La mia prima macchina fotografica fu una reflex analogica ( il digitale era ancora ai primi passi), Canon EOS 3000, semplice ma efficace, che acquistai nel 2001. La voglia di fotografare nella natura era stata subito istintiva e si sviluppò di pari passo con le mie esperienze escursionistiche. Un'immagine impressa nella pellicola diventa un ricordo indelebile che solo l'usura del tempo forse potrà cancellare. A distanza di anni con la fotografia ho potuto accorgermi anche di come cambia la montagna nel corso del tempo. Ho ad esempio rivisto pini loricati nelle mie vecchie foto che magari sono stati abbattuti dai fulmini o stanno rinsecchendosi... All'epoca non c'erano i blog e la fotografia era per me davvero qualcosa di personale, direi quasi intimo... un po' come anche le mie escursioni. Solo poche persone avevano la possibilità di visionare le mie foto. Cominciai subito a fare diapositive. La migliore pellicola era la Fuijcrome Velvia 50, professionale, molto nitida e con una resa eccezionale dei colori. E' in circolazione anche adesso, ma ancora per poco, perchè la produzione di pellicole fra un po' cesserà. Il digitale ha rivoluzonato, e in meglio, il mondo della fotografia sviluppando possibilità illimitate. Studiai su due libri del grande fotografo americano John Shawn che mi aiutarono a perfezionare la tecnica del rapporto diaframma/tempo di scatto, a capire gli elementi più importanti della composizione, a riflettere sul ruolo soggettivo della fotografia nella selezione di ciò che si vede nella realtà. L'ispirazione principale per il Pollino mi venne ovviamente dalle foto del mitico Giorgio Braschi! Quando fotografavo usavo anche il polarizzatore, un filtro che elimina i riflessi del sole e grazie al quale il contrasto cromatico delle diapositive era ancora più esaltato. Si può dire che con quella macchina e con le diapositive feci la mia gavetta come fotografo amatoriale, imparando a scattare in manuale. Con le poche foto che si avevano a disposizione nel rullino non si poteva fotografare a caso e questo abituava l'occhio ad essere selettivo nella composizione. Poi non si poteva sbagliare l'esposizione, perchè le foto andavano poi proiettate con l'esposizione con cui erano state scattate. Se si scattava una foto troppo chiara o troppo scura bisognava tenersela! Comunque ancora oggi preferisco trovare l'esposizione giusta al momento dello scatto, facendo magari più scatti della stessa inquadratura con esposizioni differenti (con uno stop in meno di luce o in più) ricorrendo al fotoritocco solo se strettamente necessario. Con Photoshop bisogna andarci con i piedi di piombo, perchè altrimenti si rischia di alterare le foto invece di migliorarle.
L'amico che mi aveva consigliato la Canon mi vendette anche il suo proiettore di diapositive, perchè aveva intenzione di comprarsene uno migliore. Lo chiamerò con la sola iniziale, S. . Lui era più grande di me ed era all'epoca uno dei migliori escursionisti del Pollino, camminatore instancabile nonchè profondo conoscitore della geologia del massiccio grazie anche agli studi che aveva intrapreso. Saremmo probabilmente diventati due affiatati compagni d'escursione. Purtroppo perse la vita prematuramente in un incidente stradale nel lontano 2001. Fu una tragedia all'epoca. Il Pollino perse uno dei suoi figli, ed uno dei suoi più sinceri appassionati, un giovane che avrebbe potuto dare tanto a noi e alla sua terra...
Le foto che ho pubblicato in questo post sono state scannerizzate da diapositiva, con uno scanner non professionale. La risoluzione non è un granchè (uno scanner professionale costa qualcosa come 500 euro!) ma la bellezza dei colori delle diapositive risalta comunque. Alcune foto sono state scattate negli angoli più selvaggi del Pollino, spesso durante le mie solitarie escursioni più "giovanili".
Dedico simbolicamente queste foto proprio a S., che amò la sua terra e seppe ammirare la bellezza suprema della nostra montagna...
