Indio entra nella grotta - foto di Maurizio Lofiego
Con l'amico Maurizio avevamo notato in un'altra escursione di svariati mesi fa, un possibile sito di grotte. Con l'escursione di oggi siamo andati ad esplorare quella zona, questa volta procedendo in salita. La grotta si trova nel versante lucano del Parco del Pollino. Per assicurare la pace, la tutela e la conservazione del sito non sarà indicata la località del ritrovamento, ma si pubblicheranno, a titolo cautelativo, solo le foto dell'interno delle grotte.
Per giungere al sito dobbiamo attraversare all'inizio un'area di rovi e spine, procediamo aprendoci la strada con un grosso machete. Troviamo la carcassa di un puledro. La testa e altre ossa sono sparpagliate, mentre la carcassa presenta ancora la pelle. Forse ucciso dai lupi.
I luoghi che attraversiamo sono spettacolari: sono in pochi a frequentarli e si respira davvero un senso di vera wilderness. Saliamo in direzione del posto dove dovrebbero trovarsi le grotte... I pendii diventano ripidi, faggi secolari monumentali si affacciano durante la salita, qualcuno secco e col tronco cavo, segnato dai buchi dei picchi.
Si cominciano ad intravedere delle cavità nelle pareti rocciose in alto: eccoci arrivati al posto che cercavamo. Un paio di grotte sono inaccessibili... probabilmente sono anche piccole, semplici cavità che forse non continuano. Altre due sono accessibili: una è piccola, un'altra più grande e spaziosa. Ecco trovato un riparo per l'uomo. Presenta lo spazio per poter dormire, un altare di pietra all'ingresso, varie nicchie dove poggiare oggetti, cibo, bevande. Il ruscello dove approvvigionarsi di acqua, non è lontanissimo...
Più sopra c'è un'altra apertura. Sicuramente briganti, pastori e cacciatori conoscevano questo sito, quindi non siamo probabilmente i primi ad averle intraviste. La grotta più in alto ha però un'apertura molto meno accessibile, bisogna arrampicare per pochi metri ma la roccia è liscia e con pochi appigli. Forse la grotta sarà insignificante, vale la pena andarla a vedere? Maurizio, che è più bravo di me ad arrampicare va per primo, riesce ad arrivare all'apertura e subito mi comunica entusiasta il ritrovamento: la grotta è ampia, presenta anche delle belle protuberanze verticali. Lancio la mia corda da escursionismo a Maurizio che la fa passare da una grossa clessidra, così da avvantaggiare la mia salita, lasciarla là e scendere poi tutti e due in sicurezza. Salgo così anch'io ad ammirare lo spettacolo. Si notano sul pavimento fatte di pipistrello, le borre e una penna di un probabile allocco. Ragni delle grotte in una cavità. Dall'apertura si nota il panorama dei boschi coi colori autunnali... Osservo le pareti alla ricerca di possibili segni dell'uomo, seguendo un'ingenua fantasia da esploratore. Siamo i primi uomini ad essere entrati qui dentro? Nessuno può dirlo...
Le rocce hanno sfumature ora rosacee ora verdastre, tanto che Maurizio propone di chiamarla "Grotta dei colori". Le bizzarre formazioni di roccia calcarea che spuntano dal tetto della caverna sembrano ricordare le teste di animali: riconosciamo un rinoceronte, un dinosauro e un... maiale domestico.
foto di Maurizio Lofiego
foto di Marurizio Lofiego
foto di Maurizio Lofiego
Le
grotte hanno un richiamo particolare, direi ancestrale. Quando si entra
si ha la sensazione di aver trovato un posto sicuro, un rifugio, la
propria casa. Del resto le grotte sono state spesso la prima abitazione nella storia dell'evoluzione della cultura umana, nonchè luoghi sacri, come si evince
dai ritrovamenti archeologici di offerte, pitture rupestri e statuette. Il significato simbolico delle grotte
resiste imperturbato anche nell'era moderna: entrare in una grotta è,
oggi come agli albori della civiltà umana, ritrovarsi quasi nel grembo sicuro
di Madre Terra...
immagine tratta dal film: "Cave of Forgotten Dreams", di Werner Herzog
Oltre l'approccio sportivo: l'escursione come esperienza per avvicinarsi al mistero e alla bellezza della natura- sulla cresta nord-ovest del Monte Pollino - foto by Indio
“Riuscite
a vedere quello che vedo io?”
(dal film
Into the Wild, di Sean Penn)
L’uno di febbraio. Vedo
in televisione l’ultima tragedia in montagna. Una valanga travolge due
alpinisti cittadini.Mi colpiscono molto le immagini di una
parte del paesaggio del Gran Sasso
mostrate in TV. Impianti di risalita che hanno squarciato un tratto della
foresta. Cemento e ferro dappertutto. Il soccorso alpino che va a rischiare la
pelle per rimuovere i corpi dei due poveri alpinisti. E’ una storia che si
ripete, all’infinito. Ho sempre riflettuto, anche perché li pratico, sugli
sport di montagna, sui loro obiettivi e sul loro rapporto con l’ambiente
montano. Ne ho discusso con amici e conoscenti, scontrandomi anche con punti di
vista opposti ai miei. Da queste
riflessioni ho buttato giù, senza un destinatario preciso, quest’articolo, che
è il mio modo di comunicare agli altri cos’è per me la montagna e come vorrei
che gli altri la vedessero. O meglio, vorrei tanto che gli altri vedessero
quello che io penso di essere riuscito a vedere …
Si
può concepire il trekking come sport
fine a se stesso? Ecco, questo è il punto da cui voglio partire per una
riflessione sul rapporto tra l’escursionista e l’ambiente naturale della
montagna.
Lo
sport si sa, implica dei record, delle vittorie, delle performance. La
mentalità sportiva di certo ha a che fare volenti o nolenti con la montagna, in
quanto l’escursionismo e l’alpinismo implicano una serie di tecniche ed
attrezzature per affrontare cime e pareti. Comportano lo sforzo, l’allenamento. In particolare
l’alpinismo contempera la preparazione atletica volta ad affrontare ore e ore
di lunghe salite, l’accuratezza delle tecniche e dei movimenti della
progressione su neve e ghiaccio, o quelli che interessano l’arrampicata su
roccia. La domanda che mi pongo è questa: si può avere unicamente un approccio sportivo alla montagna? La montagna può
essere considerata solamente una "palestra naturale" per le nostre performance? E
se l’escursionismo viene considerato uno sport, in questo sport si vince davvero
qualcosa?
Bisogna
partire da un fatto: la rincorsa smodata al record, alla sfida, al
raggiungimento della cima a tutti i costi o la scalata di pareti impossibili, l’accanimento nello spostare il limite sempre più in avanti fanno parte
della storia dell’alpinismo e hanno seminato tra gli alpinisti una competizione
che ha anche prodotto atteggiamenti meschini, bugie e rancori di ogni sorta. Io le chiamo “miserie
dell’alpinismo”. Basti pensare alle falsità e alle recriminazioni che
accompagnarono la scalata del Cerro Torre in Patagonia, a cui Messner ha
dedicato un libro ultimamente. Per citare Mauro Corona spesso lo stasus degli
alpinisti diventa quello di “narcisisti”, ovvero di atleti che mettono avanti soprattutto la loro vanagloria personale e la collezione di imprese
sempre più difficili. Alla fine se si pensa solo a se stessi e alla scalata non
si fa altro che perdere di vista... proprio la montagna! Non è solo una questione
filosofica esente da conseguenze pratiche. Perché la ricerca smodata del
superamento del limite ha purtroppo avuto (ed ha tutt’ora) come conseguenza, anche
la perdita di migliaia e migliaia di
vite umane. Gli sport della montagna hanno avuto una diffusione di massa e da
ciò che si legge nelle cronache dei quotidiani sembra sia subentrato quasi un
approccio “nevrotico” alla montagna: si vedono tanti individui improvvisarsi alpinisti senza che abbiano conoscenza
ed esperienza dell’ambiente alpino o appenninico. Spesso sono cittadini che
cercano sfogo dall’alienazione metropolitana fuggendo sulle cime. E si vede di
solito come terminano le cose: gite e scalate improvvisate che vanno purtroppo
a finire in tragedia.
