domenica 14 febbraio 2010

Alla scoperta del Pollino con la fotografia - Diapositive 2001 - 2005, dedicate ad un amico



La mia prima macchina fotografica fu una reflex analogica ( il digitale era ancora ai primi passi), Canon EOS 3000, semplice ma efficace, che acquistai nel 2001. La voglia di fotografare nella natura era stata subito istintiva e si sviluppò di pari passo con le mie esperienze escursionistiche. Un'immagine impressa nella pellicola diventa un ricordo indelebile che solo l'usura del tempo forse potrà cancellare. A distanza di anni con la fotografia ho potuto accorgermi anche di come cambia la montagna nel corso del tempo. Ho ad esempio rivisto pini loricati nelle mie vecchie foto che magari sono stati abbattuti dai fulmini o stanno rinsecchendosi... All'epoca non c'erano i blog e la fotografia era per me davvero qualcosa di personale, direi quasi intimo... un po' come anche le mie escursioni. Solo poche persone avevano la possibilità di visionare le mie foto. Cominciai subito a fare diapositive. La migliore pellicola era la Fuijcrome Velvia 50, professionale, molto nitida e con una resa eccezionale dei colori. E' in circolazione anche adesso, ma ancora per poco, perchè la produzione di pellicole fra un po' cesserà. Il digitale ha rivoluzonato, e in meglio, il mondo della fotografia sviluppando possibilità illimitate. Studiai su due libri del grande fotografo americano John Shawn che mi aiutarono a perfezionare la tecnica del rapporto diaframma/tempo di scatto, a capire gli elementi più importanti della composizione, a riflettere sul ruolo soggettivo della fotografia nella selezione di ciò che si vede nella realtà. L'ispirazione principale per il Pollino mi venne ovviamente dalle foto del mitico Giorgio Braschi! Quando fotografavo usavo anche il  polarizzatore, un filtro che elimina i riflessi del sole e  grazie al quale il contrasto cromatico delle diapositive era ancora più esaltato. Si può dire che con quella macchina e con le diapositive feci la mia gavetta come fotografo amatoriale, imparando a scattare in manuale. Con le poche foto che si avevano a disposizione nel rullino non si poteva fotografare a caso e questo abituava l'occhio ad essere selettivo nella composizione. Poi non si poteva sbagliare l'esposizione, perchè le foto andavano poi proiettate con l'esposizione con cui erano state scattate. Se si scattava una foto troppo chiara o troppo scura bisognava tenersela! Comunque ancora oggi preferisco trovare l'esposizione giusta al momento dello scatto, facendo magari più scatti della stessa inquadratura con esposizioni differenti (con uno stop in meno di luce o in più) ricorrendo al fotoritocco solo se strettamente necessario. Con Photoshop bisogna andarci con i piedi di piombo, perchè altrimenti si rischia di alterare le foto invece di migliorarle.

L'amico che mi aveva consigliato la Canon mi vendette anche il suo proiettore di diapositive, perchè aveva intenzione di comprarsene uno migliore. Lo chiamerò con la sola iniziale, S. . Lui era  più grande di me ed era all'epoca uno dei migliori escursionisti del Pollino, camminatore instancabile nonchè profondo conoscitore della geologia del massiccio grazie anche agli studi che aveva intrapreso. Saremmo probabilmente diventati due affiatati compagni d'escursione. Purtroppo perse la vita prematuramente in un incidente stradale nel lontano 2001. Fu una tragedia all'epoca. Il Pollino perse uno dei suoi figli, ed uno dei suoi più sinceri appassionati, un giovane che avrebbe potuto dare tanto a noi e alla sua terra...

Le foto che ho pubblicato in questo post sono state scannerizzate da diapositiva, con uno scanner non professionale. La risoluzione non è un granchè (uno scanner professionale costa qualcosa come 500 euro!) ma la bellezza dei colori delle diapositive risalta comunque. Alcune foto sono state scattate negli angoli più selvaggi del Pollino, spesso durante le mie solitarie escursioni più "giovanili".