cavalli al pascolo ai Piani di Pollino
veduta dalla Timpa delle Murge
ai piedi dei dirupi del versante est di Serra di Crispo
sulle pietraie del versante nord-ovest del Monte Pollino
la grande foresta che circonda le pendici del versante nord del Pollino; da Timpone Cannocchiello
la selvaggia Timpa di San Lorenzo
loricato piegato dai venti su Serra delle Ciavole
la cascata di Sorgente della Serra sullo sfondo del selvaggio Pollinello
il fiume Lao, presso Papasidero
loricati sul Dolcedorme sotto lo sfondo del Monte Pollino
Timpa Falconara
tracce di lepre sulla cresta ghiacciata di Madonna di Pollino
paesaggio invernale con lo spoglio Monte Pelato
pareti verticali di roccia instabile sul versante est di Serra delle Ciavole
loricati sul lato ovest di Serra Crispo
loricato al Belvedere del Malvento
alba verso Timpa delle Murge
ai balconi di Pollino
sulla cresta est del Dolcedorme
lungo il sentiero che da Acquafredda conduce al Passo del Vascello
il piano di Vaquarro spunta nel cuore della selvaggia foresta tra Cannochiello e Madonna di Pollino
Oltre l'approccio sportivo: l'escursione come esperienza per avvicinarsi al mistero e alla bellezza della natura- sulla cresta nord-ovest del Monte Pollino - foto by Indio
“Riuscite
a vedere quello che vedo io?”
(dal film
Into the Wild, di Sean Penn)
L’uno di febbraio. Vedo
in televisione l’ultima tragedia in montagna. Una valanga travolge due
alpinisti cittadini.Mi colpiscono molto le immagini di una
parte del paesaggio del Gran Sasso
mostrate in TV. Impianti di risalita che hanno squarciato un tratto della
foresta. Cemento e ferro dappertutto. Il soccorso alpino che va a rischiare la
pelle per rimuovere i corpi dei due poveri alpinisti. E’ una storia che si
ripete, all’infinito. Ho sempre riflettuto, anche perché li pratico, sugli
sport di montagna, sui loro obiettivi e sul loro rapporto con l’ambiente
montano. Ne ho discusso con amici e conoscenti, scontrandomi anche con punti di
vista opposti ai miei. Da queste
riflessioni ho buttato giù, senza un destinatario preciso, quest’articolo, che
è il mio modo di comunicare agli altri cos’è per me la montagna e come vorrei
che gli altri la vedessero. O meglio, vorrei tanto che gli altri vedessero
quello che io penso di essere riuscito a vedere …
Si
può concepire il trekking come sport
fine a se stesso? Ecco, questo è il punto da cui voglio partire per una
riflessione sul rapporto tra l’escursionista e l’ambiente naturale della
montagna.
Lo
sport si sa, implica dei record, delle vittorie, delle performance. La
mentalità sportiva di certo ha a che fare volenti o nolenti con la montagna, in
quanto l’escursionismo e l’alpinismo implicano una serie di tecniche ed
attrezzature per affrontare cime e pareti. Comportano lo sforzo, l’allenamento. In particolare
l’alpinismo contempera la preparazione atletica volta ad affrontare ore e ore
di lunghe salite, l’accuratezza delle tecniche e dei movimenti della
progressione su neve e ghiaccio, o quelli che interessano l’arrampicata su
roccia. La domanda che mi pongo è questa: si può avere unicamente un approccio sportivo alla montagna? La montagna può
essere considerata solamente una "palestra naturale" per le nostre performance? E
se l’escursionismo viene considerato uno sport, in questo sport si vince davvero
qualcosa?
Bisogna
partire da un fatto: la rincorsa smodata al record, alla sfida, al
raggiungimento della cima a tutti i costi o la scalata di pareti impossibili, l’accanimento nello spostare il limite sempre più in avanti fanno parte
della storia dell’alpinismo e hanno seminato tra gli alpinisti una competizione
che ha anche prodotto atteggiamenti meschini, bugie e rancori di ogni sorta. Io le chiamo “miserie
dell’alpinismo”. Basti pensare alle falsità e alle recriminazioni che
accompagnarono la scalata del Cerro Torre in Patagonia, a cui Messner ha
dedicato un libro ultimamente. Per citare Mauro Corona spesso lo stasus degli
alpinisti diventa quello di “narcisisti”, ovvero di atleti che mettono avanti soprattutto la loro vanagloria personale e la collezione di imprese
sempre più difficili. Alla fine se si pensa solo a se stessi e alla scalata non
si fa altro che perdere di vista... proprio la montagna! Non è solo una questione
filosofica esente da conseguenze pratiche. Perché la ricerca smodata del
superamento del limite ha purtroppo avuto (ed ha tutt’ora) come conseguenza, anche
la perdita di migliaia e migliaia di
vite umane. Gli sport della montagna hanno avuto una diffusione di massa e da
ciò che si legge nelle cronache dei quotidiani sembra sia subentrato quasi un
approccio “nevrotico” alla montagna: si vedono tanti individui improvvisarsi alpinisti senza che abbiano conoscenza
ed esperienza dell’ambiente alpino o appenninico. Spesso sono cittadini che
cercano sfogo dall’alienazione metropolitana fuggendo sulle cime. E si vede di
solito come terminano le cose: gite e scalate improvvisate che vanno purtroppo
a finire in tragedia.
