lunedì 31 agosto 2009

In Calabria - il Pollino di Vittorio De Seta

il regista Vittorio De Seta - sotto: 1. la copertina del dvd pubblicato da Feltrinelli 2. un'immagine tratta dal corto "Pastori ad Orgosolo"


"Lo sguardo neutrale è una menzogna, specie nel mio lavoro, dove basta spostare la macchina da presa di pochi centimetri perché tutto cambi"
(Vittorio De Seta)

Ultimamente ho avuto la fortuna di scaricare da internet un grande documentario che avevo visto in passato in televisione, ma a metà, ovvero il film In Calabria, del grande cineasta Vittorio De Seta. Di lui ultimamente si è parlato a proposito della pubblicazione in cofanetto, ad opera della Feltrinelli, di una raccolta dei corti che egli girò nel sud negli anni cinquanta, i quali documentano la vita di pastori, pescatori e contadini, spesso a contato con una natura aspra e selvaggia. Il film in questione è piuttosto recente, essendo stato girato nei primi anni '90 e documenta perciò, accanto alla persistenza di attività lavorative ancestrali (come la pastorizia, ad esempio) le conseguenze della incontrollata espansione urbana e dello sviluppo del capitalismo industriale degli scorsi decenni, il cui apice probabilmente fu raggiunto con il "modernismo" degli anni '80. Molte immagini di quel film provengono proprio dalla nostra terra, il Pollino. Sicuramente il film rappresenta una delle pochissime occasioni in cui la macchina da presa di un regista di importanza nazionale come De Seta si sia confrontata con gli ambienti e i paesaggi del Pollino. E' proprio l'asprezza e la magia del Pollino ad aprire e chiudere questo bellissimo film. Nella prima inquadratura vediamo un paesaggio montuoso innevato e desolato, percorso dalla tormenta. C'è solo il silenzio, interrotto solamente dal sibilo del vento... Un gregge. Un pastore con indosso la "cappa", il caratteristico mantello che si portava un tempo, fa cadere la neve dalle ginestre in modo che le capre e le pecore del suo gregge possano cibarsene. Il regista poi mostra la preparazione del formaggio nei casolari. Ma ecco apparire la parete sud-ovest di Timpa di San Lorenzo (ho riconosciuto la zona di Colle Marcione). La macchina da presa poi scende e va ad inquadrare i pascoli ancora innevati e cosparsi di pecore. Altra scena: sullo sfondo di Timpa di San Lorenzo un pastore gioca amichevolmente col suo cane. Intanto, a commentare queste immagini è iniziato un antico ed evocativo canto arberesh lungrese, che farà da colonna sonora all'intero documentario. Sono immagini di grande fascino, che lasciano gli occhi umidi  per l'emozione... Il Pollino calabro apparirà ancora in altre scene: sono da ricordare le inquadrature del convento di Colloreto, le immagini di Laino Castello, il Raganello e Civita, i pini loricati. L'occhio di De Seta fa parlare il paesaggio, si insinua in mezzo alle pecore e alle capre, nei vicoli dei paesini, segue attento le operazioni dei pastori e dei contadini, il lavoro, la loro manualità e gestualità... Quello di De Seta non è un semplice documentario, è il documentario elevato ad opera d'arte: stupenda la fotografia, scene chiare ed essenziali, macchina da presa che alterna la staticità e il movimento, un montaggio che rispecchia le contraddizioni che il film vuole raccontare. De Seta diceva che non si può essere neutrali nel cinema; è infatti il suo film è anche un punto di vista, perchè l'immagine, frutto sempre di una costruzione mentale, è pure una riflessione sul presente. E sono proprio le immagini contrastanti del documentario che ci portano a riflettere su ciò che è avvenuto al sud con l'era dello sviluppo urbano e industriale e le relative contraddizioni. "Può sembrare incredibile, ma in Calabria ci sono persone che vivono ancora come all'origine dei tempi"  così dice il regista all'inizio del film. Ancora, sulle montagne, si ara la terra con l'aratro di ferro e si alleva il bestiame secondo le abitudini del