La Serra di Crispo, con i suoi 2053 metri, è forse il posto più suggestivo dell’intero massiccio, tanto da essere spesso denominato con l’appellativo di “giardino degli dei”, per la suprema bellezza che regna su questa montagna. Con la neve e il ghiaccio che avvolge i rami dei pini loricati lo spettacolo aumenta ancora di più. Sicuramente è in inverno, con la neve, che la montagna rivela i paesaggi e le atmosfere più segrete e misteriose.
domenica 30 dicembre 2007
Diario - 29 dicembre 2007
martedì 27 novembre 2007
Immagini d'autunno
giovedì 22 novembre 2007
Il progresso... verso la distruzione
domenica 28 ottobre 2007
Jack London e l'amore della vita
“Di tutto, questo è rimasto:
l’aver vissuto e l’aver lottato
Questo sarà il guadagno del gioco,
anche se sarà perso l’oro della posta.”
Jack London è uno dei miei scrittori preferiti, forse l'unico scrittore che io consideri quasi come un "compagno" o un "amico". Jack London è uno dei grandi nomi della letteratura americana, ed uno degli autori più letti a livello mondiale. La critica accademica non gli ha concesso mai una grande considerazione. Ma si sa, la critica ufficiale è stata, ed è a volte tuttora, restia ad accogliere gli autori dalla vita tumultuosa, le cui vicissitudini si ripercuotono direttamente nelle pagine dei loro libri, gli scrittori innovativi e quindi (perché no?), anche contraddittori. Basti pensare che Melville, uno degli autori ormai considerati tra i pilastri della narrativa americana, con il suo capolavoro che è Moby Dick, si affermò come figura letteraria importante solo molto tempo dopo la sua morte, avvenuta in mezzo alla povertà ed all’incomprensione più totale. L’accostamento a Melville non è casuale, perché, se ne dispiacciano o no i critici ufficiali, Jack London appartiene a quel genere di narrativa che ha fatto grande la letteratura americana. E’ quella letteratura che ha la sua dimensione più importante nel “vissuto”, nell’irrequietezza e nella spinta alla ricerca di se stessi. E’ la vita vissuta che fornisce la materia sulla quale far derivare l’ispirazione letteraria. La vita di questi autori è però anche una vita un po’ particolare . La letteratura di questi scrittori è incentrata cioè su dure esperienze esistenziali, sulla vita di strada, a contatto con reietti e avventurieri, su viaggi ed avventure in luoghi selvaggi. Jack London appartiene alla schiera di questi autori e merita un posto d’onore nell’olimpo dei grandi scrittori americani. Come scrisse Andrew Sinclair, biografo di Jack London:
''“Quelli che seguirono il suo modo drammatico di vita e la sua maniera di scrivere nervosa e disadorna, come Ernest Hemingway, dimenticarono di attribuirgli il merito d’avere inventato uno stile che aveva più contatti con l’Alaska di London che con la Parigi di Gertrude Stein. Jack ricevette anche pochi ringraziamenti da John Dos Passos o da Steinbeck o Kerouac per avere precorso il romanzo ‘vagabondo’ con The Road. Norman Mailer non ha mai lodato lo scrittore che, con estrema immediatezza, ha preso il pugilato come argomento di alcune delle sue cose di giornalista e scrittore”.
