martedì 21 ottobre 2008

Racconti - Guerra di lupi

(ispirato alla figura di mio nonno, di cui porto il nome)

La notte ha invaso la foresta portando col buio l’aria gelida del crepuscolo. I due pastori sono accampati in una radura in mezzo ai faggi. Hanno acceso un fuoco per ripararsi dal freddo. Il bagliore del fuoco è un fascio di luce abbagliante che dipinge di rosso i tronchi dei faggi. Faville di luce volano disperdendosi tra i cespugli. Ombre scure si aggirano tutt’intorno come spettri. Trascorrono la notte assieme alle mucche e ai loro cani mastini. Lontane sono le loro case, giù al villaggio situato nella valle. Le loro mogli non sanno cos’è l’apprensione. Per questi uomini la montagna è una casa all’aria aperta. E’ normale che stiano qui. E’ tra queste distese fatte di pascoli e boschi, terreni arati, sorgenti e sentieri che si svolge la loro vita. Ogni posto qui ha un nome e una storia; non c’è un fazzoletto di terra su cui i pastori non abbiano posato i loro piedi callosi. La fibra di questi uomini sembra fatta della stessa materia della montagna. Hanno volti spigolosi come rocce e membra nodose come i rami di un albero secolare. Un po’ di pane e lardo, qualche pera, l’acqua delle sorgenti montane, basta a questi pastori per affrontare giornate intere sui pascoli d’alta quota. La loro vita sembrava destinata a non mutare, come non muta il tramontare del sole e l’avvicendarsi delle stagioni. Ma la Storia un giorno li ha strappati a quell’ esistenza chiusa tra villaggi, sentieri di montagna e ovili per catapultarli in una distesa infinita, da invadere attraverso schiere di uomini in divisa. Lo Stato, questo strano dio che esige sacrifici di sangue, li ha spediti al fronte per tre anni. Tre anni via da queste montagne, in un mondo tutto nuovo, per certi versi incomprensibile. Nuove terre, grandi città, distese desertiche e gelate, lingue e dialetti mai ascoltati prima. L’incontro con un nuovo mondo creato da divise e battaglioni, con cui travestire e nascondere la volontà di uomini inconsapevoli. E poi il tuono della battaglia, il rumore assordante dell’artiglieria, i fulmini di fuoco dei cannoneggiamenti, i corpi sfregiati dai proiettili, le granate, le urla, il sangue sulla neve e quel freddo che penetrava nelle ossa… il gelo tagliente della steppa. La morte che sorrideva beffarda, sempre in agguato ma sempre inaspettata. Essi non capivano. Come attori inconsapevoli erano parte di quello spettacolo. Al fronte la scena era occupata dalle forze titaniche di un regno infernale, che si materializzava sulla terra come un incubo recondito della storia. Il loro buon senso contadino era un residuo del tempo che fu ed essi uccidevano e morivano nell’insensatezza delle proprie azioni. Ma la montagna ha affogato questi tre anni nel ritorno alla vita di sempre. Il paese, i figli, le stagioni e i il lavoro paziente del contadino… lavori diversi per ogni stagione. L’aratura, i raccolti, e la neve dell’inverno, che addormenta i villaggi avvolgendoli in una distesa bianca e silenziosa. Ma quei ricordi sono ferite laceranti, che il silenzio e la muta bellezza di queste valli non riusciranno a rimarginare. Stanno parlando proprio della loro guerra i due pastori. Stare attorno al fuoco aiuta a rievocare quegli eventi terribili; e il suo calore rassicurante sembra quasi renderli meno dolorosi… La serenità del fuoco e la calma della notte sono però interrotti da qualcosa. Dei guaiti squarciano il silenzio della notte. Li conoscono ormai, ci sono abituati, ma ne sono sempre spaventati. Sembrano urla imploranti, ed è come se giungessero da qualche dimensione