domenica 25 dicembre 2011

"Pollino: Gente, Costumi, Tradizioni" di Mimmo Pace

Una recensione e una riflessione 

 La copertina del volume "Pollino. Gente, Costume, Tradizioni". Sotto, particolari di foto tratte dal volume: 1. famiglia contadina; 2. Mimmo Croccia, "spirito libero" di Frascineto, boscaiolo, cacciatore e comunista a un tempo; 3. giovani braccianti; 4. cacciatori di Mezzana negli anni '30; 5. festa della Madonna di Pollino, anni '30. 


“Tanti anni fa, ma ahimè già troppo tardi, volli andare alla scoperta di ciò che ancora restava della Civiltà agropastorale che aveva popolato anticamente il Pollino, fissandone in immagini aspetti di vita, costumi e tradizioni”. 
E’  con questo intento profondo che Mimmo Pace introduce i motivi che l’hanno spinto all’ideazione del volume fotografico “Pollino: Gente, Costumi, Tradizioni”. Il libro, edito da Freeworth Edizioni, viene ad aggiungersi idealmente alla biblioteca delle opere  più rappresentative sul Pollino e accanto all’altro recente libro dello stesso autore, “Pionieri del Pollino”, dedicato ai precursori  dell’escursionismo nel Pollino.
Pubblicato a maggio del 2011, il corposo volume si compone di ben 290 pagine e si configura come un vero e proprio tuffo nel passato, alla ricerca della civiltà agro-pastorale del Pollino, della sua gente, dei suoi usi e delle sue tradizioni. Un affresco iconografico diviso in varie sezioni: ambienti rurali e di paese, personaggi del mondo contadino, artigianato, folclore e altro ancora. Spicca però con forza in queste immagini la vita delle “classi subalterne”: pastori, boscaioli, braccianti, contadini, operai, spesso ritratti sullo sfondo dei loro ambienti di vita,  i nostri paesini, i boschi e i pascoli di montagna. 

Oltre ad avere pubblicato foto personali che sono frutto della sua esperienza di ricerca tra la gente del Pollino, obiettivo dell’autore è stato anche “allargare gli orizzonti di ricerca, espanderli in ogni possibile direzione, al fine di recuperare alla nostra Gente, testimonianze ben più significative, attraverso le quali quel mondo potesse venir quanto più fedelmente ricostruito e tramandato. Seguiva così un periodo denso di contatti intessuti tra vecchie e nuove conoscenze dislocate nei diversi Centri del Pollino lucano e calabrese, nonchè di reiterate visite a varie e interessanti realtà museali, al fine di rinvenire ed acquisire ogni documento visivo ritenuto idonea raffigurazione di quel crogiolo di etnie, che la Terra del Pollino ospita”. Risalta nel volume il confronto tra le foto più antiche e quelle più recenti, dove però ancora si possono respirare atmosfere, tradizioni e ambienti dell’antico mondo agreste. Mimmo Pace sottolinea giustamente nell’introduzione al volume che “il Pollino era un sistema di valori in pericolo, la cui crescente labilità era intimamente legata alla inarrestabile scomparsa della società rurale e arcaico-pastorale che l’aveva prima sorretto e salvaguardato, con una progressiva perdità di identità, causata da ripetuti errori di governo del territorio, i quali, senza generare sviluppo, si erano tradotti in emigrazione, sradicamento, squallore e anche devastazione ambientale”. 


L’identità della gente del Pollino è stata, se non compromessa, quantomeno riformulata dalle trasformazioni della nostra società. Industrializzazione e fuga verso le città, urbanizzazione, spopolamento e progressiva scomparsa delle attività economiche tradizionali sono i grandi fenomeni con cui le popolazioni locali hanno dovuto fare i conti. Sarebbe un errore se idealizzassimo il mondo contadino: gli stessi volti e gli ambienti delle fotografie raccolte nel volume esprimono bene la fatica e la durezza delle condizioni di vita di contadini e pastori del Pollino. La modernità, tuttavia - come sembra voler affermare anche Pace - non condusse peraltro ad uno sviluppo armonico ed equilibrato dell’area, ma allo spopolamento progressivo dei paesi del Pollino, che si portò dietro anche perdita di identità culturale. 
Nulla è perduto perché come dice Pace “nonostante tutto, il Pollino ospita ancora un complesso di diversità e di valori recuperabili e salvaguardabili”. Il sociologo Zigmunt Bauman ha sottolineato come l’identità oggi si ponga sempre di più come problema:  “ci son volute la lenta disintegrazione e l’affievolirsi della tenuta delle comunità locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla nascita dell’identità: come problema e, principalmente, come compito”. La memoria storica allora, non si pone come un nostalgico sguardo verso un mondo bucolico che a dir la verità, non è mai esistito, ma come approccio costruttivo alla reinvenzione culturale del nostro territorio, che passa appunto attraverso la coscienza e la memoria di come eravamo: solo così la gente del Pollino potrà riaffermare - nel pieno della “globalizzazione” -  la propria identità, facendo tesoro del suo passato e contemporaneamente proiettandosi in un futuro che lungi dall’essere predeterminato, è ancora tutto da costruire... 


lunedì 28 novembre 2011

Diario 28 novembre 2011

Al cospetto del Monte Rosa: cima di Monte Barone


Il massiccio del Monte Rosa visto dal Monte Barone (Alpi Biellesi) - foto by Indio
sotto: 1. colori d'autunno; 2. salendo alla cima; 3. particolare:sommità rocciosa; 4. veduta panoramica dalla cima; 5.Pino, sullo sfondo del panorama del Monte Barone;  6. l'Indio, sullo sfondo del massiccio del M. Rosa.