passato (siamo nel 1992...). Sono i lasciti della civiltà contadina che resiste ancora, nonostante tutte le avversità. Nella Calabria contadina l'uomo conduceva una vita di sopravvivenza e di stenti, cercando di strappare ad una natura spesso ostile i mezzi per il proprio sostentamento. Era una realtà di dura fatica e di povertà. Non c'è in De Seta una ingenua esaltazione idilliaca del mondo contadino e delle sue tradizioni, e questo si capisce subito, già dalle prime scene. Il suo è uno sguardo lucido sulle cose e non si cade mai nella tentazione di idealizzare il passato. Del resto tutti i suoi corti hanno sempre voluto raccontare la realtà del lavoro nel sud, sia che si tratti del mare, della montagna o della miniera. Ma ecco che le scene successive del film ci proiettano nella dimensione delle contraddizioni attuali: ruspe al lavoro, l'edilizia sfrenata, gli impianti industriali, le cattedrali nel deserto. La febbre "sviluppista" dell'Italia industriale ha condotto ad un abbaglio, perchè d'un colpo tutto un mondo di tradizioni, di attività, di cultura del territorio, di armonia con i cicli naturali è stato frettolosamente congedato con l'etichetta di "arretratezza". "Le macchine e le fabbriche hanno rappresentato una grande speranza, perchè permettono di dominare la natura,  di alleviare la fatica umana. Ma queste speranze sono andate in gran parte deluse. Gli uomini hanno cominciato a produrre cose che non potevano più fare con le proprie mani e per procurarsele hanno dovuto vendere il loro lavoro. E inoltre la vita  è divenutata incerta, perchè le fabbriche possono chiudere da un momento all'altro, e ancora perchè non sempre producono cose utili a tutti".  Lo sviluppo industriale della Calabria (e del sud in generale) è come una promessa mai realizzata, che ha avuto come conseguenza i gravissimi scempi ambientali oltre al degrado sociale e alla perdità di quell'identità comunitaria che caratterizzava il mondo contadino. Lo sviluppo, in ultima analisi, non ha coinciso con il "progresso". Suggestive appaiono nel film le immagini degli impianti industriali dismessi e dei palazzoni anonimi di periferia, simboli di una modernizzazione apparente e che lascia dietro di sè solo squallore e rovine. Il problema, dice De Seta, è stata la contrapposizione forzata tra vecchio e nuovo, l'incapacità di conciliare la modernizzazione con ciò che c'era da salvare della cultura contadina: aver considerato la sua morte come una condizione imprescindibile per il progresso (come dire: si volle buttare via l'acqua sporca assieme al bambino). All' antico modo di vita subentrarono solo le illusioni del  progresso, i cui risvolti  furono spesso il deturpamento del paesaggio, la disoccupazione e l'emigrazione cronica. Sarebbe potuta esistere una tipologia differente di sviluppo, pensato a partire da una modernizzazione che  si fondasse anche sulla valorizzazione del paesaggio, dei prodotti tipici, dell'arte e delle tradizioni popolari, ovvero uno sviluppo che trasformasse, senza ucciderlo, il mondo contadino? De Seta sembra suggerire proprio questa possibilità, anche perchè le scene di questo film documentano la bellezza e la ricchezza, paesaggistica, ambientale, culturale del Pollino e della Calabria: i suoi borghi (Laino, Civita) i suoi castelli, le sue splendide coste e le montagne, le tradizioni, l'agricoltura e l'artigianato... potenzialità enormi soffocate, ancora oggi purtroppo, da una concezione dello sviluppo economico basata unicamente sul valore del profitto, che è il portato di un capitalismo sfrenato e senza scrupoli. Nel finale del film dalle scene caotiche del traffico girate a Reggio Calabria si passa alla mistica apparizione dei pini loricati, immersi nella nebbia; a luoghi  impressi per sempre nell'anima, come gli splendidi Piani di Pollino e la Serra delle Ciavole... che ci ricordano quali sono i veri "tesori" della nostra bella e martoriata terra del sud...