Ma
vengo alla domanda a cui voglio rispondere. Con quale approccio dovremo vivere
la montagna? E’ una domanda che faccio anche a me stesso: sono il primo a fare
autocritica, perché anch’io ho commesso degli errori facendomi abbindolare a
volte dalla ricerca della sfida e della
performance a tutti i costi.
Sono
la conquista della cima, la tecnica, la
competizione le cose più importanti oppure c’è qualcos’altro che nella montagna
vale la pena di sperimentare? Parto da un’osservazione. L’escursione su un
sentiero che conduce alla base di una cima viene detto nel gergo alpinistico “avvicinamento”,
un concetto base dell’alpinismo ma che io ritengo banalizzi parecchio la realtà della montagna ... Un sentiero, che
per arrivare alla base di una parete attraversi una foresta selvaggia con
alberi secolari, può valere più della scalata alla cima,
indipendentemente dalla scarsa difficoltà che può presentare! Percorrerlo non rappresenta
solo un “avvicinamento”, ma un’esperienza che può suscitare in noi profonde
sensazioni. Ecco che arriviamo ad un punto chiave della questione: se lo scopo
sia la difficoltà fine a se stessa o, come
io invece sostengo, se la difficoltà
della salita sia in realtà solo un mezzo
per scoprire la bellezza di alcuni angoli incantati e selvaggi della montagna… se
sia un mezzo cioè per entrare in sintonia con la natura.
Se consideriamo questo concetto l’escursione
può diventare interessante e capace di suscitare emozioni intense anche se
stiamo percorrendo quel comodo sentiero cui
facevo cenno sopra, che attraversa una immensa foresta di faggi e abeti: lungo il suo percorso possiamo sentire per
esempio lo scrosciare dei torrenti di montagna… se siamo fortunati incontreremo
il piccolo scoiattolo meridionale che si arrampicherà furtivo per sfuggire alla
nostra vista; ecco il cielo che diventa nuvoloso, si approssima un temporale e
la foresta diventa scura, tenebrosa… direi misteriosa; ma magari rispunta il
sole e mentre stiamo al tramonto la luce rossastra filtra tra gli alberi
facendo brillare le loro foglie; e se ci sorprende il buio potremo ammirare la
vota del cielo stellato, o la luna che fa capolino sulla foresta. Ecco, sono
anche queste, sensazioni belle da provare, oltre a quelle indubbiamente sublimi
della scalata della vetta... e sono queste emozioni che a mio avviso danno senso
all’escursione…
Queste
considerazioni sono importanti, perché si dà così valore alla montagna nel suo complesso, non solo all’
“altitudine” delle vette. La stessa cima
non ha valore perché arrivando a 2000 o
3000 o 4000 metri abbiamo vinto o conquistato
qualcosa (ho sempre trovato ridicole in proposito le bandiere poste sulle
cime dopo una scalata!). L'ascesa di una difficile cresta ghiacciata ad esempio, ha valore non
perché ci conduca alla cima tra mille difficoltà, ma per ciò che proviamo lungo
il percorso della cresta; per quello che vediamo, che ascoltiamo; per la
bellezza misteriosa e selvaggia che si rivela in questi momenti, per la
sensazione che si prova di essere soli alla mercè delle grandi forze della natura…
Lo dico per esperienza: lungo le faticose ascese invernali al Pollino non è la
mia performance che mi interessa, non è dimostrare a qualcuno di essere un
“duro”, ma il poter entrare in sintonia
con la dimensione selvaggia della nostra montagna, con la sua solitudine, il suo silenzio, il suo ambiente primordiale.
In parole povere con ciò che gli americani chiamano wilderness. Sono queste le cose che ci rendono ricchi
interiormente: poter ammirare i tesori naturalistici di una montagna non
oltraggiata dai segni dell’uomo, poterla vivere in libertà e in silenzio, senza
mete prefissate, senza catalogazioni, classificazioni o cifre... Certo, anche
la conoscenza tecnico-scientifica è
importante, ma non dev' essere una mania. Quando vado in montagna non voglio pensare ai
numeri, non mi interessa il valore numerico di un dislivello o di una cima… Se dovessi ragionare come molti alpinisti
ossessionati unicamente di arrivare sulle cime di 7000 o 8000 metri
delle Ande o dell'Himalaya dovrei considerare il Pollino, le cui
cime superano appena i duemila metri, un massiccio quasi insignificante. Ma
ragionando diversamente io considero il Pollino la montagna più bella, perché è la “mia” montagna… e non la scambierei con nessun’ altra.
Perché su questa montagna io sono vissuto
e qui sono vissuti i miei padri, l’ho scoperta a poco a poco fin da bambino ed ho avuto la
fortuna di poter ammirare i suoi angoli più suggestivi e selvaggi, sulle
cime come negli anfratti più nascosti della foresta.
Ciò che
vale è la continua scoperta della natura, quello che la natura ci permette di
poter vedere e ascoltare. Ciò che mi interessa è carpire il senso di un luogo
selvaggio, è confrontarmi con la multevole varietà della montagna nel corso
delle stagioni, con la ricchezza di forme, di colori, di ambienti e di
atmosfere… In montagna voglio sfidare me
stesso e i miei limiti fisici certo, ma voglio anche stupirmi di fronte alla
bellezza della natura, voglio poter sorridere e voglio potermi commuovere. No,
la montagna non si identifica solo con cime o pareti. La montagna è più di questo
e va oltre concetti come tecnica, record, difficoltà… va oltre le
categorizzazioni sportive. E la montagna è “vera” quando non è piegata alle
necessità, alle stravaganze e alle comodità del turista. Quando è se stessa,
quando non è addomesticata, quando non è
svilita, quando si rispetta la sua natura, che è poi fondamentalmente la sua dimensione selvaggia. Ecco perché ad un
approccio basato sulla “conquista” della montagna ne preferisco uno che faccia
leva sulla pura contemplazione, che privilegi una “via interiore”… “Pensare come una montagna” diceva Aldo
Leopold. E’ necessario vedere la complessità della montagna. Tutta la vita che
pullula e che si perpetua in simbiosi con la forza degli elementi: animali
selvaggi, insetti, fiori, piante rare, alberi, rocce e gole scavate da
torrenti, paesaggi geologici con le loro forme uniche… Tutto questo è "montagna".