Avendo il week-end libero ho approfittato per andare a trovare l'amico Pino, lucano di origini ma biellese d'adozione... compagno d'escursione appassionato della natura selvaggia del Pollino e in generale della montagna. Pino sa come la penso in termini di montagna, sa che mi piace la montagna selvaggia, naturalmente integra ; inoltre voleva farmi arrivare da una montagna da cui si vedesse un bel panorama.
 Per questo ha optato per un'escursione al Monte Barone, bassa (per le Alpi) ma austera montagna di 2040 metri, da cui è possibile osservare uno dei panorami montani più belli che abbia finora mai visto. Il tempo è stato clemente regalandoci una (abbastanza rara da queste parti) limpida giornata di sole, grazie alla quale abbiamo potuto osservare il panorama della vetta in tutto il suo splendore. Si parte presto Il sentiero attraversa una rada boscaglia di abeti rossi, larici, e pini neri. E' un habitat floristico nuovo per me, visto che non ho mai visitato le Alpi. Ciò che salta subito agli occhi sono i larici,  con i colori caratteristici dell' autunno... una classica immagine di tante foto e cartoline delle Alpi. Raggiungiamo un bel punto panoramico da cui si possono osservare le montagne lontane innevate, come il Monte Camino, per esempio. Il Monte Barone sta di fronte a noi; i torrenti scendono dalla montagna e le pendici sono coperte dalla boscaglia di betulle, larici, abeti rossi e pini neri. Molti pini sono secchi, a causa degli incendi di qualche anno fa. Il contrasto tra l'arancione dei larici e il verde degli abeti crea un bell'effetto scenico. Più in alta quota, sembra che solo le betulle siano capaci di resistere all'impervio clima alpino. Sopra di noi c'è il picco PissaVacca e comincia ad intravedersi il rifugio.

Dal rifugio seguiremo il crinale e poi ci inerpicheremo fin sulla cima del monte. Gli escursionisti oggi son tanti; è forse il bel tempo che ha indotto tanti a "saltare il cancelletto di casa" e andarsene in montagna. Ho trovato anche qui, in qualche insenatura nella roccia le invasive madonnine lasciate dai turisti.... Siamo all'ultimo tratto. Ce la prendiamo comoda, anche perchè la pasta fatta in casa col ragù di cinghiale si fa un po' sentire! Troviamo anche dei passaggi con un po' di neve che è ghiacciata.
L'inverno qui sarà dura, anche se si superano appena i duemila metri. Cominciano ad affacciarsi nuove catene di monti oltre i crinali del Barone. Luoghi impervi e selvaggi, dove non si vede traccia di esseri umani... Comincio a fantasticare di esplorazioni solitarie in quella desolazione selvaggia... Solo la cima reca segni di "colonizzazione", come croci, una cappelletta con campana (però storica) e altre installazioni del C.A.I. Pino mi spiega che una volta l'anno viene detta anche la messa... ma il prete arriva però... in elicottero... Sulla cima il panorama si apre in tutta la sua maestosità: la nebbia non si è alzata, è rimasta sulla bassa pianura, e così le lontane catene di monti si alzano con i loro profili accidentati, occupando l'itera visuale dell'orizzonte, dal Monviso,
la cui cima spunta dalle nebbie, al Massiccio del Rosa, fino all'estremità di catene di monti sconosciuti, guardando verso la Lombardia. E' d'obbligo fare più inquadrature dello scenario che si profila davanti che poi provvederò ad incollare, in modo da fare un'unica foto. Pino ha scelto bene dove portarmi oggi e mi spiega che è stato anche un giorno fortunato, visto che non sempre il cielo è così terso e libero da nubi. Resto un po' a contemplare il paesaggio. Mangiamo qualcosa e ci avviamo lungo la strada del ritorno, mentre il sole cala lentamente tingendo di luce rossastra e brillante gli alberi, l'erba secca e le rocce che ci circondano...












martedì 22 novembre 2011

Diario 13 novembre 2011

I nostri boschi son di tutti

"Non temere la sacralita’ e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi automi adoratori di feticci."
(Pier Paolo Pasolini)

torrente Madonna, Burrone di Lodisio - foto by Indio

Partiamo verso le 9 alla scoperta dei boschi del Burrone di Lodisio. Arriviamo nell'omonimo paesino… una chiesetta e poche case, quasi tutte disabitate. Una volta pensavo che i paesini di montagna si spopolassero solo al sud, mentre anche qui, nell’entroterra savonese e ai confini col Piemonte sopravvivono frazioni isolate in valli coperte ormai dalla vegetazione forestale. Una parte del paesino è composta di antiche case contadine in pietra, con le caratteristiche tegole di pietra dello stile alpino. Un antico borgo semidiroccato che nessuno intende più recuperare mantenendo lo stile originario.