giovedì 20 agosto 2009

Sorgente Catusa: un santuario della natura

La sorgente Catusa, situata lungo la strada forestale tra Tre Confini e Timpa delle Murge, è un vero santuario naturale. Come ci si inoltra nel bosco abbandonando la strada forestale, si staglia nella sua imponenza questo incantato e un po' nascosto angolo di bosco, in un'atmosfera fiabesca... Enormi massi a forma di altare sembrano accatastati l' uno sull'altro, come gradini di un tempio sacro le cui "colonne" sono invece rappresentate dai possenti faggi secolari, alti, enormi e slanciati verso il cielo. E alla base delle rocce, al centro, ecco sgorgare come un nettare sacro le acque limpide della sorgente Catusa... Ringrazio sempre la natura quando ci regala spettacoli di tal genere. Ecco alcune foto, che però non rendono giustizia della bellezza di questo posto.

mercoledì 19 agosto 2009

Torrente Peschiera

Armati di cavalletto e macchina fotografica io e il mio amico Valentino ci siamo dati un pomeriggio alla fotografia naturalistica, ripercorrendo il sentiero che costeggia lo splendido torrente Peschiera. Per le foto nei torrenti ci vuole molta pazienza: essendo la luce poca i tempi di scatto sono lunghi e la macchina deve stare assolutamente ferma sul cavalletto durante lo scatto. Alcune foto contengono il classico "effetto mosso" dell'acqua che scorre (dovuto appunto ai lunghi tempi di scatto a fronte di un aumento della chiusura del diaframma...) che si può notare in tante foto di paesaggio. Bisogna poi studiare bene l'inquadratura, tanto che spesso capita di doversi bagnare i piedi nel mezzo del torrente! Ecco qualche risultato...

sabato 15 agosto 2009

Wakan Tanka e la Ruota della Medicina: la visione del mondo degli Indiani d’America

gli Indiani d'America in un dipinto di Fredric Remington - sotto: 1. una foto del grande Edward S. Curtis raffigurante un medicine man 2. sepoltura indiana dei Blackfeet in una foto dell'etnografo e fotografo Walter Mc Clintock 3. una ruota di medicina 4. la Medicine Wheel nel logo di un'organizzazione nativa di oggi 5. logo di una campagna per la liberazione di Leonard Peltier, attivista dell'American Indian Movement 6. pittura di sabbia Navajo (sand painting) a scopo cerimoniale raffigurante il Cerchio con le quattro direzioni

“Presso di noi non c’erano templi o santuari che non fossero quelli della natura. Uomo della natura, l’indiano era intensamente poetico. Avrebbe ritenuto sacrilego costruire una casa per Colui che si poteva incontrare faccia a faccia nelle misteriose, ombrose navate della foresta primordiale, nel seno soleggiato delle praterie vergini, o sulle guglie e i pinnacoli vertiginosi di nuda roccia, e lassù nella volta ingioiellata del cielo notturno!”

(Charles Eastman)