Dedico simbolicamente queste foto proprio a S., che amò la sua terra e seppe ammirare la bellezza suprema della nostra montagna...


          cavalli al pascolo ai Piani di Pollino

veduta dalla Timpa delle Murge

 
ai piedi dei dirupi del versante est di Serra di Crispo


sulle pietraie del versante nord-ovest del Monte Pollino

  
la grande foresta che circonda le pendici del versante nord del Pollino; da Timpone Cannocchiello


la selvaggia Timpa di San Lorenzo


loricato piegato dai venti su Serra delle Ciavole


la cascata di Sorgente della Serra sullo sfondo del selvaggio Pollinello

 
il fiume Lao, presso Papasidero   


loricati sul Dolcedorme sotto lo sfondo del Monte Pollino
Timpa Falconara
 
tracce di lepre sulla cresta ghiacciata di Madonna di Pollino


paesaggio invernale con lo spoglio Monte Pelato


pareti verticali di roccia instabile sul versante est di Serra delle Ciavole

 
loricati sul lato ovest di Serra Crispo


loricato al Belvedere del Malvento


alba verso Timpa delle Murge


ai balconi di Pollino 


sulla cresta est del Dolcedorme 

 
lungo il sentiero che da Acquafredda conduce al Passo del Vascello


il piano di Vaquarro spunta nel cuore della selvaggia foresta tra Cannochiello e Madonna di Pollino

foto by Indio

martedì 2 febbraio 2010

Dalla conquista della cima alla conquista della bellezza: oltre l'approccio sportivo alla montagna



 
Oltre l'approccio sportivo: l'escursione come esperienza per avvicinarsi al mistero e alla bellezza della natura - sulla cresta nord-ovest del Monte Pollino - foto by Indio


“Riuscite a vedere quello che vedo io?” 
(dal film Into the Wild, di Sean Penn)