Passiamo vicino alla casa di un contadino che Franco vorrebbe salutare e che vive qui da solo, ma non lo troviamo in casa. Ci inoltriamo nel bosco per la nostra escursione. Parecchi  appezzamenti di questa zona sono stati acquistati dall’AIW al solo fine di tutelarli così come sono, ovvero forever wild, quindi prive di strade e con divieto assoluto di taglio di legna: è l’unica politica vincolistica che qui può essere praticata, visto che tutti i boschi ricadono in proprietà private. Un approccio conservazionista esemplare, che l’AIW si sforza di attuare con i suoi magri introiti finanziari e che  dovrebbe sicuramente essere fatto proprio dalle istituzioni dei parchi oltre che da altre associazioni (visto anche che hanno molti più soldi).   Come giustamente mi fa notare Franco, anche se questi boschi non sono paragonabli - con riferimento al valore naturalistico - alle faggete del Parco d’Abruzzo o del Pollino, non per questo non dobbiamo fare qualcosa per tutelarli. Oltre che le aree con maggiore valore wilderness, dovremo sempre adoperarci per preservare anche boschi e luoghi meno conosciuti e gettonati ma comunque meritevoli di tutela, in quanto aree naturali anch’esse selvagge e prive di strade, nelle quali poter fare passeggiate e trovare  momenti di  pace e solitudine nella boscaglia. I colori dell’autunno sono brillanti e variegati, a riprova della diversità di specie floristiche.  Franco, che è un esperto, mi porta alla scoperta della vegetazione del bosco. Ci sono castagni secolari, un enorme albero di ciliegio alto circa 25 metri, e poi ontani, aceri, pino silvestre, pioppi, carpini… è presente, con alcuni esemplari isolati, anche il faggio.


 Superiamo il salto di uno dei burroni: parte del terreno è franato e si è mangiato anche il sentiero, perciò dobbiamo saltare. Il sentiero ci porta alla piccola lapide commemorativa dedicata ad Alessandro Ciravegna, ragazzo socio dell’associazione purtroppo scomparso recentemente, a cui è stato dedicato, appunto, questo bosco. Ognuno di noi è legato ad alcuni luoghi, come lo era Alessandro, ed è bello poter pensare a certe persone mentre si cammina nei posti che queste stesse persone hanno amato. E’ una riflessione che faccio sempre quando attraverso i boschi del Pollino in cui i miei avi lavoravano, andavano a funghi o cacciavano. I loro passi sono ancora là, seppure bisogna inseguirli nel tempo con i ricordi e con il sentimento. La piccola lapide è stata scolpita a mano da Lillino Finamore, ex guardiaparco e guida alpina in Abruzzo e creativo scalpellino.                                                       

Proseguiamo nel bosco ed usciamo in una piccola radura da cui c’è un bel panorama e si notano le gole dei vari burroni. Adesso scenderemo lungo un crinale fino a valle, dove scorre il torrente Rio Madonna. La zona è qui è davvero isolata e si respira l’atmosfera wilderness. Adesso non resta che inerpicarci nei bosci per ritornare al sentiero fatto stamane. 


Questi boschi sono ricchi di storia. Durante la Resistenza era attiva da queste parti la banda del “Biondino”, un controverso capobanda partigiano, noto per le sue imprese eroiche contro i tedeschi ma anche per i suoi metodi sbrigativi e sanguinari: era criticato dagli stessi partigiani di altre bande per esecuzioni sommarie di civili ed è rimasto negli annali un regolamento di conti in stile western con un altro comandante partigiano che gli era ostile. Ritorniamo al paesino di Lodisio e ci aggiriamo per le case ormai diroccate. E’ una novità per me il forno all’aperto, visto che i forni delle case del sud erano invece all’interno delle abitazioni. Mi vengono in mente pezzi di una poesia di Pasolini “Io vengo dai ruderi… dai borghi dimenticati dell’Appennino…” Oggi il dibattito politico è esacerbato dalle polemiche nord-sud, ma io in questi “borghi dimenticati” ritrovo la mia cultura d’origine, che è la cultura contadina, di ogni parte d’Italia, con le sue differenze anche profonde, certo, ma anche con le sue comuni radici culturali: anche qui, nell’entroterra ligure sento perciò di essere un po’ a casa mia… 