oscura della foresta. Un ignoto che non si può comprendere. Sono gli ululati e i guaiti del branco dei lupi, che attaccano la mandria. I cani digrignano i denti; all’odore e ai richiami di quel mondo selvaggio, hanno rizzato il pelo, seguendo un istinto di alleanza con gli uomini che si perde nei millenni. I due giovani pastori accorrono subito. Gli occhi dei lupi brillano nell’oscurità, il bestiame muggisce spaventato. I pastori cominciano a tirare sassi verso i lupi… Le pietre arrivano a tiro ma i lupi non vogliono lasciare la preda. Nonostante abbiano paura di quegli uomini non intendono fuggire. I loro guaiti si sono fatti angoscianti. Questa notte non vogliono proprio andarsene. Sembrano reclamare disperatamente la loro parte di sangue, la carne viva, che sola può acquietare la loro fame. Mentre lancia sassi e pezzi di legno, uno dei pastori vede ancora le immagini della guerra. Quei guaiti angoscianti sono urla di soldati, i battaglioni sono tanti branchi pronti ad assaltare, le grigie divise sono pellicce di lupo, la veste funeraria del soldato… e i militi sono bestie affamate e aggressive che si aggirano nelle bianche e anonime distese di neve. Nella sua mente affiora come un lampo inaspettato l’immagine di un vagone di soldati. In quel vagone c’erano tredici compagni. Avevano dormito là dentro affrontando una nottata con quaranta, cinquanta gradi sotto lo zero. Quando giunse l’alba gli unici a non avere le gambe congelate erano lui e altri due compagni. Era sopravvissuto, perché era forte, era montanaro, abituato al freddo come i lupi che gli stavano davanti. Viveva in quella terra percorsa da lupi e come essi era stato abituato alle asprezze di quella montagna dall’anima indecifrabile, avvolta da un mistero che sembrava tanto antico quanto le rocce. In guerra erano l’istinto e la forza decidere della propria vita o della propria morte. Altra immagine. Una lunga fila di soldati, in marcia sulla pista gelata. Il ghiaccio che si insinuava dappertutto, i compagni che cadevano stremati in mezzo alla neve… Improvviso come allora riappare nella mente un bagliore di fuoco, un’esplosione, il dolore lancinante del ferro che penetra nelle carni: una scheggia di bomba gli aveva lacerato il bicibite, lasciandogli come ricordo una grossa cicatrice… Un lupo si avvicina a lui, ringhiando e guaendo. Sembra minaccioso, è come se l’animale rifiuti di obbedire ai colpi dolorosi delle pietre; reclama la sua parte di quella carne che lo circonda, vuole azzannare alla gola quelle povere mucche e vede quegli uomini accanirsi per difenderle dai loro assalti. Il pastore lancia un grosso sasso che arriva dritto sotto l’occhio del lupo. Il lupo si ritira guaendo dal dolore. Sotto i colpi delle pietre anche gli altri lupi indietreggiano. La battaglia è finita ma i battiti del cuore ignorano la tregua calata in mezzo ai boschi. Il branco si allontana. Il silenzio e l’oscurità hanno inghiottito di nuovo la radura di quell’enorme foresta. La battaglia dei fucili e dei cannoni riecheggia ancora nei ricordi. E’ un’apparizione che si confonde con la battaglia delle zanne, quella che appartiene alla natura di tutti gli esseri. Ma ecco avanzare dei soldati, nelle grigie divise, affannarsi lungo la pista ghiacciata mentre la pioggia di piombo e il gelo sfidano la loro sorte… Alcuni cadono a terra e il tappeto della candida neve si tinge di rosso, recando l’iscrizione di una tomba sperduta nel mondo. E intorno esplode la tempesta di fuoco, scatenata dai collerici dèi umani, mentre nella natura tutto è silenzio e la neve gelata sembra dormire sotto il fragore delle cannonate…