Jack London comincia già da ragazzo a fare vita di strada. Giovanissimo si imbarca in un battello diventando pirata di ostriche. Parteciperà alla caccia alla foca nel mare di Bering. Subito dopo si unirà ad un esercito di disoccupati diretti a Washington , facendo vita da vagabondo tra vagoni di treni, strade di campagna e una prigione(queste esperienze saranno raccolte nel volume “La Strada”). Comincia giovanissimo a divorare libri di ogni genere. Saranno soprattutto i saggi che leggerà ad influenzare non poco la sua ispirazione letteraria: tra i suoi autori preferiti figureranno Darwin, Marx, Nietzsche e Spencer, autori che diventeranno la fonte delle sue ispirazioni letterarie. Un’esperienza di vita decisiva per la sua produzione letteraria sarà quella della corsa all’oro nel Klondide, tra il 1897 e il 1898. In uno dei suoi più celebri racconti scriverà: “Di tutto, questo è rimasto: l’aver lottato e l’aver conosciuto. Questo sarà il guadagno del gioco, anche se sarà perso l’oro della posta”. Va detto che questa frase stupenda riassume un po’ tutta la personalità del nostro formidabile autore, che ha espresso bene nella sua opera l’amore per la vita, lo slancio dell’individuo che non si arrende, che vuole conoscere e lottare, che vuole confrontarsi con la realtà, sia che si trovi alle prese con il deserto di ghiaccio del Klondide , con le onde tempestose dell’oceano e sia che si trovi nei bassifondi di una metropoli come la Londra di inizio Novecento. Dal Klondide London tornò con pochi grammi d’oro; altro era però il tesoro che egli portò con sé: l’enorme mole di esperienze personali, vissute ai “limiti”, a contatto con la wilderness del Grande Nord e con il bagaglio delle storie che circolavano tra i cercatori d’oro, storie violente, estreme e affascinanti, nelle quali il coraggio, i difetti e le virtù umane venivano duramente sollecitate. Forse è proprio nei racconti del Grande Nord, che Jack London ha dato la migliore prova di sé, con riferimento agli esercizi di stile: “Farsi un Fuoco” , per primo, e poi “L’amore per la vita”, “Batard”, “Perdere la faccia”, “Il silenzio bianco”, “In un paese lontano”, “La legge della vita”, “L’imprevisto” e tanti altri, restano i suoi piccoli capolavori. In questi racconti che si leggono tutti d’un fiato, dall’intreccio e dal ritmo avvincente e coinvolgente, vediamo aggirarsi uomini e cani in ambienti off-limits , alle prese con territori ostili, con una natura che mette alla prova l’individuo o gli individui, facendo cadere molte loro illusioni, consuetudini e valori che essi si portano con la civiltà. Siano essi uomini, cani o lupi, tutti sono decisi a lottare per quell’ “amore della vita” che alla fine forse risulta essere uno dei nodi, oltre che letterari, anche esistenziali nell’opera di Jack London (potremmo parlare quasi di vitalismo in proposito). Il confronto con la natura selvaggia, con il Wild, con i suoi pericoli e le sue avversità è sicuramente uno dei temi centrali in molti racconti e romanzi di Jack London. In pochi altri scrittori si ritrova una tale forza ed incisività narrativa nella rappresentazione del mondo selvaggio. Un fatto importante da notare è che Jack London non ha mai proposto però una visione romantica della natura. La tentazione di cascare nel romanticismo è stata ed è sempre forte per gli scrittori che si confrontano con la bellezza delle grandi distese selvagge. L’armonica bellezza della natura ovviamente emerge a volte nelle sue storie, ma quasi fuggevolmente, come in questa descrizione presente ne “Il canyon tutto d’oro”:
''“Ogni cosa si muoveva fluttuando nel cuore del canyon. I raggi del sole e le farfalle fluttuavano avanti e indietro tra gli alberi. Il ronzio delle api e il mormorio del torrente erano un fluttuare di suoni. E il fluttuare dei suoni e il fluttuare dei colori parevano intrecciarsi insieme per creare una trama impalpabile che non era lo spirito del luogo. Era lo spirito di una pace che non era quella della morte, ma di una vita dal pulsare lieve, di una calma che non era silenzio, di un movimento che era azione, di una serenità palpitante di energia, senza la violenza della lotta e della fatica. Lo spirito del luogo era lo spirito della pace dei vivi reso sonnolento dal placido benessere della prosperità, e non disturbato da voci di guerre lontane”.