Gli Indiani d’America hanno rappresentato una grande cultura nella storia recente dell’umanità. Perseguitati e decimati dalle guerre coloniali degli Stati Uniti, considerati dei selvaggi contrari al progresso dell’umanità, ancora oggi in lotta per l’affermazione dei loro diritti e la difesa della loro cultura tradizionale, essi possono offrirci spunti molto importanti per riflettere sul ruolo dell’uomo nel suo rapporto con l’ambiente naturale, in un’epoca come quella attuale caratterizzata dallo stravolgimento dei cicli naturali e dal continuo sperpero di risorse naturali. Gli Indiani d’America (ma in genere tutti i popoli tribali: gli indiani americani ci hanno offerto solamente molte più testimonianze) avevano una visione molto semplice dell’uomo e della natura. Per la loro religione l’uomo non era un essere superiore la cui missione fosse quella di assogettare sotto di sé ogni manifestazione della natura. Nella Bibbia invece l’uomo è il padrone assoluto, creato a immagine e somiglianza di Dio che lo incita a dominare su ogni altra creatura della terra. Penso come loro che non siamo, noi esseri umani, talmente speciali rispetto agli animali, per possedere l’anima o un posto in paradiso; siamo diversi, certo, ma non superiori. L’uomo per gli indiani era invece parte della natura, parte di un Tutto, ed ogni cosa appartenente alla natura era degna di considerazione e venerazione; persino le rocce, l’acqua, la terra erano considerate qualcosa “di vivo”; quasi “parlavano” per essere i testimoni e i custodi delle gesta degli antenati. L’indiano non aveva paura poi della morte, in quanto la morte, nella loro visione del mondo, faceva parte della vita. L’indiano era cosciente della vera natura del suo posto nel mondo. Non c’era come nelle religioni monoteiste attuali, ma anche come in un certo esistenzialismo nichilista di matrice laica, un rapporto nevrotico (ovviamente è un mio giudizio personale) con la morte. Con la cessazione della vita l’uomo si ricongiungeva al Grande Mistero, alla natura, all’eternità delle cose. La vita per l’indiano, proprio perché intessuta fortemente con i ritmi della vita naturale, era connaturata dalla ciclicità e seguiva la successione delle stagioni, per cui tutto ritornava nel mondo ma contemporaneamente tutto si trasformava. L’uomo capiva di essere inserito in un equilibrio delicato che riguardava tutti gli esseri della terra; la sua intenzione perciò era vivere in armonia con la natura, i suoi cicli e le sue trasformazioni. Questa visione “ecocentrica” del mondo era una diretta espressione del modo di vita indiano, basato su una sorta di comunismo primitivo che portava l’indiano a ritenere inconcepibile il concetto di proprietà privata e la superiorità dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi, una visione del mondo che è riassunta in una celebre frase dei nativi americani passata alla storia: “non è la terra che appartiene all’uomo ma è l’uomo che appartiene alla terra”. Per affrontare l'argomento delle tradizioni e della spiritualità indiana non basterebbe un'enciclopedia; mi limiterò ad esporre liberamente alcuni aspetti della loro visione del mondo.

Alla base della spiritualità indiana c’era il concetto di Wakan Tanka, parola sioux che significa "Grande Mistero", tradotto erroneamente dai gesuiti col termine Grande Spirito (fatto questo che evidentemente mostra come i missionari tendessero ad influenzare ed a vedere sotto la luce del cristianesimo le concezioni religiose dei popoli nativi). Come afferma Eastman, autore del bellissimo libro L’anima dell’indiano:

per lui esso era il concetto supremo, portatore della massima gioia e del massimo appagamento possibili in questa vita. Il culto del “Grande Mistero” era silenzioso, solitario, scevro da ogni egoismo. Era silenzioso, perché ogni parola è necessariamente imperfetta; perciò le anime dei miei antenati si innalzavano a Dio in muta venerazione.

Questo concetto è molto lontano dal Dio delle religioni monoteiste, in quanto il Grande Mistero, Wakan Tanka, era concepito come una forza invisibile presente in tutte le cose, ovvero si identificava con la stessa natura. Scrive Eastman:

agli elementi e alle grandiose forze della natura – il Fulmine, il Vento, l’Acqua, il Fuoco e il Gelo – si guardava con sacro timore come a potenze spirituali, ma sempre di carattere secondario e intermedio. Noi credevamo che lo spirito permeasse di sé tutto il creato, e che ogni essere avesse un’anima anche se in gradi diversi, e non necessariamente un’anima consapevole. L’albero, la cascata, l’orso grigio incarnano tutti una Forza, e come tali sono oggetto di venerazione.

