili di un trekking di più giorni, è anche grazie a questo lavoro... Ho sempre ammirato gli alberi e ricordo che tanti anni fa si ergeva un quercius cerris secolare nei nostri terreni, altissimo e dal tronco di due metri di diametro. Mio padre diceva che non l’avrebbe mai tagliato. Ma un giorno lo ritrovammo squarciato dalla ferita di un fulmine, che lo aveva sbucciato dalla base fino alla cima. I fulmini uccidono gli alberi come il cerro, perché è come se gli bruciassero il cuore. Posseggo ancora la foto dell’albero ferito a morte. Mio padre allora decise di abbatterlo, perché era ormai destinato a rinsecchirsi. L’albero produsse tantissima legna da ardere, ma che si rivelò non buona per il fuoco, perché il fulmine l’aveva resa fradicia e poco infiammabile. Noi lo avevamo risparmiato, ammirandone la bellezza, ma non era servito, perché la natura aveva deciso già il suo destino…