Ma la natura è, nell’opera di London, estremamente conflittuale. Nella wilderness vale la lotta violenta per la sopravvivenza, una lotta feroce e senza remore nella quale l’uomo è lasciato in balia del caso e della completa indifferenza della natura. La visione conflittualista di Jack London non è però confinata solo alla natura, ma alla società intera, definita essenzialmente dalla lotta di classe. Con ciò va ribadito che, a differenza di alcuni giudizi stereotipati che si leggono sui suoi libri (magari formulati avendo in realtà letto poco e superficialmente di essa), il darwinismo sociale è estraneo all’opera di London; per egli la lotta per la sopravvivenza e la supremazia del più forte non si trasferiscono meccanicamente dalla natura alla società. La lotta per la sopravvivenza ha come corollario in società la lotta di classe, la lotta condotta dagli emarginati per uscire da quello che egli chiamava “l’abisso sociale”, cioè l’esclusione e l’emarginazione delle classi subalterne, alle quali Jack apparteneva. Nei suoi romanzi e racconti non esistono ambiguità in proposito. Sicuramente egli avrà potuto, di tanto in tanto, su articoli di carattere saggistico e in alcuni racconti più mediocri, fare affermazioni contraddittorie; ma il nostro Jack era uno scrittore, non un filosofo o un teorico del socialismo, ed è la sua opera letteraria che va valutata. Marx e Nietzsche sono stati ugualmente importanti nel dargli la verve creativa; che poi siano incompatibili in un sistema filosofico coerente, be’, questo è un altro discorso. La wilderness sarà anche la protagonista dei suoi due romanzi più conosciuti: “Zanna Bianca” e “Il Richiamo della Foresta”. In questi romanzi si immedesimerà fortemente con cani e lupi e ripercorrerà attraverso le vicende di Zanna Bianca e del cane Buck la tentazione dell’avvicinamento o (di contro) dell’uscita dalla civiltà dell’uomo. Il fatto che egli riesca addirittura a “sentire” ciò che può provare un lupo, la dice lunga sul suo talento di scrittore. Come afferma lo scrittore Lagioia:
“Altra caratteristica di Jack London che tutti gli scrittori venuti dopo di lui non possono fare a meno di invidiare, è la strabiliante capacità mimetica: la facoltà, vale a dire, di mettere credibilmente in scena qualunque tipo di personaggio. Probabilmente sarà stato aiutato dal suo ricchissimo bagaglio di esperienze e da una capacità di osservazione non comune. Ma esperienza e occhio buono non servono a molto se non vengono messi a servizio di un talento quasi demoniaco. Jack London è capace di calarsi con una sconcertante facilità nei panni di proletari, aristocratici, operai, malati di mente, bambini, vecchi, madri, assassini, poliziotti, rivoluzionari, maggiordomi, giornalisti … senza tra l’altro limitare questa facoltà al solo genere umano: quando dalle sue pagine a un certo punto salta fuori un lupo, ci sembra stranamente di essere nella testa del lupo, di pensare insieme a lui; la stessa cosa per orsi, cani, caribù fino ad attraversare una soglia piuttosto inquietante – quella tra organico e inorganico – oltre la quale London può convincerci di essere capace (e noi, leggendo, capaci insieme a lui) di incarnare lo spirito, il senso (il pensiero?) di una distesa di neve, di un ruscello, di una roccia, di un cadavere, di una locomotiva. Ci vuole un talento quasi demoniaco, dicevo, perché la sensazione è che London possegga letteralmente ogni cosa, vivente e non vivente, che gli capita a tiro.”
Nelle vicende di questi due romanzi tornano cari a Jack London i temi classici presenti anche nei racconti del Grande Nord: l’adattamento all’ambiente e la lotta per la sopravvivenza e la supremazia, il confronto con la natura e il mito della forza. Eccezionale è la prima parte di “ Zanna Bianca”. I capitoli dedicati al lupetto che esce dalla tana trovandosi davanti ad un mondo del tutto nuovo e sconosciuto per lui, con le sue forze e i suoi elementi naturali, racchiudono a mio avviso alcune delle pagine più belle di London. Un motivo che sarà presente anche in altri libri si riferisce alla . . . ricerca dell’amore. Zanna Bianca e Buck, dopo aver vissuto sulla propria pelle le crudeltà di avventurieri senza scrupoli, che li utilizzano come cani da lavoro e da combattimento, scoprono, alla fine, il sentimento di solito umano, ma in questo caso anche animale, dell’amore, che essi ritrovano nell’incontro con un padrone buono (il “dio buono”). I due animali, a metà tra lupi e cani, dall’identità problematica (come è stata del resto, quella di Jack London) faranno il percorso inverso. Buck, dalla civiltà simboleggiata da una villa in California arriverà , alla fine del romanzo, a vagare con i lupi: a ritrovare, seguendo i suoi istinti primordiali, l’antico stato selvaggio; Zanna Bianca