Si va a trovare il contadino amico di Franco, che se ne sta sull’uscio di casa a godersi il sole, assieme alla sua cagnetta e ai suoi gatti. Ci sediamo sulla panchina che sta davanti al suo uscio e consumiamo il nostro frugale pranzo, mentre il contadino ci offre una bottiglia del suo vino "autoprodotto". Ci dice che un problema per la sua vigna è rappresentato dai caprioli, che qui si sono ripopolati in grandi quantità nel breve corso di un decennio. Franco e il contadino parlano nel loro dialetto e riesco a capire qualcosa solo perché conosco gli argomenti di cui stanno parlando. Partiamo di nuovo per andare stavolta a fare visita ad alcune signore che hanno stipulato dei contratti di tutela spontanea su parte dei loro boschi, ora facenti parte dell' Area Wilderness "Boschi di Porcavio". Si sconfina nel Piemonte, oltre Piana Crixia. La fattoria della prima signora a cui faremo visita è immersa in un paesaggio bucolico. Fotografiamo gli asini e le caprette bianche, che si lasciano accarezzare e ci guardano incuriosite.  


Susanna è di origini svizzere e vive qui da sola con le sue caprette, i suoi asini e le sue galline, coltivando l’orto e badando ai suoi animali. Ci porta a vedere le sue stalle e ci offre una buonissima torta alle nocciole piemontese, nel cortile della sua abitazione, dove razzolano delle belle galline, alcune di razza cilena e prive di coda. Susanna è vegetariana e pratica meditazione. Ci parla dell’importanza delle cose essenziali, del dare valore all’interiorità e al contatto con la natura. Solo nella gente che vive in campagna ritrovo quella spontaneità e amore per cose semplici e allo stesso tempo vitali come l’orto, i boschi, gli animali domestici. Oggi come oggi non riuscirei a lasciare tutto e fare una vita ritirata in campagna, ma allo stesso tempo sono convinto che c’è più dignità e pienezza di vita in nell’isolamento della campagna che nei corridoi di edifici anonimi e senza anima come quelli dei quartieri  delle grandi città… Susanna ce l'ha oggi coi cacciatori, che stamane hanno spaventato i suoi animali, perché si sono avvicinati troppo alla sua fattoria. Li abbiamo incontrati anche noi lungo la strada, in appostamento per il cinghiale. Se ne stanno appostati fermi vicino al loro fuoristrada, vicino alla strada; anche loro mi sembrano gitanti domenicali che hanno perso il contatto genuino con la natura. Buona norma comunque sarebbe sempre praticare la caccia lontano dalle strade e dai terreni privati, per non dare fastidio alla gente… 
Salutiamo Susanna, che ci dona una ricottina fatta col latte delle sue capre. La mangerò volentieri stasera nella mia stanza del collegio di Savona in cui mi trovo… 

Poi passiamo da Jeanne e dalla sua amica Barbara, l'una americana, l’altra inglese. I loro cani ci accolgono subito amichevolmente. Anche loro due hanno tutelato volontariamente i boschi delle loro proprietà e anche loro hanno deciso di vivere in questa casa immersa nei boschi, prima abbandonata. Quale sarà il motivo che spinge delle persone che vivevano all’estero, magari in città a venire qui in Italia? Forse perché il nostro paesaggio italiano, umano e naturale allo stesso tempo, così ricco e vario, mutevole e ricco di biodiversità, è più bello di quello che noi pensiamo. Dovrebbe essere questo un buon motivo per riconsiderarlo…




lunedì 21 novembre 2011

Diario 12 novembre 2011

Il ritorno del camoscio


camoscio alpino: l'esemplare visto da lontano, foto by Indio

Savona è una città che potrebbe essere molto bella, ma prima l’industrializzazione e poi la speculazione edilizia hanno compromesso l’armonia del centro storico.. Le vecchie torri del porto, la fortezza, i monumenti, si mischiano così a moderni palazzoni anonimi. Nella zona del porto spicca un bruttissimo grattacielo verde acqua…
Prendo l’autobus che mi porterà a Carcare, dove mi attende Franco che mi ospiterà due giorni a Murialdo, nella sua abitazione.
Il pasesaggio cambia velocemente. Dalle aree industriali e commerciali delle piane dell’entroterra si sale lungo le colline, verso i piccoli paesini di montagna. La boscaglia è onnipresente. Non si vedono pascoli né campi coltivati.
Franco mi aspetta nella bella piazza di Carcare e insieme ci avviamo verso Murialdo. In programma abbiamo un’escursione all’Area Wilderness Monte Camulera (divisa in due aree: Bric Zionia di demanio comunale e Bric Farian proprietà dell'AIW)..
La nebbia è ridiscesa sulla valle, ma il pomeriggio è abbastanza luminoso. Franco mi porta alla scoperta dei luoghi della vecchia miniera abbandonata, oggi invasa dalla vegetazione. Sotto di noi scorre il fiume Bormida. All'imbocco del sentiero c'è la tabella con la descrizione dell'Area Wilderness e accenni alla relativa  "filosofia"... Da lontano si vede il paesino di Murialdo...