Ma
vengo alla domanda a cui voglio rispondere. Con quale approccio dovremo vivere
la montagna? E’ una domanda che faccio anche a me stesso: sono il primo a fare
autocritica, perché anch’io ho commesso degli errori facendomi abbindolare a
volte dalla ricerca della sfida e della
performance a tutti i costi.
Sono
la conquista della cima, la tecnica, la
competizione le cose più importanti oppure c’è qualcos’altro che nella montagna
vale la pena di sperimentare? Parto da un’osservazione. L’escursione su un
sentiero che conduce alla base di una cima viene detto nel gergo alpinistico “avvicinamento”,
un concetto base dell’alpinismo ma che io ritengo banalizzi parecchio la realtà della montagna ... Un sentiero, che
per arrivare alla base di una parete attraversi una foresta selvaggia con
alberi secolari, può valere più della scalata alla cima,
indipendentemente dalla scarsa difficoltà che può presentare! Percorrerlo non rappresenta
solo un “avvicinamento”, ma un’esperienza che può suscitare in noi profonde
sensazioni. Ecco che arriviamo ad un punto chiave della questione: se lo scopo
sia la difficoltà fine a se stessa o, come
io invece sostengo, se la difficoltà
della salita sia in realtà solo un mezzo
per scoprire la bellezza di alcuni angoli incantati e selvaggi della montagna… se
sia un mezzo cioè per entrare in sintonia con la natura.
Se consideriamo questo concetto l’escursione
può diventare interessante e capace di suscitare emozioni intense anche se
stiamo percorrendo quel comodo sentiero cui
facevo cenno sopra, che attraversa una immensa foresta di faggi e abeti: lungo il suo percorso possiamo sentire per
esempio lo scrosciare dei torrenti di montagna… se siamo fortunati incontreremo
il piccolo scoiattolo meridionale che si arrampicherà furtivo per sfuggire alla
nostra vista; ecco il cielo che diventa nuvoloso, si approssima un temporale e
la foresta diventa scura, tenebrosa… direi misteriosa; ma magari rispunta il
sole e mentre stiamo al tramonto la luce rossastra filtra tra gli alberi
facendo brillare le loro foglie; e se ci sorprende il buio potremo ammirare la
vota del cielo stellato, o la luna che fa capolino sulla foresta. Ecco, sono
anche queste, sensazioni belle da provare, oltre a quelle indubbiamente sublimi
della scalata della vetta... e sono queste emozioni che a mio avviso danno senso
all’escursione…
Queste
considerazioni sono importanti, perché si dà così valore alla montagna nel suo complesso, non solo all’
“altitudine” delle vette. La stessa cima
non ha valore perché arrivando a 2000 o
3000 o 4000 metri abbiamo vinto o conquistato
qualcosa (ho sempre trovato ridicole in proposito le bandiere poste sulle
cime dopo una scalata!). L'ascesa di una difficile cresta ghiacciata ad esempio, ha valore non
perché ci conduca alla cima tra mille difficoltà, ma per ciò che proviamo lungo
il percorso della cresta; per quello che vediamo, che ascoltiamo; per la
bellezza misteriosa e selvaggia che si rivela in questi momenti, per la
sensazione che si prova di essere soli alla mercè delle grandi forze della natura…
Lo dico per esperienza: lungo le faticose ascese invernali al Pollino non è la
mia performance che mi interessa, non è dimostrare a qualcuno di essere un
“duro”, ma il poter entrare in sintonia
con la dimensione selvaggia della nostra montagna, con la sua solitudine, il suo silenzio, il suo ambiente primordiale.
In parole povere con ciò che gli americani chiamano wilderness. Sono queste le cose che ci rendono ricchi
interiormente: poter ammirare i tesori naturalistici di una montagna non
oltraggiata dai segni dell’uomo, poterla vivere in libertà e in silenzio, senza
mete prefissate, senza catalogazioni, classificazioni o cifre... Certo, anche
la conoscenza tecnico-scientifica è
importante, ma non dev' essere una mania. Quando vado in montagna non voglio pensare ai
numeri, non mi interessa il valore numerico di un dislivello o di una cima… Se dovessi ragionare come molti alpinisti
ossessionati unicamente di arrivare sulle cime di 7000 o 8000 metri
delle Ande o dell'Himalaya dovrei considerare il Pollino, le cui
cime superano appena i duemila metri, un massiccio quasi insignificante. Ma
ragionando diversamente io considero il Pollino la montagna più bella, perché è la “mia” montagna… e non la scambierei con nessun’ altra.
Perché su questa montagna io sono vissuto
e qui sono vissuti i miei padri, l’ho scoperta a poco a poco fin da bambino ed ho avuto la
fortuna di poter ammirare i suoi angoli più suggestivi e selvaggi, sulle
cime come negli anfratti più nascosti della foresta.