Come afferma ancora Eastman l’indiano era un pensatore logico e chiaro e il suo culto riguardava in ultima analisi il mondo fisico. Tuttavia l’indiano

non aveva ancora fatto una mappa dell’immenso campo della natura né aveva espresso la sua meraviglia in termini scientifici. Con la sua limitata conoscenza di cause ed effetti vedeva miracoli ovunque – il miracolo della vita nel seme dell’uovo, il miracolo della morte nel balenio del fulmine e nell’oceano in burrasca. Nessun prodigio poteva sorprenderlo, come un animale che si metta a parlare, o il Sole che si fermi in mezzo al cielo. La nascita da una vergine non gli sarebbe parsa molto più miracolosa della nascita di ogni bambino che viene al mondo, né il miracolo dei pani e dei pesci lo avrebbe stupito più del raccolto che cresce da una sola spiga di grano.

I riti di questo culto fisico, d’altra parte, erano assolutamente simbolici; l’indiano non tributava un culto al Sole più di quanto il cristiano adori la Croce. Il Sole e la Terra, secondo un’ovvia parabola, appena più ricca di metafora poetica che di verità scientifica, erano ai suoi occhi i genitori di ogni forma di vita organica. Dal Sole, il padre universale, deriva il principio vivificante della natura, e nel grembo paziente e fecondo di nostra madre, la Terra, si celano gli embrioni degli uomini e delle piante.

Anche se Wakan Tanka esprime la Forza ineffabile che dà origine a tutte le cose e anche se appare invisibile, in ultima analisi non è come separato dal mondo e dalla Terra. E’ sempre nella natura che va ricercato il fondamento della spiritualità dei nativi americani. Wakan Tanka è perciò nella stessa natura: negli animali, nelle piante e nel vento… nella stessa materia inanimata. Come afferma Simone Bedetti

il respiro della sua esistenza può essere riconosciuto solo a partire da tutte le cose. Il legame profondo che unisce gli Indiani d’America alla Terra, concepita come madre e sorella, Terra che dà nutrimento a tutti i suoi figli, che accoglie i suoi morti e grazie alla quale tutte le creature possono vivere, non può non influenzare tutto il loro pensiero, ogni tipo di riflessione intorno alla loro esistenza.

Wakan Tanka non fa riferimento ad un Essere pefetto, al di là e al di sopra di tutti gli altri. Il Grande Mistero non è inoltre un essere unico e immobile: “… singolare come espressione verbale e plurale nel significato, non è una personificazione; lo sono le sue manifestazioni: fenomeni naturali come il Vento, le Stelle (il woniya di Wakan Tanka, il respiro del Grande Respiro), il Sole (Wi), la Luna (Hanwi), la nascita di un bambino. E’ a Wakan Tanka, l’energia suprema, la fonte di tutte le cose e presente in tutte le cose, che si rivolge un Sioux quando prega…” (Marco Messignan, sulla spiritualità dei Sioux).

In complesse pratiche tradizionali come la ricerca della visione, il rito della Capanna del Sudore e la Danza del Sole si cercava proprio il contatto con il Grande Mistero . Scriveva Eastman:

la comunione solitaria con l'Invisibile, la più alta espressione della nostra vita religiosa, è parzialmente racchiusa nella parola hambeday - letteralmente "sensazione misteriosa" - , che è stata variamente tradotta come "digiuno" o "sogno". Più propriamente si potrebbe rendere con "coscienza del divino"