L’uno di febbraio. Vedo in televisione l’ultima tragedia in montagna. Una valanga travolge due alpinisti cittadini. Mi colpiscono molto le immagini di una parte del  paesaggio del Gran Sasso mostrate in TV. Impianti di risalita che hanno squarciato un tratto della foresta. Cemento e ferro dappertutto. Il soccorso alpino che va a rischiare la pelle per rimuovere i corpi dei due poveri alpinisti. E’ una storia che si ripete, all’infinito. Ho sempre riflettuto, anche perché li pratico, sugli sport di montagna, sui loro obiettivi e sul loro rapporto con l’ambiente montano. Ne ho discusso con amici e conoscenti, scontrandomi anche con punti di vista opposti ai miei.  Da queste riflessioni ho buttato giù, senza un destinatario preciso, quest’articolo, che è il mio modo di comunicare agli altri cos’è per me la montagna e come vorrei che gli altri la vedessero. O meglio, vorrei tanto che gli altri vedessero quello che io penso di essere riuscito a vedere …
Si può concepire  il trekking come sport fine a se stesso? Ecco, questo è il punto da cui voglio partire per una riflessione sul rapporto tra l’escursionista e l’ambiente naturale della montagna.
Lo sport si sa, implica dei record, delle vittorie, delle performance. La mentalità sportiva di certo ha a che fare volenti o nolenti con la montagna, in quanto l’escursionismo e l’alpinismo implicano una serie di tecniche ed attrezzature per affrontare cime e pareti. Comportano  lo sforzo, l’allenamento. In particolare l’alpinismo contempera la preparazione atletica volta ad affrontare ore e ore di lunghe salite, l’accuratezza delle tecniche e dei movimenti della progressione su neve e ghiaccio, o quelli che interessano l’arrampicata su roccia. La domanda che mi pongo è questa: si può avere unicamente un approccio sportivo alla montagna? La montagna può essere considerata solamente una "palestra naturale" per le nostre performance? E se l’escursionismo viene considerato uno sport, in questo sport si vince davvero qualcosa?
Bisogna partire da un fatto: la rincorsa smodata al record, alla sfida, al raggiungimento della cima a tutti i costi o la scalata di pareti impossibili,  l’accanimento nello spostare  il limite sempre più in avanti fanno parte della storia dell’alpinismo e hanno seminato tra gli alpinisti una competizione che ha anche prodotto atteggiamenti meschini, bugie  e rancori di ogni sorta. Io le chiamo “miserie dell’alpinismo”. Basti pensare alle falsità e alle recriminazioni che accompagnarono la scalata del Cerro Torre in Patagonia, a cui Messner ha dedicato un libro ultimamente. Per citare Mauro Corona spesso lo stasus degli alpinisti diventa quello di “narcisisti”, ovvero di atleti che mettono avanti soprattutto la loro vanagloria personale e la collezione di imprese sempre più difficili. Alla fine se si pensa solo a se stessi e alla scalata non si fa altro che perdere di vista... proprio la montagna! Non è solo una questione filosofica esente da conseguenze pratiche. Perché la ricerca smodata del superamento del limite ha purtroppo avuto (ed ha tutt’ora) come conseguenza, anche  la perdita di migliaia e migliaia di vite umane. Gli sport della montagna hanno avuto una diffusione di massa e da ciò che si legge nelle cronache dei quotidiani sembra sia subentrato quasi un approccio “nevrotico” alla montagna: si vedono tanti individui  improvvisarsi alpinisti senza che abbiano conoscenza ed esperienza dell’ambiente alpino o appenninico. Spesso sono cittadini che cercano sfogo dall’alienazione metropolitana fuggendo sulle cime. E si vede di solito come terminano le cose: gite e scalate improvvisate che vanno purtroppo a finire in tragedia.
Ma vengo alla domanda a cui voglio rispondere. Con quale approccio dovremo vivere la montagna? E’ una domanda che faccio anche a me stesso: sono il primo a fare autocritica, perché anch’io ho commesso degli errori facendomi abbindolare a volte  dalla ricerca della sfida e della performance a tutti i costi.
Sono la conquista della cima, la tecnica,  la competizione le cose più importanti oppure c’è qualcos’altro che nella montagna vale la pena di sperimentare? Parto da un’osservazione. L’escursione su un sentiero che conduce alla base di una cima viene detto nel gergo alpinistico “avvicinamento”, un concetto base dell’alpinismo ma che io ritengo banalizzi parecchio  la realtà della montagna ... Un sentiero, che per arrivare alla base di una parete attraversi una foresta selvaggia con alberi secolari, può valere più della scalata alla cima, indipendentemente dalla scarsa difficoltà che può presentare! Percorrerlo non rappresenta solo un “avvicinamento”, ma un’esperienza che può suscitare in noi profonde sensazioni. Ecco che arriviamo ad un punto chiave della questione: se lo scopo sia  la difficoltà fine a se stessa o, come io invece sostengo, se  la difficoltà della salita sia in realtà solo un mezzo per scoprire la bellezza di alcuni angoli incantati e selvaggi della montagna… se sia un mezzo cioè per entrare in sintonia con la natura.
Se consideriamo questo concetto l’escursione può diventare interessante e capace di suscitare emozioni intense anche se stiamo percorrendo  quel comodo sentiero cui facevo cenno sopra, che attraversa una immensa foresta di faggi e abeti:  lungo il suo percorso possiamo sentire per esempio lo scrosciare dei torrenti di montagna… se siamo fortunati incontreremo il piccolo scoiattolo meridionale che si arrampicherà furtivo per sfuggire alla nostra vista; ecco il cielo che diventa nuvoloso, si approssima un temporale e la foresta diventa scura, tenebrosa… direi misteriosa; ma magari rispunta il sole e mentre stiamo al tramonto la luce rossastra filtra tra gli alberi facendo brillare le loro foglie; e se ci sorprende il buio potremo ammirare la vota del cielo stellato, o la luna che fa capolino sulla foresta. Ecco, sono anche queste, sensazioni belle da provare, oltre a quelle indubbiamente sublimi della scalata della vetta... e sono queste emozioni che a mio avviso danno senso all’escursione…
Queste considerazioni sono importanti, perché si dà così valore alla montagna nel suo complesso, non solo all’ “altitudine” delle vette.  La stessa cima non ha  valore perché arrivando a 2000 o 3000 o 4000  metri abbiamo vinto o conquistato qualcosa (ho sempre trovato ridicole in proposito le bandiere poste sulle cime dopo una scalata!). L'ascesa di una difficile cresta ghiacciata ad esempio, ha valore non perché ci conduca alla cima tra mille difficoltà, ma per ciò che proviamo lungo il percorso della cresta; per quello che vediamo, che ascoltiamo; per la bellezza misteriosa e selvaggia che si rivela in questi momenti, per la sensazione che si prova di essere soli alla mercè delle grandi forze della natura… Lo dico per esperienza: lungo le faticose ascese invernali al Pollino non è la mia performance che mi interessa, non è dimostrare a qualcuno di essere un “duro”,  ma il poter entrare in sintonia con la dimensione selvaggia della nostra montagna,  con la sua solitudine,  il suo silenzio, il suo ambiente primordiale. In parole povere con ciò che gli americani chiamano wilderness.  Sono queste le cose che ci rendono ricchi interiormente: poter ammirare i tesori naturalistici di una montagna non oltraggiata dai segni dell’uomo, poterla vivere in libertà e in silenzio, senza mete prefissate, senza catalogazioni, classificazioni o cifre... Certo, anche la conoscenza  tecnico-scientifica è importante, ma non dev' essere una mania.  Quando vado in montagna non voglio pensare ai numeri, non mi interessa il valore numerico di un dislivello o di una cima…  Se dovessi ragionare come molti alpinisti ossessionati unicamente di arrivare sulle cime di 7000 o 8000 metri delle Ande o dell'Himalaya dovrei considerare il Pollino,  le cui cime superano appena i duemila metri, un massiccio quasi insignificante. Ma ragionando diversamente io considero il Pollino la  montagna più bella, perché è la “mia” montagna… e non la scambierei con nessun’ altra. Perché su questa montagna  io sono vissuto e qui sono vissuti i miei padri, l’ho scoperta a  poco a poco fin da bambino ed ho avuto la fortuna di  poter ammirare  i suoi angoli più suggestivi e selvaggi, sulle cime come negli anfratti più nascosti della foresta.
  Ciò che vale è la continua scoperta della natura, quello che la natura ci permette di poter vedere e ascoltare. Ciò che mi interessa è carpire il senso di un luogo selvaggio, è confrontarmi con la multevole varietà della montagna nel corso delle stagioni, con la ricchezza di forme, di colori, di ambienti e di atmosfere…  In montagna voglio sfidare me stesso e i miei limiti fisici certo, ma voglio anche stupirmi di fronte alla bellezza della natura, voglio poter sorridere e voglio potermi commuovere. No, la montagna non si identifica solo con cime o pareti. La montagna è più di questo e va oltre concetti come tecnica, record, difficoltà… va oltre le categorizzazioni sportive. E la montagna è “vera” quando non è piegata alle necessità, alle stravaganze e alle comodità del turista. Quando è se stessa, quando non è addomesticata,  quando non è svilita, quando si rispetta la sua natura, che è poi fondamentalmente la sua dimensione selvaggia. Ecco perché ad un approccio basato sulla “conquista” della montagna ne preferisco uno che faccia leva sulla pura contemplazione, che privilegi una “via interiore”…  “Pensare come una montagna” diceva Aldo Leopold. E’ necessario vedere la complessità della montagna. Tutta la vita che pullula e che si perpetua in simbiosi con la forza degli elementi: animali selvaggi, insetti, fiori, piante rare, alberi, rocce e gole scavate da torrenti, paesaggi geologici con le loro forme uniche… Tutto questo è "montagna".
Per capirci i miei maestri non saranno mai quegli alpinisti che hanno conquistato tutti gli ottomila della terra ma montanari come Mauro Corona o Giorgio Braschi, che hanno esplorato le “loro” montagne cercando di sentire quell’anima che, come dice lo stesso Braschi, si può recepire solo nelle atmosfere di particolari momenti.  Coloro i quali, aggiungo,  che oltre a  vivere la montagna si sono prodigati per proteggerla e tutelarne i suoi  immensi tesori naturali. Ma non solo. Se avete letto qualche libro di Mauro Corona noterete che egli racconta le storie di  boscaioli, pastori, massaie e contadini… E’ importante infatti considerare la cultura della montagna. Non si può infatti dissociare la montagna dall’ aspetto culturale, ovvero dalle tradizioni e dalla storia delle comunità locali che in montagna hanno da sempre vissuto e lavorato.  La montagna è inseparabile dai montanari, da coloro che pur tra tante avversità continuano a vivere nelle sue valli. E bisogna anche preservare sempre la memoria dei nostri avi. Ecco allora che un semplice sentiero nei boschi oppure il rudere di un ovile di pastori acquistano valore anche per essere dei muti  testimoni della vita delle generazioni passate, di contadini, cacciatori e pastori; di uomini come di donne… 

