martedì 3 aprile 2007

Un recupero della sacralità della natura

Per chi è appassionato di montagna e di natura in generale, sarà successo a volte, nelle proprie escursioni a contatto della natura selvaggia di avere la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di sublime e di elevato, che va oltre i semplici canoni di giudizio estetico con cui guardiamo e “ritagliamo” parte della natura, in base ai nostri modelli culturali. Forse è un dato di fatto che popoli e culture diverse nel tempo e nello spazio hanno sempre guardato con soggezione e con un senso di rispetto a montagne, rocce, colline. Basti pensare alle montagn sacre dei Tibetani secondo i quali “le montagne sacre sono i dei del paese o i signori del luogo; sono considerate ora i pilastri del cielo ora i pioli della terra”; basta pensare all’inviolata Kailash, considerata la montagna più sacra del Tibet, alla quale viene dedicato ogni anno un pellegrinaggio che si snoda attorno ad essa… La società occidentale capitalistica assume qualsiasi cosa in termini economicistici. Il lavoratore ad esempio non è un individuo con un suo mondo interiore e con le sue potenzialità creative, ma un mezzo da utilizzare nella produzione, da sfruttare e che comporti il minor costo possibile. Così anche l’ambiente naturale, il quale non è guardato come qualcosa che ha un valore in sé, ma come una risorsa da utilizzare comunque in qualche maniera. Il paradosso è che anche la salvaguardia dell’ambiente e la creazione dei Parchi Nazionali se vista solo come occasione per sfruttare l’ambiente dal punto di vista turistico può portare a conseguenze nefaste: nel tentativo di voler valorizzare l’ambiente così lo si può anche deturpare. Esempi di questo atteggiamento ne abbiamo tanti. In molte aree delle Alpi l’ambiente alpino originario è stato abbruttito e cementificato con alberghi, strade e impianti di risalita, secondo quello che viene definito dai sociologi “urbanizzazione della montagna”. La montagna non è più tale, perché per essere fruibile da certa gente bisogna trasferire su di essa tutte le comodità della città. Così c’è bisogno dell’impianto di risalita, della funivia, della strada che porta all’impianto sciistico, perché la gente non vuole camminare, dell’albergo a cinque stelle d’alta quota, perché il turista dei tempi moderni non si accontenta dell’alberghetto dei paesini di montagna o del rifugio costruito con pietre e travi di legno. Ovviamente ci sono molte altre zone d'Italia dove le montagne non hanno fatto questa tragica fine. Ma anche nei parchi nazionali spesso ha luogo la costruzione di strutture finalizzate ad attrarre i turisti che alla fine non fanno altro che deturpare i paesaggi originari delle montagne. Spesso si sente parlare di valorizzazione. Ma questo termine può avere significati assai diversi, con le rispettive implicazioni e conseguenze. Anche la valorizzazione ambientale ai soli fini turistici è economica. E’ ovvio che un parco nazionale debba anche creare occasioni di sviluppo economico, ma lo sviluppo deve obbligatoriamente conciliarsi con la tutela dell'ambiente. Ciò significa che bisogna anteporre innanzitutto il valore intrinseco della natura, il valore in sé, al valore prettamente economico. Chi ha interiorizzato il valore opposto a quello utilitaristico, sa che per andare in montagna non servono né impianti, né strade né funivie. Servono un paio di buone scarpe da trekking, uno zaino e una tenda, e la voglia di stare a contatto con una natura non sopraffatta dall’alterazione delle attività umane più distruttive. La questione investe il campo dei valori ed è quindi di natura culturale. In una società come la nostra, dominata dall’individualismo più sfrenato e da una cieca volontà distruttiva intrinseca al sistema socio-economico attuale, per cui ogni cosa ha un valore solo in termini economici, l’ambiente naturale è solo una “risorsa”, (termine quest’ultimo che difatti ha origine nella scienza economica). Chi come me si è trovato a fare discorsi del genere con alcune persone è stato bollato (anche a fin di bene) come un “romantico”, un “idealista”, un “sognatore”. In un’epoca circondata dallo squallore di una vita passata nel traffico e nell’affollamento delle città, dove i bambini non hanno mai visto una farfalla o uno scoiattolo, nella quale anche le vacanze sono organizzate secondo i ritmi frenetici della vita moderna, appellativi del genere non possono che rallegrarci. Tuttavia la questione non riguarda il “romanticismo” ma cose ben più concrete. Il problema dell’inquinamento oggi sta investendo tutta la società mondiale. Stiamo finalmente cominciando a capire che i ghiacciai si stanno sciogliendo ed essi non rappresentano un valore solo per qualche alpinista “romantico”, ma sono importanti per l’equilibrio del sistema climatico mondiale. Oggi l’uomo comincia a provare sulla propria pelle come qualsiasi danno fatto alla natura ricade su se stesso, sulla propria vita materiale. I popoli bollati come “primitivi” avevano capito che invece la natura va rispettata, non tanto perché rappresenta