Proprio in quanto Wakan Tanka è l’origine di tutte le cose, esso è posto nel centro della Ruota di medicina degli Indiani d’America. La Ruota di medicina è il simbolo per eccellenza dei nativi americani, e racchiude in qualche modo l’intera cultura di questo popolo e le sue tradizioni spirituali. La Ruota aveva la forma di un cerchio costruito sulla terra con sassi e ciottoli. Spesso al centro della Ruota veniva posto un cranio di bisonte, animale sacro a molte tribù, che diventava proprio il simbolo di Wakan Tanka. Come scriveva Alce Nero

tutto ciò che il Potere del Mondo fa, lo fa in un circolo. Il cielo è rotondo, e ho sentito dire che la terra è rotonda come una palla, e che così sono le stelle. Il vento, quando è più potente, gira in turbini. Gli uccelli fanno i loro nidi circolari, perché la loro religione è la stessa nostra. Il sole sorge e tramonta sempre in un circolo. La luna fa lo stesso, e tutti e due sono rotondi. Perfino le stagioni formano un grande circolo, nel loro mutamento, e sempre ritornano al punto di prima. La vita dell'uomo è un circolo, dall'infanzia all'infanzia, e lo stesso accade con ogni cosa dove un potere si muove. Le nostre tende erano rotonde, come i nidi degli uccelli, e inoltre erano sempre disposte in circolo, il cerchio della nazione, un nido di molti nidi, dove il Grande Spirito voleva che noi covassimo i nostri piccoli. Ma i Wasichu ci hanno messi in queste scatole quadrate. Il nostro potere se ne è andato e stiamo morendo, perché il potere non è più in noi.

Come dice Hyemeyohsts Storm, pittore nativo autore di numerose rappresentazioni del Cerchio nel suo famoso libro Sette Frecce:

il Cerchio della Ruota di medicina è l’universo. E’ mutamento, vita, morte, nascita e apprendimento. Questo Grande Cerchio è la dimora del corpo, della mente e del cuore, è il ciclo di tutte le cose che esitono. Il Cerchio è il nostro modo di toccare e di provare armonia con tutte le altre cose che ci stanno intorno; e per coloro che cercano di capire, il Cerchio è il loro specchio.

All’interno del cerchio sono tracciate le Quattro Direzioni o Quattro Venti (Nord, Sud, Ovest ed Est), simboli di altrettante energie spirituali. Nella Ruota l’uomo non è un centro, ma un frammento tra i frammenti, creatura tra le creature; l’individuo dipende da tutte le creature e tutte dipendono da Wakan Tanka. L’individuo per i nativi americani nasceva in una dei quattro quadranti dalle quali prendeva pregi e difetti…

Come afferma giustamente Simone Bedetti, bisogna concepire la Ruota di medicina non come simbolo di pefezione, ma come simbolo di mutamento e trasformazione. La Ruota è il simbolo dell’armonia universale, nel quale trovano posto tutte le cose, ma quest’armonia è frutto delle trasformazioni e dei continui mutamenti. Cioè siamo in presenza di un’armonia nella disarmonia. Questo concetto, espresso dal pensiero dei nativi americani è un’acquisizione anche della filosofia della scienza attuale se si pensa ad esempio ad un autore contemporaneo come Ilya Prigogine secondo cui “l’ordine galleggia nel disordine”. Come scrive Simone Bedetti riprendendo le considerazioni di Kenneth Meadows, il significato di “medicina” “non è uno strumento terapeutico volto a lenire i sintomi di una malattia fisica, mentale e spirituale, ma indica principalmente il potere della realizzazione nella consapevolezza dell’armonia, che a sua volta costituisce il senso ultimo dell’esistenza umana. Ed è con la realizzazione, intesa come partecipazione consapevole e responsabile all’armonia universale, che si guarisce: è questa la medicina della Ruota”. L’armonia della Ruota non è nient’altro che l’armonia della nostra stessa esistenza nella natura, il riconoscimento di essere parte di essa e dei suoi ritmi. Per gli indiani la natura era sacra, anche perché la stessa esistenza dell’indiano americano dipendeva da essa. Non era una concezione astratta ma derivava dal modo di vita delle tribù native. Per l’indiano abenaki Joseph Bruchac ad esempio, l’indiano era attento alla salvaguardia delle specie animali e i vecchi indiani ripetevano che l’uomo non doveva pensare solo a se stesso ma anche alle generazioni future che sarebbero venute (un’acquisizione questa che è oggi è fatta propria dell’ecologismo moderno...). Il cosiddetto “pensiero ecologico” degli antichi nativi americani era infatti considerato una necessità pratica di vita piuttosto che una realtà divina (e quindi astratta); era cioè il risultato finale di esperienze primordiali. La sacralità della natura era così l’elemento più importante della Ruota di Medicina. Il recupero di questo senso di appartenenza e di rispetto per l'ambiente naturale è una sfida per l'uomo contemporaneo. Concludiamo con queste evocative parole di Pete Chatches, indiano dakota...