Per
capirci i miei maestri non saranno mai quegli alpinisti che hanno conquistato
tutti gli ottomila della terra ma montanari come Mauro Corona o Giorgio
Braschi, che hanno esplorato le “loro” montagne cercando di sentire quell’anima che, come dice lo stesso Braschi,
si può recepire solo nelle atmosfere di particolari momenti. Coloro i quali, aggiungo, che oltre a vivere la montagna si sono prodigati per
proteggerla e tutelarne i suoi immensi
tesori naturali. Ma non solo. Se avete letto qualche libro di Mauro Corona noterete
che egli racconta le storie di boscaioli,
pastori, massaie e contadini… E’ importante infatti considerare la cultura
della montagna. Non si può infatti dissociare la montagna dall’ aspetto culturale, ovvero dalle
tradizioni e dalla storia delle comunità locali che in montagna hanno da sempre
vissuto e lavorato. La montagna è
inseparabile dai montanari, da coloro che pur tra tante avversità
continuano a vivere nelle sue valli. E bisogna anche preservare sempre la memoria dei
nostri avi. Ecco allora che un semplice sentiero nei boschi oppure il rudere di
un ovile di pastori acquistano valore anche per essere dei muti testimoni della vita delle generazioni passate,
di contadini, cacciatori e pastori; di uomini come di donne…
Un'altra questione va sollevata. L’approccio
meramente sportivo o atletico ha a mio avviso causato un sacco di danni anche
allo stesso ambiente naturale della montagna. E purtroppo Pollino a parte,
montagna (per fortuna) ancora salvaguardata nella sua dimensione selvaggia e
incontaminata, molte altre montagne italiane sono state piegate alle esigenze
dello sport di massa. E mi riferisco
alla proliferazione dei rifugi d’alta quota, la costruzione di strade asfaltate,
gli impianti di risalita, funivie e piste da sci, alberghi e strutture
ricettive tipicamente urbane piene di borghesucci (modello Cortina per
intenderci), sentieri ipersegnalati con bollini e numeri dappertutto, con
informazioni dettagliatissime riguardanti lunghezza e difficoltà dei percorsi…
La cosa sconcertante è che tutto ciò sia stato permesso anche nei Parchi
Nazionali, cioè in quelle aree montane di cui era stata designata la tutela
proprio per preservarne gli immensi tesori naturalistici e paesaggistici… Lo spirito conservazionista con cui alcune
montagne italiane si volevano tutelare è stato spesso soverchiato dalle
esigenze economicistiche del turista sportivo, dello sciatore portato in cima
con l’ausilio della ferraglia, dell’alpinista che vuole solo arrivare alla base
della cima, magari in funivia, per poterla
poi scalare e “conquistare”.
Concludo esortando gli amici del Pollino che
seguono il mio blog e che io ammiro tanto, di adoperarsi sempre per la difesa e la salvaguardia del
Pollino: questa è la “nostra” montagna, diventiamone i suoi custodi gelosi e
non permettiamo mai per nessuna ragione che venga offesa, danneggiata o
banalizzata!
Sembra che la natura obbedisca ad una logica imperscrutabile. “In montagna c’è il freddo, allora all’uomo che vive nelle sue valli è stato dato il bosco e quindi la legna, e così egli può scaldarsi…” Questa era una riflessione di mio padre che era un grande boscaiolo e conosceva bene gli alberi e la loro personalità. Fin da piccolo lui mi portava nei boschi (di nostra proprietà ovviamente) a fare la legna. Lui si metteva a lavorare e io mi allontanavo un po’ per i sentierini che si snodavano tra i cerri e gli agrifogli che apparivano di tanto in tanto con il loro verde luccicante. E’ in queste occasioni che mi avvicinai al bosco e alla natura. Sono quasi laureato e perciò nella mia vita ho praticato più che altro l’attività intellettuale, ma sono contento di avere appreso, anche se non in maniera completa, l’arte – durissima e faticosa – del taglialegna. Già dai quindici anni mio padre cominciò a insegnarmi come si lavora la legna. All’epoca facevamo tutto a mano. L’abbattimento dell’albero era un’operazione delicata e pericolosa. Si studiava l’albero e la direzione della sua pendenza e poi si cominciava a segarlo con la motosega. Quando l’albero era caduto si divideva in pezzi da circa un metro e mezzo. Alcune volte poteva capitare che, nella caduta, restasse appoggiato ai rami degli altri alberi e allora bisognava o tirarlo con la corda per farlo cadere oppure cominciare a tagliarlo così come era rimasto appeso. Quando era stato tagliato a pezzi, bisognava poi ad uno ad uno alzare i ceppi, a volte davvero grossi e pesanti, e farli stare in equilibrio in verticale. Se il ceppo era lungo di diametro si utilizzavano due cunei contemporaneamente e con la mazza pesante di cinque chili si dava un colpo ad uno e poi all’altro. I cunei non si inserivano a caso… bisognava sfruttare le piccole lesioni già esistenti nel legno: era il segno che il cuneo poteva penetrare all’interno del ceppo. Il cuneo poi non va mai inserito nel cuore, perché quest’ultimo è molto duro, ma nella parte più vicina alla corteccia, in dialetto “la vilinga”. Se i legamenti del legno resistevano si utilizzava un grosso cuneo di legno, la cui funzione è quella di allargare le spaccature che non si aprono. Quando la spaccatura si era allargata abbastanza si spingeva a terra il tronco e si finiva il lavoro con l’ascia. Si rialzava poi una delle metà del tronco e si ricominciava il lavoro, fin quando i pezzi che si erano ricavati risultavano non troppo pesanti per essere maneggiati. Ricordo che all’inizio quando portavo sul cuneo il colpo della mazza, non riuscivo a prendere la mira. Sembra facile, ma ci vuole esercizio. A volte eravamo costretti a tagliare alberi che crescevano sui pendii anche ripidi. Mio padre non amava la comodità a tutti i costi e la sua regola era sempre tagliare (e mai nellos stesso posto!)li alberi “adulti”, anche quelli che crescevano nelle zone più ripide, per fare spazio a quelli più giovani, che potevano così vedere la luce e crescere. Così il bosco sopravvive, si mantiene sempre, diceva. Mai nello stesso posto, sceglievamo ogni anno una zona diversa del bosco.La cosa più aberrante per lui era tagliare le piante giovani, disboscando un'intera area. Lo considerava un vero danno, perché così facendo il bosco scompariva. La vecchia cultura contadina è stata presentata a volte come antiecologica, ma in realtà c’erano dei criteri che venivano sempre rispettati nel taglio della legna. E poi in passato nemmeno esistevano le motoseghe per cui mio nonno e altri ad esempio si procacciavano il legname soprattutto con i muli e gli asini, caricandosi cioè la legna secca, che è sempre abbondante tra i boschi. I veri responsabili dei disboscamenti del Pollino e delle foreste di alta montagna sono state le aziende di legname, che sfruttavano in aggiunta il duro lavoro della manodopera degli operai del posto. Durante gli anni del fascismo fu una ditta tedesca, la Rueping, ad arrecare i maggiori danni ai nostri boschi (pubblici). Quando tagliavamo un albero su un costone dovevamo far ruzzolare tronchi rotondi lungo il pendio, facendoli cascare sulla strada. Ma se la distanza tra il luogo dove sorgeva l’albero abbattuto e la strada era troppo lunga, oppure se la strada era a monte rispetto all’albero, bisognava spaccare la legna sul pendio, accatastarla, e poi portarla sulla strada con una carriola. I tronchi possono essere fatti ruzzolare, ma è una dannazione se si impigliano tra i piccoli alberi e i rovi. Ricordo che a volte dovevamo scavare dei sentierini con il piccone per far procedere la carriola piena di legna. Un giorno d’estate di tanti anni fa portai sulla strada tonnellate di legna con questo metodo, tra gli sciami di tafani che mi avevano infestato! Così “cacciavamo” la legna, che veniva poi accatastata ai margini della strada in “canne”. Una canna di legna è se non ricordo male quattro metri di lunghezza, un metro di larghezza e circa un metro e mezzo di altezza. Anche mettere i pezzi uno sull’altro senza lasciare spazio richiedeva abilità. Mio padre diceva che era come l’arte dei muratori, o meglio dei “mastri”, che un tempo costruivano i muri grazie all’abilità del gioco ad incastro delle pietre rotonde, tenute assieme solo dall’argilla dei fossati. La legna andava poi caricata sul trattore o sul motozappa e scaricata dove di dovere. Spaccare la legna era e ancora è un lavoro molto duro, e spesso ammiravo la forza di padre che maneggiava ceppi enormi e sembrava non si stancasse mai. Anche adesso, quando c’è da sistemare la legna, spaccarla e accatastarla non mi pesa farlo. E se oggi ho una schiena molto robusta, capace di reggere i molti chili di un trekking di più giorni, è anche grazie a questo lavoro... Ho sempre ammirato gli alberi e ricordo che tanti anni fa si ergeva un querciuscerris secolare nei nostri terreni, altissimo e dal tronco di due metri di diametro. Mio padre diceva che non l’avrebbe mai tagliato. Ma un giorno lo ritrovammo squarciato dalla ferita di un fulmine, che lo aveva sbucciato dalla base fino alla cima. I fulmini uccidono gli alberi come il cerro, perché è come se gli bruciassero il cuore. Posseggo ancora la foto dell’albero ferito a morte. Mio padre allora decise di abbatterlo, perché era ormai destinato a rinsecchirsi. L’albero produsse tantissima legna da ardere, ma che si rivelò non buona per il fuoco, perché il fulmine l’aveva resa fradicia e poco infiammabile. Noi lo avevamo risparmiato, ammirandone la bellezza, ma non era servito, perché la natura aveva deciso già il suo destino…