qualche divinità da onorare, ma perché noi siamo parte di essa e qualsiasi danno fatto alla natura lo facciamo a noi. Distruggere e alterare l’ambiente naturale significa poi privarci di un riferimento che è pregno di valori simbolici e culturali e che riguarda il cordone ombelicale che ci lega alla terra e agli altri esseri viventi. Come potremmo fare a meno di un paesaggio infinito fatto di montagne incontaminate, o di foreste dagli alberi secolari o della varietà di animali dai colori e dalle forme innumerevoli? Senza la natura l’uomo diviene più povero interiormente, viene slegato da quello che era il suo ambiente primordiale cioè l’ambiente in senso proprio, fatto di alberi, fiumi, animali,montagne e introdotto in un ambiente artificiale dove predomina il cemento e l’elettricità, file di auto impazzite e un cielo che di notte diventa rosso per lo smog. Il ritorno alla natura, e quindi anche ad uno stile di vita che non crei un impatto distruttivo per l’ambiente e più in armonia con i cicli naturali, rappresenta un’inversione di tendenza irrinunciabile rispetto al trend attuale della fuga nelle megalopoli del mondo, dello spreco energetico, dell’inquinamento della terra. Il riferimento alla natura rappresenta anche l’occasione di una sorta di recupero del concetto di “sacro”, proprio delle culture tribali, degli Indiani d’America e di tanti altri popoli che vivono ancora allo stato “primitivo”. Il termine è denso riferimenti alla religione e alla religiosità e quindi non va usato a vanvera. Tuttavia anche oggi “sacro” potrebbe però benissimo riferirsi ad alberi, montagne, deserti, animali, a qualcosa di animato o inanimato, degno di rispetto e ammirazione in quanto parte di questo mondo, in quanto elemento inserito nella dinamica del divenire cosmico, genuino, libero dalle alterazioni della modernità. E’un concetto che useremo in un’accezione che riguarda propriamente la natura selvaggia e pertanto è intercambiabile con quello di “sublime”, “elevato” “di un valore supremo”. E’ ovviamente un’accezione che ha implicazioni filosofiche più che religiose. Ciò a cui io penso non riguarda il soprannaturale, ma la stessa materia, gli elementi nel loro stato originario: acqua, terra, fuoco, aria…libere dalle contaminazioni umane (perchè sebbene l'uomo faccia parte della natura è anche vero ma è l'unico essere che è riuscito ad alterarla profondamente nel corso dello sviluppo della civiltà). Non si può dire che un paesaggio sia solo “bello”, perché la natura non è un’opera d’arte fissa su un muro, ma qualcosa di vivente, che cambia, si trasforma, in un cerchio ciclico che implica un perenne ritorno, il quale rappresenta la dinamica i cui si produce il mutamento attraverso le stagioni. La natura è qualcosa con cui si può venire in contatto e che può essere vista da varie prospettive. C’è stato un tempo in cui le comunità umane vivevano in armonia con la natura, sottraendole ciò che bastava per le esigenze della propria cultura. Non si può e non si deve tornare all’età della pietra, ma bisognerebbe recuperare, in modalità ovviamente diverse, proprio quel senso di rispetto e venerazione per l’ambiente naturale che caratterizzava le culture di un tempo. Gli esquimesi hanno sempre cacciato la foca, ma appena catturato un esemplare, si scusavano con lo spirito dell’animale per avere compiuto quel gesto. Si cacciavano le foche necessarie a sopravvivere.Oggi ancora c’è la caccia alle foche, organizzata secondo metodi industriali, per il profitto e la distribuzione su grossa scala. E c’è da ridere se si pensa che alcuni ambientalisti integralisti hanno lottato per impedire di cacciare le foche agli esquimesi odierni… Lo stesso esempio si può fare per il bisonte, che rischiò alla fine dell’ottocento di estinguersi, per la caccia smodata che venne praticata a quest’animale. Gli Indiani utilizzavano il bisonte come fonte di cibo e di vestiario, mentre gli occidentali prelevavano solo la pelliccia lasciando le carcasse a marcire sotto il sole della prateria. Per gli Indiani non era solo un ammasso di carne, ma un animale sacro come del resto tutti gli altri animali che popolavano i boschi e le praterie. Questi popoli avevano acquisito quella profonda coscienza del legame che ci unisce a tutti gli esseri viventi e alla terra. E’ vero che la società sta prendendo coscienza del problema dei disastri ambientali. Se ne parla tutti i giorni in tv e sui giornali. Ma non si fa nulla per cambiare le cose. Il potere economico e politico resta nelle mani di una classe di privilegiati la quale non è per nulla intenzionata a invertire la rotta disastrosa che l’umanità ha preso. Si può ribaltare la situazione solo se ritroveremo la forza di cambiare la società e ricostruire da capo su nuove basi un sistema diverso, che ci permetta di ricreare quel legame che ci lega indissolubilmente alla "Grande Madre Terra".

1 commento:

  1. Il recupero della Natura deve passare attraverso
    una forma spirituale.
    "Tutto è sensibile, tutto è pervaso di Anima."

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