Entriamo nel bosco. La vegetazione è molto varia ed è tipica di queste zone: troviamo betulle, castagni, rovere, pino laricio e persino il faggio. I cambiamenti climatici hanno cambiato il paesaggio del bosco, infatti con la siccità del 2003 sono morti molti alberi, che adesso giacciono a terra. 


Vi sono numerose gallerie che perforano le viscere del monte, sentieri di collegamento e ruderi di strutture pertinenti allo scavo e trasporto del minerale. Con un piccolo restauro conservativo di queste antiche strutture si potrebbero creare dei percorsi di archeologia industriale dove portare le scolaresche, magari. Passiamo accanto al rudere di un essiccatoio di castagne, poi davanti al vecchio deposito di esplosivi. Sulla porta una piccola lucertola è tramortita dal freddo. La rimetto dentro, così troverà un cantuccio per il suo letargo. Passiamo accanto ai resti dei tubi che venivano utilizzati per la raccolta del minerale e a quelli della funivia che lo trasportavano a valle, poi dentro la piccola galleria scavata nella roccia viva. 


Trovo il cranio di quello che Franco dice essere probabilmente un mustelide (una faina o una martora); farà buona compagnia ai tanti crani di animali presenti nel suo studio, da quelli di camoscio a quelli di stambecco, a quelli di lupo. 

Proseguiamo nel bosco quando ad un certo punto vedo, lontano, un animale aggirarsi nel bosco, sul versante della montagna che ci sta di fronte. Dico a Franco che c’è un capriolo. Può essere solo un capriolo, perché nel savonese ne esistono, secondo le stime, quasi ventimila esemplari… L’animale è nascosto nella vegetazione e dopo pochi secondi esce allo scoperto. Franco si accorge subito che non si tratta di capriolo ma di camoscio! In effetti la sagoma, il mantello con i colori caratteristici e il portamento generale sono quelli del camoscio alpino. Franco è entusiasta della cosa, anche perché mi comunica che è un avvistamento eccezionale, perché mai si era visto un camoscio in Val Bormida. 


La natura è imprevedibile davvero e per me è un giorno fortunato, perché dopo il camoscio d’Abruzzo ho l’occasione di vedere per la prima volta un camoscio alpino. Facciamo varie foto e Franco che ha uno zoom elevato può fotografarlo bene. Il nucleo più vicino di camosci alpini sta in Piemonte, a una quarantina di chilometri. Probabilmente l’animale è arrivato qui spaventato da una battuta di caccia o da un inseguimento di lupi. Potrebbe non essere solo e se fosse così, chissà, i camosci potrebbero ricolonizzare alcuni ambienti rupestri della montagna rimasti ancora selvaggi. L’animale continua a muoversi lungo la pista e arrampicando sulla scarpata. Probabilmente sente anche le nostre voci. Un camoscio alpino si mostra a due appassionati di natura selvaggia. Mi piace fantasticare e pensare all'idea che quel camoscio sia là per noi, che si tratti di un “segno”, che il camoscio si sia mostrato per darci nuovi stimoli per continuare ad amare quel po’ di wilderness rimasta cercando anche di difenderla, per quel che si può. Oggi il camoscio è qui per noi e i giornali dei prossimi giorni riporteranno la notizia di questo splendido e inaspettato incontro…






giovedì 3 novembre 2011

Diario - 3 novembre 2011

Il cercatore di funghi


Novembre andiamo, la montagna è immersa nei suoi colori autunnali.
Indifferente agli eventi umani, continua, come può, la sua vita ciclica, secondo le leggi di una immutabile dinamica interna. Crisi economica, conflitti sociali, mercati finanziari... nulla di ciò penetra nell'atmosfera silente della foresta. Una calma irreale e quasi ostile, di monotona indifferenza. L'aria secca e fresca dell'alba annuncia una giornata di sole, che farà brillare il giallo e il rosso degli alberi, dei faggi e degli aceri, farà risaltare il sempreverde degli agrifogli e degli abeti, che spiccherà come inconsueto  nella nuova stagione.


Il cercatore di funghi è partito all'alba, di buon'ora, inseguendo il sorgere del sole. Ha riparato le sue vecchie scarpe da trekking che usava  da tempo per andare a funghi. La suola in Vibram si era quasi staccata ed ha provato ad incollarla. Non durerà molto, ma vuole fare un'ultima escursione per quelle vecchie scarpe. Se potessero parlare, pensa - rendendosi conto dell'ingenuità dell'osservazione - quei vecchi scarponi... Con quelle scarpe il cercatore scoprì le sue  montagne, passo dopo passo. Quelle scarpe sembrano ricordargli i vecchi tempi, quando ogni luogo scoperto era una sorpresa e una meraviglia, quando era solo e condivideva solo con se stesso quelle avventure solitarie.
Il cane come sempre, appena lui è uscito dalla porta, ha capito, vedendolo abbigliato con zaino, cesto e giacca militare, che si profila una giornata in cui potrà esplorare i grandi spazi della foresta.
Salgono su per i boschetti di cerro ingialliti, e si portano lungo una pista che conduce ad un vecchio sentiero di  pastori. L'area è invasa di rovi, ginestre, meli selvatici... le coturnici spaventate svolazzano nell'intrico della vegetazione, con i loro versi squillanti...
Sbuca in un pascolo quasi pianeggiante. Questa è un'area che un tempo era coltivata. C'è un piccolo appezzamento di terreno che è suo, segnalato da un giovane cerro. I genitori un tempo qui piantavano le patate... Ora la vegetazione ha invaso tutto.
Da qui si vede la grande foresta, in tutta la sua estensione, accesa dei colori brillanti dell'autunno. Il cercatore trova una mazza di tamburo. Lepiota Procera, il fungo ombrello, il fungo solitario delle radure, il fungo che scorgi da lontano con un sorriso.