dirupi rocciosi sul versante meridionale di Serra Crispo - foto by indio; nella foto sotto l'autore del blog su una torre di roccia fotografato dall'amico Valentino
La paura è un sentimento naturale e in montagna occasioni per provare paura ce ne stanno... Ma se non esistesse la paura non esisterebbe nemmeno il coraggio nell' affrontarre situazioni difficili e pericolose. In una società come la nostra che ci vorrebbe tutti atrofizzati e che predispone comodità per ogni nostra abitudine quotidiana (anche negli sport di montagna, per i quali esistono ogni tipo di attrezzature e di accessori), allora mettere alla prova se stessi è un buon antidoto contro l'assopimento generale della mente e del fisico. Rischiare sì, ma fino ad un certo punto però. Mi ricordo un 'escursione in particolare nella quale davvero ho provato tanta paura. Ero più giovane e ancora incosciente. Da Pietra Castello mi ero diretto in direzione della Fagosa (da solo) per arrivare alla Grande Porta seguendo il sentiero. Arrivato sotto Serra Crispo non riuscivo a distogliere lo sguardo dai dirupi meridionali della montagna con i superbi pini loricati arroccati sulla roccia. Cambiai percorso. Quella visione di natura selvaggia e inviolata era un richiamo irresistibile. Decisi così di percorrere una parte del bosco selvaggio che ammanta i crinali della serra per poi portarmi sul tappeto di massi che sta alla base delle pareti di roccia verticali. L'ambiente è estremamente selvaggio. Passai da un masso ad un altro e alla fine arrivai alla roccia. Cominciai ad arrampicare. In questa zona è facile scivolare per la presenza del pericoloso pietrisco (non avventuratevi mai in canaloni e zone di pietrisco se non siete esperti!). La salita era più difficile di quanto pensassi. La roccia sopra di me adesso cominciava ad estendersi in verticale. Cominciai a capire che avevo fatto una cazzata nel voler provare la salita. Non potevo procedere in verticale, era troppo rischioso. Se fossi scivolato avrei rischiato di cadere andando giù per decine di metri per andare a finire contro il tappeto di massi alla base della montagna. Poche decine di metri e un piede messo nella posizione giusta o sbagliata avrebbero potuto decidere della mia vita o della mia morte. Cominciai a tremare. Dovevo uscire da quella situazione. Pensai alla mia famiglia, mi prese il panico. L'unica soluzione era procedere nella salita in diagonale sfruttando gli appigli delle rocce e stando attento al pietrisco. Avrei allungato il percorso ma avrei trovato una strada più agevole e soprattuttonon avrei rischiato di... morire. Mentre continuavo sentii di stare scivolando... il pietrisco cedeva sotto i miei piedi. Il pietrisco cedette e così strisciai cadendo giù, fortunatamente per pochi metri. Mi alzai e riuscii subito a mantenere la calma: "Non è successo niente" dissi tra me e me. Notai che le pietruzze mi avevano lacerato i gomiti. Da quello destro usciva molto sangue. Un pezzo di pelle era andato via, lasciando intravedere l'osso. Continuai con cautela e aggirai un pilone di roccia. Da lì era facile arrampicarsi e sbucare nei pressi della vetta. Arrivai alla sommità. Serra Crispo si svelava in tutta la sua bellezza. "Ce l'ho fatta", dissi "ce l'ho fatta, come sempre". Mi avviai alla fontana e lavai tutto quel sangue con l'acqua gelata della fonte Pittacurc'...
Cominciai le mie prime escursioni verso i quattordici anni. Le montagne che si vedono da casa mia sembravano misteriose, selvagge ed estremamente lontane. Rappresentavano per me una sorta di regno dell'ignoto. I pini loricati delle cartoline di Giorgio Braschi era come se appartenessero ad un altro pianeta. Già da allora cominciavo ad avventurarmi da solo per i sentieri e i boschi più vicini. La mia prima vetta fu il Monte Pelato. E’ una piccola e caratteristica montagna spoglia (da qui il nome Pelato), che si erge solitaria dai pascoli e dai boschi circostanti. E’ costituito da roccia lavica ed èper questo motivo che non vi cresce quasi nessun albero. Ero affascinato dalla sua aria aspra e desolata, così un bel giorno partii da solo percorrendo i sentieri dei pastori, in una zona di pascolo percorsa da profondi fossati, con arbusti e piante di faggio di tanto in tanto, e con dei caratteristici stagni; proprio vicino ad essi mi fermavo per parecchi minuti ad osservare curioso i girini, gli strani insetti e le ranocchie che saltavano prontamente quanto avvertivano le vibrazioni dei miei passi. In quell’occasione però non arrivai in cima; ricordo vagamente che mi fermai ad un certo punto e poi tornai indietro. Quel versante è molto ripido, c’è molto pietrisco e si scivola. Feci altre escursioni da quelle parti, senza seguire sentieri ed itinerari precisi. Ero assieme a Zeus, il mio cane, quando arrivai alla vetta. Ricordo che saili per un canalone pieno di pietrisco, che era una giornata ventosa e che Zeus si divertiva a correre e ad inseguire le lepri… Il panorama dalla vetta è eccezionale. Serra Crispo si erge dalla foresta ai suoi piedi e si scorgono maestosi esemplari di abete bianco, i quali sbucano dal bosco di faggio. Sotto, guardando verso Mezzana, si diramano i pascoli, che al tramonto si colorano di rosso, percorsi da numerose viuzze create dai greggi, strade di pastori che conducono al villaggio e ruderi di ovili abbandonati. Ancora oggi qualche pastore pascola il suo gregge da queste parti. Tutta il monte è punteggiato di basse macchie di ginepro. Un giorno (allora avevo solo quindici anni), con la scusa di andare a funghi, mi allontanai da casa per continuare ad esplorare il Monte Pelato. Saltai il fossato che costeggia il Monte Pelato a sud, poi mi ritrovai in un prato con delle felci più alte di me e che dovetti attraversare. Attrasversai il bosco fitto di faggio e poi uscii sotto la cima, dall’altra parte, in direzione di Acqua Tremola. Avevo perso troppo tempo. Dovevo tornare indietro perché era già tardi. Fui ingannato anche dal sole che in montagna sembra tramontare “più tardi”. Cominciava ad imbrunire e dovevo di corsa prendere la strada del ritorno. La strada più breve era costituita dal ripido fossato, che conduceva direttamente ai piedi del Monte Pelato e poi ai pascoli. Ricordo che fu difficile seguire il fossato perché dovevo districarmi dai rovi che lo ingombravano. Mi sorprese il buio e riuscii a malapena a ritrovare la strada sterrata che conduce a Mezzana. Mi prese il panico, camminavo velocemente; già immaginavo i miei genitori allarmati per il fatto di non essere ancora tornato a casa. Erano le otto e mezza di sera ed ero quasi arrivato a Mezzana, quando notai che un’auto saliva lungo la strada forestale: oltre ad un parente che la guidava c'era dentro mia madre con gli occhi che gli piangevano. Erano venuti a cercarmi. Ebbi la faccia tosta di rimproverare mia madre per non avermi aspettato ancora un po’. Ripetevo che avevo solo fatto tardi... Era davvero imbarazzante per me quella situazione. Tutto Il villaggio era allarmato per la mia scomparsa e altra gente assieme a mio padre era andata a cercarmi nei dintorni del Monte Pelato! Andammo là con la macchina, seguendo la strada che va ad Acquatremola, proprio per tranquillizzare tutti e incontrammo la fuoristrada ferma con le persone attorno. Sentivo le urla di mio padre che mi chiamava a gran voce, pensando magari che fossi ancora là attorno da qualche parte. Poi vidi il tremendo rimprovero nella sua espressione quando mi vide nella macchina e incrociò il mio sguardo. Tornammo tutti a Mezzana. Incontrammo un’altra auto piena di gente che si stava organizzando per venire a cercarmi. Anche i carabinieri erano stati da poco allertati. Vicino casa mia si erano creati dei gruppetti di persone che aspettavano notizie di me. Ero rosso dalla vergogna. Mi imbarazzava trementamente tutta quella gente che mi osservava e che era in apprensione per causa mia. A chi mi domandò successivamente cosa mi fosse successo ripetevo con orgoglio che io non mi ero affatto perso, ma che avevo solo fatto un po’ tardi... Dopo quella esperienza ricordo che mio padre, invece di impormi dei divieti, capendo che adoravo camminare in montagna mi portò con sé a funghi, facendomi vedere alcuni remoti angoli della foresta di faggio e abete, fino al Piano di San Francesco, proprio sotto le pendici del "Giardino degli Dei"...