Ogni essere vivente, in sé, è una forza: persino una minuscola formica, una farfalla, un albero, un fiore, una pietra: poiché in ognuno di essi vive il Grande Spirito. L’attuale modo di vivere dei bianchi tiene questa forza lontana da noi, la indebolisce. C’è bisogno di tempo e pazienza per riavvicinarsi alla natura e lasciarsi aiutare da essa. Tempo, per meditare su questo e comprendere. Voi ne avete così poco per la contemplazione e l’osservazione: siete sempre di corsa, continuamente incitati, sempre a caccia di qualcosa. Questa inquietudine, questo inutile sforzo impoverisce gli uomini.

Riferimenti:

L’anima dell’indiano, Charles A. Eastman

La Ruota di medicina degli Indiani d’America, Simone Bedetti

I segreti degli Indiani d’America, Simone Bedetti

I Sioux, Marco Messignan

martedì 11 agosto 2009

Diario - 10 agosto 2009

un pastore conduce il suo gregge lungo il fianco del Monte Pelato - foto by Indio
Gli ultimi pastori - Nei pascoli del Monte Pelato
Il Monte Pelato è una piccola e strana montagnetta spoglia, dalla conformazione di terreno lavico. Esso fu nella mia adolescenza meta delle mie prime escursioni, quando mi avventuravo da solo per le stradine dei pastori e nei boschetti di faggio che ammantano i fianchi della montagna. La cima del monte è facile da raggiungere dal versante est. Si arriva con l'auto fin sotto la sommità e si prende il sentierino che vi conduce. Il versante ovest è molto più selvaggio e scosceso e ai suoi piedi si estendono ampi pascoli dove ancora oggi gli ultimi pastori di Mezzana conducono greggi di pecore e capre. I pascoli sono punteggiati da una grande varietà di alberi, dal cerro al faggio ai salici agli alberelli di spine e ogni tanto ci si imbatte in alcuni stagnetti dove crescono alti giunchi... Ricordo che da ragazzino mi fermavo in questi stagni ad osservare i girini che vi nuotavano e le rane nascoste nel fogliame che saltavano in acqua al rumore dei miei passi. Un fossato costeggia i piedi della piccola montagna e il terreno qui è tutto franoso. Gli alberi che crescono lungo le sponde a volte vengono sradicati e travolti così dalla frana. Questo terreno accidentato e brullo è percorso da sentieri creati dal calpestio delle greggi. Sono molto attaccato al Monte Pelato ed è nei suoi pascoli che son voluto ritornare dopo tanti anni, assieme al mio cane che oggi compie la sua prima vera escursione. Lungo il sentiero mi tornano alla mente quegli scorci che avevo scoperto durante le passeggiate della mia infanzia... Sciami di tafani (dette anche mosche cavalline) mi ronzano intorno. I loro morsi non si sopportano. Arrivo ai piedi della montagna e supero la frana formata dal fossato per poi dirigermi nei boschetti di faggio e risalire il fianco della montagna a sinistra. Buck è affannato dal caldo ma mi segue dovunque vada. Superiamo il fossato che scende lungo il fianco del monte, coperto dalle macchie di faggio. Buck ha difficoltà a superare un grande masso ma alla fine riesce a saltare. Esco dal bosco e noto che un pastore scende conducendo il suo gregge di pecore e capre, assieme ad un bellissimo cane da pastore bianco pezzato di marrone, che già digrigna i denti per avere avvistato il mio cane. Lego Buck al guinzaglio per evitare che il