Affretta il passo, perchè vuole inoltrarsi nella foresta. La foresta è pulita, c'è solo un tappeto di foglie secche, si può camminare con libertà di movimento, per ore e ore senza incontrare segni d'uomo. Il labirinto di tronchi lo accoglierà con l'oscurità della sua volta immaginaria. Cerca il fungo dell'abete. Lactarius deliciosus.
Il cane procede sempre un po' più avanti. Cosa troverà lui nella foresta? Odori forse, segni e tracce del passaggio di animali selvatici. Ama anche lui vagare per la foresta, l'elemento primordiale ha contagiato anche il cane. Non trova i funghi dell'abete, raccoglie solo tanti Tricholoma: funghi grigi e allineati a gruppi tra le foglie. Questo offre la foresta e null'altro. 



Non si può manipolare, non ci sono solchi da scavare e semi da gettare, e la foresta aspetta solo l'acqua che cade dal cielo. Le creature della foresta seguono la Legge. Ma la foresta, se dà i suoi frutti all'uomo per soddisfare un suo svago, capriccio o bisogno, dà da vivere agli animali che vi abitano. Potremo paragonarci alle bestie da soma, ma mai ad un animale selvatico. E' un modo di essere che non ci riguarda, è lontano ed incomprensibile. Come gli uomini si allontanano da un rapporto spontaneo con la natura, si avvicinano allo stesso tempo e in maniera sempre più accelerata, alla loro natura culturale: l'uomo vive di artificiosità, del mondo che si è costruito attorno dominando e manipolando la natura. Non è un giudizio di valore, nessuno può darli, è una constatazione. 

Non si vive più della natura ma della sua manipolazione, giunta ormai al livello di "essenza" essa stessa . E anche la nostra natura è forse un po' compromessa: se vagare nella foresta alla ricerca di cibo si ricollega alla nostra natura animale, vivere ventiquattro ore su ventiquattro grazie ad artifici tecnologici è prettamente umano, almeno secondo i canoni che caratterizzano l'uomo civile occidentale, l'uomo medio che vive nelle città, delle sue categorizzazioni, delle sue etichette e divisioni spaziali e temporali. 


 Il cercatore di funghi è solo con i suoi pensieri. E' anche lui un realista: essere realisti è un obbligo della società. Non c'è spazio per i sogni: o meglio, uno spazio c'è, ma gli uomini li relegano nelle nicchie nascoste della loro anima; li custodiscono in cassetti, come gioielli di cui nessuno percepisca l'utilità. La libertà è uno di questi sogni: è fatta della stessa materia del sogno, è evanescente, ma non possiamo fare a meno di desiderarla. E' una libertà che viene dalla conoscenza di se stessi, non può essere preconfezionata.  Potrà esserci libertà col solo  possesso di oggetti e stili di vita prodotti industrialmente, con gli staus tanto ricercati ma alla fine imposti dagli altri, con le false libertà di un conformistico anticonformismo?

Una considerazione fa nella sua testa: che quella autentica libertà l'ha intravista solo quando la sua personalità ha potuto esplicarsi, quando lui seguiva i  suoi istinti e i suoi desideri, seppure illogici e irrazionali per altri, quando egli riusciva a  fuggire da regole, codici e quando la solitudine diventava la condizione per bastare a se stessi, quando il proprio corpo esprimeva la sua forza e superava i suoi limiti con l'esercizio della volontà... E la montagna era uno spazio dove imparare ad apprezzare la libertà e dove riconoscere le cose essenziali della vita. "Andai nei boschi perchè volevo succhiare il midollo della vita": era questo il senso della frase di Thoreau.


Il cercatore e il cane proseguono nel cammino. Gli abeti bianchi sono maestosi e la loro personalità spunta  negli anfratti della foresta. Alti tre centimetri e vivi da pochi anni, slanciati e possenti o abbattuti dalla furia degli elementi, ormai marcescenti ma ancora possenti, questa comunità arborea  è la vera dominatrice della foresta, sono essi che captano la sua attenzione.


L'ora del pasto frugale. Il cercatore e il cane mangiano a ridosso di un grosso abete. Il cane è un compagno, nel senso della compagnia e in quello della fratellanza che supera le barriere umane, nel senso della strada da fare assieme.... e compagno significa anche e soprattutto "condividere lo stesso pane".