Il concetto di progresso è stato l’ideologia motore, per certi versi, della modernità. L’idea comune che dominava la mentalità collettiva era che, con la crescita economica, l’industrializzazione e in generale con il dominio spinto sempre di più dell’uomo sulla natura l’umanità avrebbe progredito verso una meta fatta di felicità e benessere. Per il liberalismo era l’economia di mercato, la libera concorrenza e la creazione di nuovi bisogni indotti i fattori che avrebbero rivoluzionato in meglio le possibilità della civiltà umana. Contro questa ideologia si è sempre battuto il socialismo e i suoi teorici, i quali facevano anch’essi propri l’idea di progresso, ma interpretandola come il risultato della lotta che il proletariato avrebbe condotto contro la borghesia per l’edificazione di una società senza classi, la quale avrebbe enormemente sviluppato le capacità produttive dell’umanità in funzione dei bisogni sociali (e non del profitto). Tutti comunque fino alla fine del Novecento non mettevano in dubbio l’idea del carattere progressivo del mutamento storico. Oggi questa idea che ha dominato la mentalità e la cultura occidentale per secoli, sembra ormai in crisi. Qualcuno forse pensa davvero che progrediremo, viste le condizioni, verso il meglio? Se esiste o è un ignorante, un idiota oppure un individuo in malafede. Il futuro appare funesto e nell’immaginario collettivo si è imposta la convinzione che l’uomo debba pagare prima o poi i costi di un sistema economico che si è servito senza freni delle risorse naturali per sfruttarle senza mai pensare agli effetti sull’ecosistema. Ma ecco, siamo arrivati alla resa dei conti. E il giustiziere che appare all’orizzonte è proprio la natura. La natura “si ribella” agli scempi della civiltà umana, la civiltà delle grandezze apparenti e dello strapotere illusorio dell’ingegno umano. La civiltà dei grattacieli, delle grandi fabbriche che inquinano, delle auto lussuose che sfrecciano a 300 all’ora su strade di cemento che vogliono arrivare dovunque oltraggiando persino le maestose barriere montuose; la civiltà del nucleare e della corsa ad armamenti sempre più potenti, della distruzione di culture millenarie in armonia con la natura e delle metropoli del Terzo Mondo affollate di poveri disperati; la civiltà che ha annullato il rispetto per la vita e per la bellezza della natura; la civiltà che tratta ogni essere alla stregua di un oggetto senza anima, sia esso animale, pianta o persona, da sfruttare, perseguitare, uccidere, usare sempre e comunque per qualche fine utilitaristico. E’ la nostra civiltà, fondata sull’arroganza e sull’ignoranza, che impone stili di vita alienanti e massificanti, che si nutre di sofferenze continue, guerre e catastrofi ambientali … una civiltà che alla fine dei conti è fondata a voler ben vedere proprio sulla follia. Ma la natura sta cambiando e si rivolge contro questa civiltà della distruzione. I ghiacci si sciolgono, il clima cambia, gli uragani tempestano la terra, la siccità avanza desertificando vaste aree del pianeta e il mondo appare giorno dopo giorno più povero e più squallido. Ma che ci importa della natura? Il nostro progresso ci ha dato tante belle cose … il telefonino all’ultima moda, la televisione, i prodotti di bellezza, l’autostrada a dieci corsie, centri commerciali sfavillanti di luce, le notti bianche del consumismo sfrenato, i vestiti sgargianti alla moda e le vacanze nei villaggi turistici su costiere cementificate a dovere. Sono o non sono questi i grandi progressi dell’umanità? Ma siamo davvero progrediti? Lo sviluppo di una scienza e di una tecnologia che viene adoperata per distruggere e avvelenare rappresenta una conquista per l’umanità? Ancora c’è chi si ostina a definire le critiche degli ecologisti solo dei futili allarmismi … cose insignificanti; denunce di gente un po’ tonta che gioisce per gli uccellini che cinguettano e pensa solamente a come salvare i panda dalla distruzione; gente fanatica che ci vorrebbe far tornare indietro all’età della pietra! Ma non viviamo del resto in quello che il filosofo Karl Popper ha definito, riferendosi al Novecento, come il migliore dei mondi possibili, nonostante tutto? Per il filosofo liberale le due guerre mondiali, i totalitarismi, la fame nel Terzo Mondo, i disastri nucleari e chi più ne ha più ne metta sono stati solo una bazzecola. I critici della modernità rappresentavano per Popper i nemici della “società aperta”. Sarà. Pace anche all’anima sua... E così andiamo avanti, ancora, senza tregua. Non si pensa a come salvare in extremis questo mondo alla deriva, ma a come fare in modo che riprenda la crescita economica, a come essere competitivi sui mercati, a come partecipare alla spartizione imperialista del pianeta, alle grandi opere con le quali distruggere quel poco di ambiente che ci sta attorno. Il liberalismo è ormai la nuova religione. E il gergo liberale ammanta ormai anche i discorsi dei moderati “di sinistra”; di coloro che da giovani si proclamavano rivoluzionari e che adesso guardano al capitalismo come a qualcosa di ineluttabile, ad un sistema quasi "naturale" che dobbiamo alimentare nonostante stia scavando la fossa a questa povera umanità. Ma il cinismo dei cosiddetti moderati caratterizza ormai sia la destra che la sinistra. Cosa ha rappresentato questo progresso per l’umanità, dove ci sta portando? La promessa della civiltà capitalistica è consistita nella prospettiva di un benessere fondato sul consumismo, un consumismo che pervade ogni aspetto della vita delle persone, di quelle ricche e di quelle povere, anche di quelle che quindi non possono consumare. L’aspetto dominante della vita è diventato quello della quantificazione, del possesso, per cui ogni cosa ha valore soltanto nella misura in cui questo valore è misurato in termini economici. Per dirla con Erich Fromm è la modalità dell’avere a dominare ogni aspetto delle relazioni sociali, in questo mondo usa e getta. La ricerca ossessiva dell’opulenza, di oggetti di cui circondarsi, di status symbol recanti comunque il richiamo al prestigio ed alla ricchezza sono i tratti dominanti della nostra epoca. Ed in una società fondata sull’opulenza una profonda voragine separa chi sta all’estremo positivo di questa opulenza e chi all’estremo negativo, quell’estremo che è rappresentato dalla miseria e che si configura come la base e la condizione perché pochi ricchi si approprino delle ricchezze a scapito della maggior parte di coloro che ne sono esclusi. La ricchezza cioè esige la povertà... è una storia vecchia. Le periferie del mondo sono piene di gente affollata nelle baraccopoli delle grandi metropoli, di gente che ha reciso i legami con la propria terra ed è stata costretta ad emigrare. Sono quelle che Zigmunt Bauman chiamava efficacemente le vite di scarto, i soggetti ingombranti di questa civiltà dei rifiuti. Intanto una classe di pochi privilegiati ingrassa sulla distruzione e la miseria del mondo. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo procede di pari passo allo sfruttamento dell’uomo sulla natura, la cui distruzione si configura ovviamente necessaria per la sopravvivenza di un modello di sviluppo fondato sulla corsa irrefrenabile al saccheggio delle risorse naturali, per produrre beni che a loro volta infittiscono i danni all’ambiente. Questo modello è ben rappresentato dalla selvaggia crescita economica della Cina, in meno di un decennio, che come un incubo ha ricalcato lo sviluppo moderno del capitalismo industriale che si era protratto in Occidente in un lungo arco di tempo. Questo modello di sviluppo economico ha in sé ancheuna sua valenza ideologica fondata su alcune assunzioni di base. Si prevede che l’uomo debba vivere in megalopoli affollate e inquinate, che si debba costruire e cementificare sempre di più, che non ci sia limite al reperimento delle risorse naturali, che la natura sia qualcosa di cui disporre a nostro piacimento, che il lavoratore non sia altro che un manichino che debba lavorare come una bestia per ore e ore; che nel consumismo si realizzano le aspirazioni fondamentali delle persone. La nostra civiltà dominata dalla tirannia si rivolge così allo stesso tempo contro l’uomo e contro la natura. Il modello di sviluppo economico dominante è fondato sull’anarchia del libero mercato, sullo strapotere delle multinazionali, sulla fine di ogni tipo di criterio razionale nella gestione delle risorse naturali. Già è opinione di molti studiosi che l’uomo ormai debba adattarsi ad un mondo che sta cambiando, un mondo caratterizzato dall’avvento della catastrofe ambientale, il che configura uno scenario davvero apocalittico. L’idea di progresso viene quindi a scemare. Ma l’avvento della crisi ambientale schiaccia per sempre le nostre illusioni. La coscienza che ormai alcuni danni sono irreparabili e avranno conseguenze nel futuro immediato sminuisce in qualche modo la fede nella speranza in un mondo e in un uomo nuovo. L’idea utopica permeata dall’ideologia del progresso di un “regno della libertà”, di un mondo migliore emancipato da guerra e sfruttamento rimane sempre attuale e necessaria, ma perde forza, perde quell'alone di grandezza e luminosità che la circondava in passato, di fronte alla gravità della crisi ecologica. I dati parlano chiaro: senza cambiamenti immediati il riscaldamento globale aumenterà la sua intensità. Invece dell’ altro mondo possibile vediamo stagliarsi le ombre minacciose della distruzione che incombono sul destino di tutti gli esseri viventi. Se anche venissero apportati dei mutamenti nella struttura del sistema economico le conseguenze degli sconvolgimenti attuali non potrebbero essere invertite, se non fra centinaia d’anni. Ciò che possiamo fare è solo evitare che si producano gli effetti più nefasti. Anche in presenza di cambiamenti decisivi a livello politico nei prossimi decenni non si può più tornare indietro. Il mondo non sarà più lo stesso. L’uomo del futuro forse si abituerà agli sfaceli che verranno. Forse ci sarà una mutazione antropologica e l’uomo si adatterà a vivere ancora meglio nel mondo artificioso e artificiale che si è costruito attorno come un guscio protettivo. Non farà forse più caso a ciò che mancherà sulla terra, come le estese foreste del passato o i ghiacci perenni che avvolgevano le montagne. Accetterà come la norma le estati torride e gli uragani che spazzano via ogni cosa. Si adatterà con l’aiuto della tecnologia. Non gli importerà degli animali selvatici che un tempo solcavano i cieli e le acque della terra, non darà più importanza agli spettacoli mozzafiato della natura a cui ancora oggi si può assistere. Di sicuro la prospettiva non è allettante, anzi, a dir poco parecchio squallida. Coloro che si impegnano per trasformare la società devono abituarsi e adattarsi al destino di un mondo sconvolto dalla crisi ambientale. Non ci resta che lottare caparbiamente affinché si possa salvare il salvabile. Questa prospettiva lascia poco spazio ai sogni del passato su un avvenire splendido e luminoso per l’umanità. Svanisce per sempre l’ideale post – illuminista del progresso, seppellito dalle macerie della civiltà capitalistica. Solo fino ad un certo punto si potrà abolire lo stato di cose presente. Le cose potrebbero cambiare solo con una profonda trasformazione dell’economia e con politiche esclusive determinate a riparare, con l’aiuto di tecnologie sofisticate, i danni enormi prodotti all’ambiente naturale. Ma abbiamo ormai poco tempo. Ciò sarà possibile solo con un mutamento profondo della nostra visione del mondo. Il conflitto oggi estremizzato dell’uomo con la natura è il frutto di una determinata mentalità, che non casca dal cielo ma nasce direttamente con la proprietà privata e l’evoluzione del capitalismo. Ma dove risiede la sostanza di questo problema epocale? L’ideologia della civiltà occidentale (a cui non è immune nemmeno l’intellighenzia di sinistra) ha sempre considerato l’uomo il centro del mondo. La visione dominante dei nostri tempi è stata ed è antropocentrica. Questa visione è viziata da un errore di fondo: il fatto di non aver mai voluto vedere, che l’uomo è parte della natura (come invece notava Engels acutamente centocinquanta anni fa). All’uomo non tutto è permesso proprio in quanto egli appartiene ad un equilibrio nel quale sono inserite tutte le specie viventi. L’immagine propagandata dalla modernità è quella di un uomo il quale ha pensato invece che tutto fosse possibile, che egli fosse un essere superiore rispetto agli altri esseri viventi, che potesse disporre di tutto e di tutti. Il paradosso dell’antropocentrismo risiede proprio nel fatto che nel corso dello sviluppo storico l’uomo, nel suo eccesso di megalomania, ha pensato con potersi rivolgere contro la natura, ma facendo ciò non ha fatto altro che rivolgersi contro se stesso: proprio perché alla fine dei conti noi non siamo esterni alla natura ma parte di essa; ogni danno fatto alla natura lo facciamo di conseguenza a noi stessi. La prospettiva opposta a quella antropocentrica è quella ecocentrica, una prospettiva culturale, etica e sociale che non può trovare uno spazio reale nel sistema socioeconomico attuale. Si possono cambiare le cose cambiando il modo di pensare della gente? Mi pare proprio di no. Resta valida l'affermazione di Marx, secondo cui "non è la coscienza che determina l'essere, ma l'essere che determina la coscienza". Senza una rivoluzione che spazzi via il marcime della società attuale sarà impossibile salvare sebbene in extremis, il pianeta. Senza un cambiamento nelle strutture produttive della società ogni nostro tentativo sarà vano. Cos'è l'ecocentrismo? Esso fa riferimento ad una convivenza pacifica e armonica con la natura e i suoi cicli biologici, nella convinzione che dalla natura possiamo prendere quello che ci serve, ma solo il necessario per soddisfare i nostri bisogni vitali. Secondo questa visione del mondo l’uomo non è un essere creato da un Dio e così superiore da meritarsi l’anima dopo la morte o il paradiso, come vogliono il cristianesimo e le altre religioni monoteiste, ma un essere come gli altri, sicuramente diverso, ma che deve obbedire come gli altri esseri alle leggi imposte dalla natura e non oltrepassare certi limiti. Nella prospettiva ecocentrica l’uomo è così legato agli altri esseri viventi, ne dipende, è inserito in una rete di relazioni biologiche in cui ogni elemento influisce sull’altro e ne viene a sua volta influenzato. L’uomo ecocentrico ha un profondo rispetto per gli altri esseri viventi e per le stesse forze naturali come il vento, l’aria e l’acqua. La cultura non si pone in antagonismo con la natura ma cerca l’equilibrio con essa. Era questa la visione ecologica dei popoli disprezzati per secoli come “primitivi”, i popoli tribali (Marx , a proposito di questi popoli, aveva parlato giustamente di “comunismo primitivo”). L’uomo non può così fare a meno della natura, perché ne dipende ed ogni contaminazione e manipolazione della natura non può che ritorcersi anche contro l’umanità. La prospettiva di Marx era “socialismo o barbarie”. Il socialismo non è stato mai realizzato … riusciremo ad evitare la barbarie imminente?
