Adiacente al
camino, in alto era appeso il fucile di papà. La mattina, quando ci alzavamo e
il fucile non c’era, significava che papà era andato a caccia. Mio padre era un
cacciatore, uno dei migliori di Mezzana, non mancava mai un colpo, si diceva.
La selvaggina non mancava mai sulla nostra tavola: beccacce, lepri, volpi
facevano parte dei piatti migliori cucinati da mamma. Eravamo tutti abituati a
queste uscite di papà. Noi bimbi non riuscivamo ancora a preoccuparcene mentre
la mamma, tante volte, quando usciva la mattina presto o a notte fonda ,si
arrabbiava e non poco. Ho sempre creduto che il mio papà andasse a caccia per
noi, per portarci tanta buona carne. Un giorno sentii il motozappa scendere dal
vicolo. Papà era tornato e il fucile non era appeso al camino. Quel giorno non
si trattenne a scaricare la legna come faceva di solito e salì a casa a chiamare mio fratello, gli disse che gli
aveva portato una cosa. Incuriosita, scesi anch’io con loro per vedere questo
regalo. Entrammo nel garage, il motozappa era già parcheggiato, papà ci fece
avvicinare e con un timido, quasi pudico sorriso, sussurrò a mio
fratello:”guarda cosa ti ho portato”. Ci avvicinammo e rimanemmo fermi e
storditi davanti a un bellissimo gufo grigio che muoveva due grandi occhi verde
chiaro in tutte le direzioni, occhi spalancati e accusatori di non so quale
crimine. Mio padre poi lo prese in mano e allora capii il velo d’accusa dentro
quegli occhi: era ferito, sanguinava, un proiettile era entrato dentro il suo piccolo
corpo. Mio fratello di soli cinque anni rimase serio, sconvolto. Io esclamai:”
ma papà perché gli hai sparato!”. Mio fratello continuava a fissare il gufo,
immobile. Lui amava gli animali, amava prendersi cura di galline, formiche,
cani, del suo cardellino Lilly, sfogliava libri che ritraevano tigri, leoni e
guardava tutti i documentari in tv sulla vita degli animali. Forse papà aveva
portato quel gufo a mio fratello pensando di renderlo felice ma non poté non
notare uno sguardo fisso su quella bestiola e capì subito che aveva sbagliato:
non gli aveva portato uno splendido esemplare di gufo ma un semplice animale
ferito e sofferente che riuscì a imprimere, sullo stato d’animo del suo
bambino. una sottile malinconia che contagiò anche lui. Ci mandò via e di quel
gufo non ne sapemmo più nulla. Da quel giorno papà non ci portò che prede
morte. Quel gufo mi fece interrogare sul mio papà cacciatore. Un giorno ci
raccontò di aver ucciso anche gatti selvatici e falchi perché suoi antagonisti
nella caccia alle lepri e beccacce. Un cacciatore dunque non uccideva solo per
portare carne alla sua famiglia e non uccideva per odio verso gli animali. Il
mio papà cacciatore amava la natura, la venerava, la proteggeva ma la sfidava,
a volte vinceva, altre volte perdeva e da questo gioco perverso ne traeva un
sottile piacere. Il gufo sul motozappa con gli occhi spalancati e fieri era il
simbolo di questa lotta e, al di là di questo strano conflitto tra singolari
rivali, c’erano due bambini che non riuscivano a capire altro che la sofferenza
e il diritto alla vita negato.
Eppure papà
cacciatore ci ha lasciato in eredità sia a me che a mio fratello il grande
amore e rispetto per la natura e per gli animali.
Quando nacqui
mio padre aveva un bellissimo bastardino nero dal pelo lungo che sembrava un
incrocio tra un Terranova e un Setter. Alla mia mamma dopo pochi mesi dal
matrimonio, notando il suo disappunto verso il suo amico cane, disse:” se vuoi
bene a me devi voler bene pure al mio cane” e la mamma non poté far altro che abituarsi
alla presenza un po’ ingombrante di Billy.
Billy seguiva
papà ovunque, a volte sentivamo parlare in bottega credendo che ci fosse
qualcuno e invece era papà che chiacchierava amorevolmente col suo cane.
Billy restò con lui per 14 anni e poi un bel
giorno, come un vecchio saggio, salutò papà e la mamma e se ne andò a morire
lontano, all’ombra di una quercia. Dopo di Billy, mio zio regalò a mio padre un
cucciolo appena svezzato che aveva un grave handicap, a sentire papà, era una
femmina. Mina era intelligentissima. Un’immagine legata a Mina :un asino,
montato da mio fratello mantenuto dalla mano solerte di nonno Saverio e Mina
che tira la fune alla quale l’asino è legato. Mina morì uccisa dal cacciatore.
Dopo tanti tentativi per non farla ingravidare, pillole anticoncezionali,
periodi di reclusione, allora forse non esisteva la sterilizzazione, ogni sei
mesi papà era costretto ad uccidere la cucciolata di Mina che non riusciva a
collocare in nessun modo e un giorno preso dall’ira le sparò. Soffrì così tanto
che non toccò cibo per diversi giorni.
La nostra vita familiare è stata sempre
caratterizzata dalla presenza di piccoli amici animali: cani, gatti, canarini,
pappagalli, pesciolini rossi. Papà insegnò a tutti noi quanto l’amicizia di un
animaletto sia capace di riempire la vita di emozioni e c’insegnò che la
bellezza della natura non è opzionale ma è indispensabile alla nostra storia e
alla nostra formazione di uomini e donne.
Esiste un posto magico: un piccolo appezzamento di
terreno, un gruppetto di giovani alberi che si sono nutriti dei corpi degli
animali sepolti ai loro piedi. E’ come se quegli alberi possedessero i loro
spiriti che tornano a vivere attraverso lo stupore di tale consapevolezza.
Ogni essere che ha lasciato una traccia sul percorso
della nostra storia, ogni essere che ci ha fatto gioire, emozionare e piangere,
anche se diverso da noi,siederà nel nostro olimpo di ricordi ed affetti per
sempre.
Carmela De Marco