Alla ricerca dei frutti del bosco si spingono sempre  più in alto, incrociando piste e sentieri per poi ridiscendere lungo i pendii boscosi attraversati dai fossi, per rivedere la luce del sole e i colori vari e mutevoli della faggeta.
Dalla faggeta scendono poi nella cerreta e qui è l'aria del bosco risuona di uno strano ticchettio... Sembra grandinare: ma invece di granelli di ghiaccio cadono ghiande, che  si staccano dai rametti finendo sul tappeto di foglie, fornendo cibo ai cinghiali e nuovi semi per la rigenerazione del bosco...



lunedì 19 settembre 2011

Messner e la montagna



"Noi alpinisti cerchiamo oggi, non tutti, ma la maggior parte, di usare poca tecnologia per avere un contatto diretto con la montagna.
 La conquista verso l'animo, verso l'interiorità, è la mia meta. 
E se noi lasciamo le montagne come zona selvaggia, dove in realtà non ci sono infrastrutture, come prima dell'umanità, allora l'uomo ha la possibilità di fare esperienze interiori; di sentirsi piccolissimo, di sentirsi un niente. La forza umana la sento solo se arrivo al mio limite, ma non prima".
Reinhold Messner

domenica 18 settembre 2011

Diario 17 settembre 2011

Sulle vette degli angeli neri. Ritorno al Corno Grande (con l'amico Vincenzo A.)



 gracchio alpino -  foto di Vincenzo A. sotto: 1. Pizzo Intermesoli; 2. Veduta dalla cima 3. Vincenzo A. sulla cima; 4. Indio e Vincenzo A.


L'amico Vincenzo A. viene a trovarmi a Teramo per realizzare la mancata (almeno per lui) ascesa in vetta al Corno Grande, lungo lo stesso itinerario già percorso da me in solitaria (Val Maone, Sella del Brecciao, Via delle Creste, cima e discesa per la via normale).
Trovo la montagna più spoglia e le fioriture sulle aride pietraie sono un bel ricordo di luglio... Tantissimi gli escursionisti che incontriamo; certo, sarebbe meglio essere molti di meno per godere meglio delle atmosfere della montagna, ma anche noi a ben vedere, venendo qui in un sabato estivo di settembre contribuiamo a quell'affollamento. Ce la prendiamo comoda salendo senza foga. La Via delle Creste è un divertente e bel percorso su roccia. Camminare sulla roccia mi dà sempre un senso di pienezza: forse perchè rimanda ad un rapporto diretto con un elemento primordiale del cosmo.
I pinnacoli rocciosi del Gran Sasso escono dalla terra innalzandosi verso il cielo,  e l'escursione forse è un ripercorrere questa "ascesa"; innalzamento geologico ed elevazione interiore dell'uomo si confondono nel ripercorrere visivamente questa storia evolutiva. La cima è circondata dallo splendore: il cielo è sgombro di nubi e i panorami spaziano limpidi... Stormi di gracchi alpini e corallini volteggiano sopra di noi... schiere di angeli neri del regno animale. Molti altri sono appollaiati sulle pareti inaccessibili. I gracchi alpini dal luminoso becco giallo arrivano fin sulla cima cercando di resistere alla forza del vento...
Poi si posano sulle rocce a pochi metri da noi cercando pezzetti di cibo lasciati dai turisti. L'assordante gracchiare dei corvidi echeggia tra gli abissi di roccia. Nelle foto che non ho potuto fare ci sono in primo piano i gracchi alpini posati sulla roccia o in volo sopra la mia testa, e sullo sfondo i pinnacoli di roccia e il cielo limpido. Ritorniamo per la via normale. La discesa sarà lunga. Arriviamo al Val Maone mentre le pareti sud-occidentali si tingono prima di rosso e quando il sole scompare di un bianco pallido. Cala lentamente il buio e Vincenzo A. tira fuori la sua lampada frontale. Arriveremo ai Prati di Tivo alle 21 circa: abbiamo camminato più di tredici ore, a parte qualche breve sosta...






verso del gracchio alpino


verso del gracchio corallino

mercoledì 14 settembre 2011

Diario 12 settembre 2011

la maestosità del Monte Petroso, da Valle Cupella - foto by Indio
sotto: 1. Lago Vivo; 2. Valle Lunga. 