Nella mia esperienza di escursionista ho percorso quasi sempre i sentieri del nostro Pollino da solo. Non che io sia un orso solitario che rifiuta la compagnia. Il fatto è che non ho mai trovato una persona con cui fare coppia fissa in montagna e che fosse disposto ad affrontare con me escursioni un pò più impegnative. Un pò per scelta e un pò per costrizione sono così diventato un trekker solitario. Andare da solo per sentieri che atraversano posti selvaggi ed incontaminati mi ha comunque sempre affascinato... Le escursioni pù belle e significative che ho fatto sono state perciò quelle che ho compiuto in solitara. Se poi si vuole imparare davvero a conoscere bene la labirintica rete di sentieri che si snoda sul Pollino è molto meglio andare da soli. L'imbocco di un sentiero, la conformazione di un certo posto, si ricordano meglio se li si è percorsi da soli... Ovviamente tutti i manuali di trekkking e ogni guida vi sconsiglieranno di andare da soli, ed è giusto che lo facciano. Il Pollino è un territorio selvaggio e spesso i sentieri non sono ben segnalati... oltre poi ai tracciati segnati sulle cartine si snodano e si sovrappongono numerosi sentieri di pastori la cui traccia a a volte si perde nel bosco fitto. A me è capitato di smarrire la strada in posti in cui ero stato decine di volte. Perciò ci si può avventurare da soli solo dopo avere acquistato una certa dimestichezza con i posti. Io non ho mai seguito la regola generale che impone di non andare da soli ma il mio è un caso a parte. Ognuno fa quel che vuole e si assume le responsabilità delle proprie azioni. Dicevo che ho sempre provato sensazioni di euforia e libertà trovandomi da solo in mezzo alla natura selvaggia e scoprendo di volta in volta posti in cui non ero ancora stato. Andare da soli significa davvero mettere alla prova se stessi, fronteggiare le situazioni nuove, stare attenti e vigili per evitare le situazioni spiacevoli (smarrire un sentiero, cadere e farsi male, bagnarsi i piedi in mezzo alla neve, fare ritardo e tornare in pieno buio). Quando si è soli si ha come riferimento solo se stessi e la natura che ci circonda, la quale diventa l'unico interlocutore con cui poter interagire attraverso le visioni e le suggestioni che essa ci regala , ma anche con i suoi ostacoli, i suoi impedimenti; perchè la montagna è anche un terreno dove entra in gioco la fisicità pura, lo sforzo fisico teso a spostare avanti i limiti della nostra resistenza. La montagna ci mette alla prova, nel corpo e nello spirito. Andare da soli è poi un antidoto contro quelle che sono ancora oggi paure ataviche e spesso inconsistenti, paure sopravvenute con la frenetica vita nelle città, con le sue comodità e il suo stile di vita artificiale... aver paura del buio, ad esempio, di un posto ignoto e sperduto, di animali selvaggi, di farsi male, aver paura della solitudine e del silenzio. Anche se i pericoli ovviamente esistono, con la pratica dell'esperienza in montagna e percorrendone da soli i suoi anfratti più selvaggi e maestosi, la paura svanisce e subentra l'esaltazione della libertà e della vitalità pura, il richiamo di quegli istinti primordiali che ci legano al mondo naturale. Essere soli al cospetto di forze ed elementi naturali è l'aspetto più profondo della wilderness, dell'interazione con i luoghi selvaggi. La scelta di luoghi inaccessibili su cui ritirarsi ha poi sempre ispirato i mistici (come gli yogin tibetani che si costruivano delle cellette nei posti più impervi dell'Himalaya) , gli uomini votati all'iniziazione. Quanto alla solitudine, essa è poi un aspetto che richiama sempre la ricerca di sè, la meditazione e l'introspezione al cospetto di ciò che gli Indiani d'America chiamavano il "Grande Mistero". Forse potremmo azzardare l'idea che questo desiderio di scegliere la montagna e la natura in generale come luogo nel quale sperimentare la ricerca di se stessi sopravvive anche nella società tardo-moderna. Il trekking e l'alpinismo in luoghi selvaggi e incontaminati non si esauriscono così in pratiche meramente ludiche e sportive, ma in essi confluiscono significati e spinte interiori più profondi. Ma questo vale solo per coloro i quali pensano che l'amore per la montagna non si identifica con vallate affollate di persone rivestite di gore-tex, con impianti di risalita, alberghi in alta quota e neve artificiale, ma ha a che fare con più elevati i quali si oppongono frontalmente a quelli alienanti e massificanti della società dei consumi...