Un'altra questione va sollevata. L’approccio meramente sportivo o atletico ha a mio avviso causato un sacco di danni anche allo stesso ambiente naturale della montagna. E purtroppo Pollino a parte, montagna (per fortuna) ancora salvaguardata  nella sua dimensione selvaggia e incontaminata, molte altre montagne italiane sono state piegate alle esigenze dello  sport di massa. E mi riferisco alla proliferazione dei rifugi d’alta quota, la costruzione di strade asfaltate, gli impianti di risalita, funivie e piste da sci, alberghi e strutture ricettive tipicamente urbane piene di borghesucci (modello Cortina per intenderci), sentieri ipersegnalati con bollini e numeri dappertutto, con informazioni dettagliatissime riguardanti lunghezza e difficoltà dei percorsi… La cosa sconcertante è che tutto ciò sia stato permesso anche nei Parchi Nazionali, cioè in quelle aree montane di cui era stata designata la tutela proprio per preservarne gli immensi tesori naturalistici e paesaggistici…  Lo spirito conservazionista con cui alcune montagne italiane si volevano tutelare è stato spesso soverchiato dalle esigenze economicistiche del turista sportivo, dello sciatore portato in cima con l’ausilio della ferraglia, dell’alpinista che vuole solo arrivare alla base della cima, magari in funivia,  per poterla poi scalare e “conquistare”. 
Concludo esortando gli amici del Pollino che seguono il mio blog e che io ammiro tanto, di adoperarsi sempre per la difesa e la salvaguardia del Pollino: questa è la “nostra” montagna, diventiamone i suoi custodi gelosi e non permettiamo mai per nessuna ragione che venga offesa, danneggiata o banalizzata!
Indio