"Ho visto i caprioli attraversare la foresta, branchi di cervi nei pianori d'alta quota, ho visto i camosci delle cime, ho sentito il verso del cervo in amore che rimbombava nella foresta... ho attraversato la faggeta infinita...la visione delle alte cime. Ho lasciato un pezzetto di me stesso in questo Eden che è il Parco d'Abruzzo... ed ho visto affacciarsi la malinconia in vista della mia partenza!"
Indio


Alla scoperta di un Eden

Avevo deciso di arrivare al Monte Meta, una delle cime più alte del Parco d'Abruzzo. Avendo a disposizione solo una bicicletta come mezzo di avvicinamento, l'imbocco di partenza non poteva essere che la strada che da Barrea arriva ad Alfedena. L'escursione si profilava molto lunga... Poi c'era da affrontare un dedalo di sentieri dai nomi diversi: K3, K4, L1, L2. In mancanza di opportuna segnatura ero cosciente che avrei potuto avere dei problemi. Arrivo in bici all'imbocco dei sentieri. Ne prendo uno ben segnato ma non numerato, e penso sia quello giusto. Il sentiero sale e si inoltra in una faggeta stupenda, con magnifici esemplari di faggio. Sento degli animali attraversare il bosco e tra gli alberi noto un piccolo "bambi" e un esemplare adulto che dalle corna sembra proprio un capriolo... non c'è dubbio, è una famigliola di caprioli. Si respira qui la vera atmosfera della foresta.


Da più parti risuona il  richiamo dei cervi in amore, che mi seguirà per tutta l'escursione... Mi accorgo a metà percorso che il sentiero che sto percorrendo è in realtà quello del Serrone: su un albero trovo infatti la dicitura di F4.  La meta non è più il "Meta" purtroppo, ma Lago Vivo. Sono un po' deluso, ma lo spettacolo a cui potrò assistere successivamente mi ripagherà ampiamente dell'errore. Agli escursionisti e alpinisti che visitano il Parco d'Abruzzo dico: spogliatevi dell'ambizione della sfida... queste montagne vanno visitate più con lo spirito del naturalista che con quello dello sportivo. Non ci sono cime da conquistare, ma paesaggi da contemplare, estese faggete da attraversare e animali selvatici che non sarà difficile incontrare. Il terreno della foresta diventa sempre più roccioso e la luce di un pianoro si espande nel vuoto che comincia a crearsi tra gli alberi. Guardo la cartina e noto che da Lago Vivo potrei prendere un sentiero che conduce al Monte Meta... anche se la strada da fare mi sembra un po' troppo lunga. Lago Vivo è un pianoro che del lago ha solo ormai delle estese pozze d'acqua. E' bella anche la Fonte degli Uccelli; l'acqua esce da una lapide dove sono scolpiti appunto due uccelli. Vi sono mucche al pascolo. Prendo un sentierino che si inoltra nel bosco e dovrebbe condurre al sentiero che va al Valico dell'Altare. Mi incammino e supero il bosco che ammanta Lago Vivo: ed ecco che si apre davanti una di quelle visioni destinate a restare per sempre nei miei ricordi: un pianoro enorme popolato da ginepri e al suo limitare un bosco di faggio... e sullo sfondo il Monte Petroso, con i suoi dirupi selvaggi e i ghiaioni inaccessibili... E' Valle Cupella, uno di quei posti incantati davanti alla cui veduta si può solo gioire... Sono alla ricerca del sentiero, ma alla fine rinuncerò a trovarlo... Salgo sulle rocce alla mia sinistra per vedere cosa c'è oltre, seguendo un sentiero probabilmente scavato dai cervi... per vedere quale panorama mi aspetti e se intravedo una lontana traccia di sentiero: ed ecco un'altra visione di selvaggia bellezza, uno di quegli incanti che sembrano usciti da un sogno... una catena di pareti verticali e alla base ampie praterie d'alta quota; vedo ampie pozze d'acqua e branchi di cervi tutt'intorno, che bramiscono in lontananza...
Dalla cartina capisco che quella è Valle Lunga. Guardo in direzione delle rocce che mi sovrastano e noto che spuntano delle corna: un altro branco di cervi, che mi osservano incuriositi. E' un'escursione di totale immersione  nella natura, e in solitudine... non ho incontrato altri esseri umani: la vita selvatica sembra dominare  intorno a me.Vado in direzione dei cervi del pianoro, verso il valico dell'Altare? Primo: non mi va di disturbare quella lontana scena di vita selvatica; secondo: sono senza cappello, il sole picchia forte e dovrei camminare ancora per ore sotto il sole cocente; terzo, anche se lo trovassi non so quanto impiegherei per aggirare il Meta... poi mi attenderebbe un dedalo di sentieri e dovrei scegliere quello giusto per arrivare a destinazione, col pericolo che faccia buio. Sono solo un turista e per me, a parte il disegno della cartina, queste sono montagne sconosciute. Mi accontento perciò di queste belle visioni e decido di terminare da questa altura l'escursione, seppure con grande malinconia, per non poter vedere i nuovi paesaggi che attendono di mostrarsi ai miei occhi... Per il ritorno decido di scendere verso la Valle dell'Inferno; qui il sentiero si fa ripido e roccioso e attraversa i pendii coperti dalla fitta faggeta... poi scende su un canalone di rocce e sbuca alla Sorgente del Sambuco, che annuncia la sua presenza col rumore fragoroso delle acque. Ascolto il distinto ticchettio dei picchi... Ecco la strada sterrata che mi porterà alla strada asfaltata e poi alla mia mountain bike... Nuvoloni si addensano e il lago di Barrea muta d'aspetto. Forse arriverà un temporale...