Per chi è appassionato di montagna e di natura in generale, sarà successo a volte, nelle proprie escursioni a contatto della natura selvaggia di avere la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di sublime e di elevato, che va oltre i semplici canoni di giudizio estetico con cui guardiamo e “ritagliamo” parte della natura, in base ai nostri modelli culturali. Forse è un dato di fatto che popoli e culture diverse nel tempo e nello spazio hanno sempre guardato con soggezione e con un senso di rispetto a montagne, rocce, colline. Basti pensare alle montagn sacre dei Tibetani secondo i quali “le montagne sacre sono i dei del paese o i signori del luogo; sono considerate ora i pilastri del cielo ora i pioli della terra”; basta pensare all’inviolata Kailash, considerata la montagna più sacra del Tibet, alla quale viene dedicato ogni anno un pellegrinaggio che si snoda attorno ad essa… La società occidentale capitalistica assume qualsiasi cosa in termini economicistici. Il lavoratore ad esempio non è un individuo con un suo mondo interiore e con le sue potenzialità creative, ma un mezzo da utilizzare nella produzione, da sfruttare e che comporti il minor costo possibile. Così anche l’ambiente naturale, il quale non è guardato come qualcosa che ha un valore in sé, ma come una risorsa da utilizzare comunque in qualche maniera. Il paradosso è che anche la salvaguardia dell’ambiente e la creazione dei Parchi Nazionali se vista solo come occasione per sfruttare l’ambiente dal punto di vista turistico può portare a conseguenze nefaste: nel tentativo di voler valorizzare l’ambiente così lo si può anche deturpare. Esempi di questo atteggiamento ne abbiamo tanti. In molte aree delle Alpi l’ambiente alpino originario è stato abbruttito e cementificato con alberghi, strade e impianti di risalita, secondo quello che viene definito dai sociologi “urbanizzazione della montagna”. La montagna non è più tale, perché per essere fruibile da certa gente bisogna trasferire su di essa tutte le comodità della città. Così c’è bisogno dell’impianto di risalita, della funivia, della strada che porta all’impianto sciistico, perché la gente non vuole camminare, dell’albergo a cinque stelle d’alta quota, perché il turista dei tempi moderni non si accontenta dell’alberghetto dei paesini di montagna o del rifugio costruito con pietre e travi di legno. Ovviamente ci sono molte altre zone d'Italia dove le montagne non hanno fatto questa tragica fine. Ma anche nei parchi nazionali spesso ha luogo la costruzione di strutture finalizzate ad attrarre i turisti che alla fine non fanno altro che deturpare i paesaggi originari delle montagne. Spesso si sente parlare di valorizzazione. Ma questo termine può avere significati assai diversi, con le rispettive implicazioni e conseguenze. Anche la valorizzazione ambientale ai soli fini turistici è economica. E’ ovvio che un parco nazionale debba anche creare occasioni di sviluppo economico, ma lo sviluppo deve obbligatoriamente conciliarsi con la tutela dell'ambiente. Ciò significa che bisogna anteporre innanzitutto il valore intrinseco della natura, il valore in sé, al valore prettamente economico. Chi ha interiorizzato il valore opposto a quello utilitaristico, sa che per andare in montagna non servono né impianti, né strade né funivie. Servono un paio di buone scarpe da trekking, uno zaino e una tenda, e la voglia di stare a contatto con una natura non sopraffatta dall’alterazione delle attività umane più distruttive. La questione investe il campo dei valori ed è quindi di natura culturale. In una società come la nostra, dominata dall’individualismo più sfrenato e da una cieca volontà distruttiva intrinseca al sistema socio-economico attuale, per cui ogni cosa ha un valore solo in termini economici, l’ambiente naturale è solo una “risorsa”, (termine quest’ultimo che difatti ha origine nella scienza economica). Chi come me si è trovato a fare discorsi del genere con alcune persone è stato bollato (anche a fin di bene) come un “romantico”, un “idealista”, un “sognatore”. In un’epoca circondata dallo squallore di una vita passata nel traffico e nell’affollamento delle città, dove i bambini non hanno mai visto una farfalla o uno scoiattolo, nella quale anche le vacanze sono organizzate secondo i ritmi frenetici della vita moderna, appellativi del genere non possono che rallegrarci. Tuttavia la questione non riguarda il “romanticismo” ma cose ben più concrete. Il problema dell’inquinamento oggi sta investendo tutta la società mondiale. Stiamo finalmente cominciando a capire che i ghiacciai si stanno sciogliendo ed essi non rappresentano un valore solo per qualche alpinista “romantico”, ma sono importanti per l’equilibrio del sistema climatico mondiale. Oggi l’uomo comincia a provare sulla propria pelle come qualsiasi danno fatto alla natura ricade su se stesso, sulla propria vita materiale. I popoli bollati come “primitivi” avevano capito che invece la natura va rispettata, non tanto perché rappresenta qualche divinità da onorare, ma perché noi siamo parte di essa e qualsiasi danno fatto alla natura lo facciamo a noi. Distruggere e alterare l’ambiente naturale significa poi privarci di un riferimento che è pregno di valori simbolici e culturali e che riguarda il cordone ombelicale che ci lega alla terra e agli altri esseri viventi. Come potremmo fare a meno di un paesaggio infinito fatto di montagne incontaminate, o di foreste dagli alberi secolari o della varietà di animali dai colori e dalle forme innumerevoli? Senza la natura l’uomo diviene più povero interiormente, viene slegato da quello che era il suo ambiente primordiale cioè l’ambiente in senso proprio, fatto di alberi, fiumi, animali,montagne e introdotto in un ambiente artificiale dove predomina il cemento e l’elettricità, file di auto impazzite e un cielo che di notte diventa rosso per lo smog. Il ritorno alla natura, e quindi anche ad uno stile di vita che non crei un impatto distruttivo per l’ambiente e più in armonia con i cicli naturali, rappresenta un’inversione di tendenza irrinunciabile rispetto al trend attuale della fuga nelle megalopoli del mondo, dello spreco energetico, dell’inquinamento della terra. Il riferimento alla natura rappresenta anche l’occasione di una sorta di recupero del concetto di “sacro”, proprio delle culture tribali, degli Indiani d’America e di tanti altri popoli che vivono ancora allo stato “primitivo”. Il termine è denso riferimenti alla religione e alla religiosità e quindi non va usato a vanvera. Tuttavia anche oggi “sacro” potrebbe però benissimo riferirsi ad alberi, montagne, deserti, animali, a qualcosa di animato o inanimato, degno di rispetto e ammirazione in quanto parte di questo mondo, in quanto elemento inserito nella dinamica del divenire cosmico, genuino, libero dalle alterazioni della modernità. E’un concetto che useremo in un’accezione che riguarda propriamente la natura selvaggia e pertanto è intercambiabile con quello di “sublime”, “elevato” “di un valore supremo”. E’ ovviamente un’accezione che ha implicazioni filosofiche più che religiose. Ciò a cui io penso non riguarda il soprannaturale, ma la stessa materia, gli elementi nel loro stato originario: acqua, terra, fuoco, aria…libere dalle contaminazioni umane (perchè sebbene l'uomo faccia parte della natura è anche vero ma è l'unico essere che è riuscito ad alterarla profondamente nel corso dello sviluppo della civiltà). Non si può dire che un paesaggio sia solo “bello”, perché la natura non è un’opera d’arte fissa su un muro, ma qualcosa di vivente, che cambia, si trasforma, in un cerchio ciclico che implica un perenne ritorno, il quale rappresenta la dinamica i cui si produce il mutamento attraverso le stagioni. La natura è qualcosa con cui si può venire in contatto e che può essere vista da varie prospettive. C’è stato un tempo in cui le comunità umane vivevano in armonia con la natura, sottraendole ciò che bastava per le esigenze della propria cultura. Non si può e non si deve tornare all’età della pietra, ma bisognerebbe recuperare, in modalità ovviamente diverse, proprio quel senso di rispetto e venerazione per l’ambiente naturale che caratterizzava le culture di un tempo. Gli esquimesi hanno sempre cacciato la foca, ma appena catturato un esemplare, si scusavano con lo spirito dell’animale per avere compiuto quel gesto. Si cacciavano le foche necessarie a sopravvivere.Oggi ancora c’è la caccia alle foche, organizzata secondo metodi industriali, per il profitto e la distribuzione su grossa scala. E c’è da ridere se si pensa che alcuni ambientalisti integralisti hanno lottato per impedire di cacciare le foche agli esquimesi odierni… Lo stesso esempio si può fare per il bisonte, che rischiò alla fine dell’ottocento di estinguersi, per la caccia smodata che venne praticata a quest’animale. Gli Indiani utilizzavano il bisonte come fonte di cibo e di vestiario, mentre gli occidentali prelevavano solo la pelliccia lasciando le carcasse a marcire sotto il sole della prateria. Per gli Indiani non era solo un ammasso di carne, ma un animale sacro come del resto tutti gli altri animali che popolavano i boschi e le praterie. Questi popoli avevano acquisito quella profonda coscienza del legame che ci unisce a tutti gli esseri viventi e alla terra. E’ vero che la società sta prendendo coscienza del problema dei disastri ambientali. Se ne parla tutti i giorni in tv e sui giornali. Ma non si fa nulla per cambiare le cose. Il potere economico e politico resta nelle mani di una classe di privilegiati la quale non è per nulla intenzionata a invertire la rotta disastrosa che l’umanità ha preso. Si può ribaltare la situazione solo se ritroveremo la forza di cambiare la società e ricostruire da capo su nuove basi un sistema diverso, che ci permetta di ricreare quel legame che ci lega indissolubilmente alla "Grande Madre Terra".