lunedì 6 ottobre 2008

Racconti - Il bacio della buonanotte

(ispirato ad una tragica vicenda realmente accaduta tanti anni fa sulle nostre montagne) Era una giornata strana. C’era un sole che bruciava nel cielo. Quel sole pallido e infuocato che mette in testa strani presagi. Il cielo popolato da nuvole gonfie, che lentamente sorvolavano le valli. Una giornata di inizio ottobre, con il verde della foresta che lentamente sbiadiva facendo posto ai primi bagliori rossastri dell’autunno: l’insieme della scena offriva uno spettacolo di malinconia e desolazione. Le piogge delle scorse settimane erano state abbondanti. La terra asciutta, arsa dal sole dell’estate, finalmente aveva ricevuto il ristoro di tre giorni di pioggia ininterrotta. Il bosco si era rigenerato e con il clima mite dei giorni successivi erano spuntati funghi delle specie più svariate. In poche ore ne erano cresciuti a tonnellate e la voce si era sparsa per i villaggi. Tutti, piccoli e grandi, amavano scovare questi frutti misteriosi della foresta. Molti erano quelli che si divertivano più a cercarli che a mangiarli. Tanti cercavano quell’attimo di infantile contentezza che si prova davanti ad un porcino dal gambo o dal cappello enorme, oppure quando si incontrano gli esemplari di una colonia destinata ad ingrossarsi passo dopo passo. I tre piccoli amici erano entusiasti della notizia. Volevano partire anche loro all’avventura. Volevano tornare con i cesti pieni di funghi. Volevano trovare gli esemplari più grossi per mostrarli ai più grandi, fieri della loro buona raccolta. Decisero di inoltrarsi in un posto dove non erano mai stati; decisero di varcare la linea della foresta di faggio e abete bianco che delimitava il loro piccolo orizzonte. Non avevano mai visto una città, se non nel sussidiario di scuola o in qualche foto di giornale. Erano cresciuti liberi nella campagna, tra boschi e campi arati. Quando non aiutavano i genitori nel lavoro dei campi si divertivano a correre, a salire sugli alberi, a rubare pere e ciliegie nell’orto di qualche contadino. Il loro orizzonte ultimo era costituito da quelle solenni cime, che tra un po’ si sarebbero imbiancate con le prime spruzzate di neve. Avevano guardato quel cielo sereno, inondato dal sole, con quelle rassicuranti nuvole che si spostavano lentamente sotto la spinta di un alito di vento. Ad uno di loro era parso di sentire un tuono, lontano, sommesso. Ma non poteva essere. Era una bella giornata e il tempo sarebbe sicuramente rimasto stabile. Abbandonarono il villaggio sotto gli occhi di qualche contadino che li vide passare. Percorsero dei campi arati e imboccarono una strada che conduceva nella fitta foresta. Quel pomeriggio le nuvole avevano cominciato ad ingrossarsi e l’orizzonte si era colorato di un grigio cupo e minaccioso. Cominciarono a sentirsi i primi tuoni lontani e il cielo cominciò ad essere squarciato dal bagliore elettrico dei fulmini. I contadini sapevano che sarebbe arrivato un grosso temporale, e si sarebbe riversata sulla terra una furiosa pioggia battente. La foresta lontana si era tinta di un blu cupo, quasi a voler riflettere l’umore del cielo in quel momento. L’acquazzone arrivò tempestoso, accompagnato dai bagliori dei fulmini e dal cupo rombo del tuono. La grandine cominciò a battere sui davanzali delle case e il suo tintinnino sembrava bussare alle finestre. La grandine ricordava beffardamente ai contadini che dei piccoli granelli di ghiaccio avrebbero potuto rovinare il frutti del loro lavoro. La pioggia continuò per tutta la notte e portò con sé un’aria fredda, quasi gelida per il periodo. I tre piccoli amici non erano tornati. Non avevano detto dove sarebbero andati. La foresta era un labirinto immenso, con migliaia di possibili percorsi al suo interno. Trovarli sarebbe stato difficile. Si sperava che i tre bambini si fossero riparati in qualche grotta e che tornassero all’alba, quando finalmente avrebbe smesso di piovere. Ma non si vide nessuno scendere dalla stradina che portava verso quei boschi che circondavano il villaggio. Le ricerche cominciarono all’alba. Un sole pallido spuntava lentamente sotto la volta di un cielo brillante, che sembrava essere stato tirato a lucido dall’acquazzone del giorno prima. Una calma serena scendeva lentamente sulle valli e il cinguettio degli uccelli annunciava che la violenza della tempesta era ormai un ricordo, e che la vita ricominciava dall’espandesi di quei raggi di luce rossastra. I boschi si affollarono di gente che gridava i nomi di quei bambini. Gli uccelli spaventati svolazzavano a quegli strani richiami e al rumore provocato dai passi pesanti delle persone. Li avevano trovati. Era un angolo remoto di quella foresta misteriosa, dominata da secolari esemplari di faggio. Il sole aveva cominciato a penetrare quell’oscurità illuminando di bianco, come fa una lanterna nel buio notturno, i rami ed fianchi dei tronchi. Le gocce d’acqua sulle foglie e i rametti brillavano come perle preziose, e così i sottili finimenti delle ragnatele. Accasciati per terra, rannicchiati come piccoli leprotti, stavano i tre piccoli amici. I loro volti erano pallidi, gli occhi chiusi, i vestiti fradici di pioggia. Erano distanti l’uno dall’altro, ognuno appoggiato al suo albero, come se questo avesse potuto dare loro una qualche forma di conforto. Ognuno di essi aveva aspettato la sorte chiuso nella propria solitudine. Si poté solo immaginare cosa fosse successo. Forse avevano smarrito la strada, o forse, sorpresi dalla pioggia si erano fermati. La tempesta e l’oscurità li avevano sorpresi; la pioggia incessante, il freddo e la paura li avevano uccisi. Gli dèi strani della terra quella notte avevano sfogato tutta la loro rabbia ancestrale. I lampi, i tuoni e quel buio angosciante, che aveva la voce del sibilo del vento, si erano riversati con tutta la loro forza sulla foresta, terrorizzando quei bambini dai deboli corpi e dagli animi ancora più indifesi. Era stata proprio la paura ad averli uccisi, più del freddo e dell’acqua. La natura, con la sua forza ambigua e misteriosa, li aveva avvolti nel gelido abbraccio della morte. Più tardi, quando il sole aveva ormai penetrato quell’angolo di foresta, le persone del villaggio trovarono anche i cestini dei tre piccoli amici: erano ricolmi e capovolgendosi, tanti funghi si erano riversati sul tappeto di foglie secche…