grosso cane possa aggredirlo. Riconosco il pastore, è Mario del mio paese, che non vedevo da tanto tempo. Gli dico chi sono perché ho capito che invece lui non mi ha riconosciuto. Faccio due chiacchiere con lui che mi rammenta un episodio della mia vita, quando un giorno (all'epoca avevo quindici anni) mi avventurai in questi luoghi da solo, il sole era tramontato e io ancora non ero ritornato a casa. Il villaggio si era allarmato per la mia "scomparsa" e subito erano cominciate le ricerche, alle quali si era unito anche il pastore. Non mi ero perso ma avevo fatto tardi e mia madre e un parente mi scontrarono proprio sopra il paese, mentre stavo ritornando, lungo la strada che scende dalla montagna. Saluto Mario che si allontana costeggiando il pendio e mi dirigo verso la fontana e il vecchio abbeveratoio, proprio dove finisce la strada asfaltata. Da qui si segue il brevissimo sentierino che conduce sulla sommità della montagna, popolata da basse macchie di ginepro. Il panorama è stupendo e per goderlo appieno bisogna stare qui nelle ore del tramonto, come stasera, quando i prati e il brullo terreno del monte riflettono la luce dorata del crepuscolo; le sagome delle montagne lontane, avvolte dalla foschia della torrida giornata estiva, si tingono invece di un azzurro pallido. Sulla cima sono giunti anche tre giovani turisti che cercano di accarezzare il mio cane. Lui diffidente non si fa toccare, da buon cane da pastore abituato a seguire il padrone e a rifiutare le coccole degli estranei! Il cane sembra un po' disorientato e resta sempre vigile e attento a quello che si muove intorno, forse perché finora non lo avevo mai portato così lontano e forse perché oggi sta scoprendo troppe cose tutte assieme. Dalla cima ci dirigiamo giù per prendere la via del ritorno. Un altro pastore, anche lui di una frazione di Mezzana, ha ormai concluso la sua giornata e comincia a dirigere il gregge sulla strada di casa. La sua giacca é infestata dai tafani ma egli non sembra badarci. Lego di nuovo Buck al guinzaglio perché uno dei cani del pastore si sta avvicinando. E' davvero grosso, bianco, con una cicatrice sul muso, si ferma vicino a me per annusare Buck, si tranquillizza e poi si allontana. Saluto il pastore che riprende a richiamare e spronare le sue pecore con quelle parole che sembrano i lasciti di un gergo arcaico, e riprendo così il sentiero. Intanto la luce soffusa del tramonto si espande dappertutto. Con il crepuscolo in questi pascoli sembra diffondersi come sempre un'atmosfera di serenità e calma interiore. L'aria è fresca e camminare adesso è davvero piacevole. Comincio a fischiettare lungo la strada... persino il cane sembra più giocoso, perché adesso mi corre davanti voltandosi a guardarmi, facendo finta di essere inseguito. Passo accanto ai ruderi degli ovili attorniati dai salici. I salici venivano piantati prima della costruzione dell'ovile perchè era necessario che le pecore stessero sempre al fresco, riparati dai raggi del sole. Gli alberi sembrano dei sopravvissuti a questi edifici di pietra ormai in rovina, muti testimoni di una civiltà , quella agropastorale, che già adesso appartiene ad un lontano passato. Lo sterrato finisce, ritrovo la strada asfaltata e mi avvio verso casa...