Ciò che
vale è la continua scoperta della natura, quello che la natura ci permette di
poter vedere e ascoltare. Ciò che mi interessa è carpire il senso di un luogo
selvaggio, è confrontarmi con la multevole varietà della montagna nel corso
delle stagioni, con la ricchezza di forme, di colori, di ambienti e di
atmosfere… In montagna voglio sfidare me
stesso e i miei limiti fisici certo, ma voglio anche stupirmi di fronte alla
bellezza della natura, voglio poter sorridere e voglio potermi commuovere. No,
la montagna non si identifica solo con cime o pareti. La montagna è più di questo
e va oltre concetti come tecnica, record, difficoltà… va oltre le
categorizzazioni sportive. E la montagna è “vera” quando non è piegata alle
necessità, alle stravaganze e alle comodità del turista. Quando è se stessa,
quando non è addomesticata, quando non è
svilita, quando si rispetta la sua natura, che è poi fondamentalmente la sua dimensione selvaggia. Ecco perché ad un
approccio basato sulla “conquista” della montagna ne preferisco uno che faccia
leva sulla pura contemplazione, che privilegi una “via interiore”… “Pensare come una montagna” diceva Aldo
Leopold. E’ necessario vedere la complessità della montagna. Tutta la vita che
pullula e che si perpetua in simbiosi con la forza degli elementi: animali
selvaggi, insetti, fiori, piante rare, alberi, rocce e gole scavate da
torrenti, paesaggi geologici con le loro forme uniche… Tutto questo è "montagna".
Per
capirci i miei maestri non saranno mai quegli alpinisti che hanno conquistato
tutti gli ottomila della terra ma montanari come Mauro Corona o Giorgio
Braschi, che hanno esplorato le “loro” montagne cercando di sentire quell’anima che, come dice lo stesso Braschi,
si può recepire solo nelle atmosfere di particolari momenti. Coloro i quali, aggiungo, che oltre a vivere la montagna si sono prodigati per
proteggerla e tutelarne i suoi immensi
tesori naturali. Ma non solo. Se avete letto qualche libro di Mauro Corona noterete
che egli racconta le storie di boscaioli,
pastori, massaie e contadini… E’ importante infatti considerare la cultura
della montagna. Non si può infatti dissociare la montagna dall’ aspetto culturale, ovvero dalle
tradizioni e dalla storia delle comunità locali che in montagna hanno da sempre
vissuto e lavorato. La montagna è
inseparabile dai montanari, da coloro che pur tra tante avversità
continuano a vivere nelle sue valli. E bisogna anche preservare sempre la memoria dei
nostri avi. Ecco allora che un semplice sentiero nei boschi oppure il rudere di
un ovile di pastori acquistano valore anche per essere dei muti testimoni della vita delle generazioni passate,
di contadini, cacciatori e pastori; di uomini come di donne…
Un'altra questione va sollevata. L’approccio
meramente sportivo o atletico ha a mio avviso causato un sacco di danni anche
allo stesso ambiente naturale della montagna. E purtroppo Pollino a parte,
montagna (per fortuna) ancora salvaguardata nella sua dimensione selvaggia e
incontaminata, molte altre montagne italiane sono state piegate alle esigenze
dello sport di massa. E mi riferisco
alla proliferazione dei rifugi d’alta quota, la costruzione di strade asfaltate,
gli impianti di risalita, funivie e piste da sci, alberghi e strutture
ricettive tipicamente urbane piene di borghesucci (modello Cortina per
intenderci), sentieri ipersegnalati con bollini e numeri dappertutto, con
informazioni dettagliatissime riguardanti lunghezza e difficoltà dei percorsi…
La cosa sconcertante è che tutto ciò sia stato permesso anche nei Parchi
Nazionali, cioè in quelle aree montane di cui era stata designata la tutela
proprio per preservarne gli immensi tesori naturalistici e paesaggistici… Lo spirito conservazionista con cui alcune
montagne italiane si volevano tutelare è stato spesso soverchiato dalle
esigenze economicistiche del turista sportivo, dello sciatore portato in cima
con l’ausilio della ferraglia, dell’alpinista che vuole solo arrivare alla base
della cima, magari in funivia, per poterla
poi scalare e “conquistare”.
Concludo esortando gli amici del Pollino che
seguono il mio blog e che io ammiro tanto, di adoperarsi sempre per la difesa e la salvaguardia del
Pollino: questa è la “nostra” montagna, diventiamone i suoi custodi gelosi e
non permettiamo mai per nessuna ragione che venga offesa, danneggiata o
banalizzata!