verrà invece addomesticato come un cane, e si ritroverà anch’egli in una villa immersa nel sole della California, ma alla fine del libro, alla conclusione del suo percorso di avvicinamento all’uomo. A scoprire con ardente passionalità il sentimento dell’amore sarà anche Martin Eden, il protagonista dell’omonimo romanzo autobiografico di Jack. Per amore di una ragazza dell’alta borghesia, Martin si impegnerà con tutte le sue forze per uscire dall’emarginazione sociale e dal mondo della strada, trovando nei libri e nella vocazione dello scrittore la più grande forza di emancipazione personale. La perdita dell’amore con l’abbandono della ragazza, che mai riuscirà a capire un ragazzo del proletariato come lui (infarcita com’è di pregiudizi piccolo-borghesi) e la crisi di identità che sopravverrà con il suo successo come scrittore, ormai distaccato sia dal popolo che dalla borghesia, emarginato da una società che gli appare ormai come estranea, porteranno Martin Eden -Jack London al suicidio. Secondo Amoruso:
“ . . . quella di Martin Eden è una classica storia americana di successo e di fallimento da romanzo naturalista, non dissimile da quelle che scriveva un romanziere come Frank Norris (McTeague,1899). London ne accentua i tratti deterministici, e in particolare i nessi paradossali di una ironia tragica, grazie ai quali l’ascesa sociale del protagonista è narrata come una progressiva regressione autodistruttiva, verso una condizione di deserta solitudine, da animale in trappola, dentro rapporti sociali ipocriti e menzogneri che lo stritolano e ne inceneriscono ogni futuro possibile. Tutte le varie, accelerate tappe di educazione alla realtà sono in realtà un riavvolgersi della sua vita all’indietro, un finto progredire che, in realtà, mette a nudo passo dopo passo la giungla spietata, l’arida, immutata terra desolata del suo presente, perché in esso nessun futuro, nessun affrancamento e nessuna utopia sono davvero possibili.”
Martin Eden è anche la storia di una vocazione letteraria. La storia di un proletario, un robusto ragazzo di strada, che scopre la letteratura e i nuovi orizzonti che i libri possono farci dischiudere. E’ anche il racconto di un uomo estremamente sensibile che cerca di uscire dall’ “abisso sociale”, con le proprie forze, sia mentali che fisiche, con la caparbia determinazione a superare gli ostacoli. Si ritrova anche qui l’impulso volontaristico dell’individuo, l’amore della vita che conduce a sfidare se stessi e le forze insormontabili dell’esclusione sociale. L’individualismo , in questo senso, è presente in Jack London, ma da ciò non discende che egli fosse un individualista. Il fatto è che Jack , come abbiamo detto, era un ragazzo della working class e, come egli stesso scrisse una volta in una lettera, aveva contato solo sulle proprie forze per non cadere nell’ abisso sociale nel quale era destinato a precipitare. Questo spiegherà nel saggio "Perché sono diventato socialista":
"(incontrai) marinai, soldati, lavoratori, tutti straziati e distorti e sformati dal lavoro, dagli stenti e dalla sorte, e abbandonati alla deriva dai loro padroni come fossero cavalli invecchiati. Io mi trascinai in giro con loro, e sbattemmo insieme molte porte; o tremai insieme a loro dentro vagoni abbandonati e nei parchi pubblici, ascoltando in continuazione storie personali che iniziavano con gli stessi auspici della mia vita, con uno stomaco e un corpo buoni quanto il mio o anche migliori, e finite lì, davanti ai miei occhi, nel mattatoio in fondo all'Abisso Sociale. E mentre ascoltavo il mio cervello cominciò a funzionare. La donna di strada, l'uomo dei bassifondi si fecero sempre più vicini a me. Vidi l'immagine dell'Abisso Sociale con la nitidezza di un oggetto concreto, e in fondo all'Abisso vedevo loro, e me appena sopra di loro, che mi aggrappavo alle pareti scivolose con l'unico aiuto dei muscoli e del sudore. [ ... ] Penso sia chiaro che il mio individualismo aggressivo mi fu tirato fuori a martellate, mentre qualcos' altro mi veniva inchiodato dentro con la stessa forza. Ma, proprio come ero stato individualista senza saperlo, adesso ero socialista senza saperlo, e per di più, un socialista non scientifico. Ero rinato, ma non avevo avuto un nuovo nome, e mi aggiravo freneticamente cercando di sapere cosa fossi."
Solo con la sua caparbia volontà e forza interiore e dopo tanti sacrifici, riuscì alla fine a diventare uno degli scrittori più pagati d’America. La fama e il successo non faranno però di lui un uomo felice, ma anzi gli procureranno un sacco di guai originati da investimenti di denaro sbagliati (ma non solo), tanto che cadrà anche negli eccessi dell’alcool: in un altro grande libro “on the road”, uno di quelli meglio riusciti e completamente autobiografico, “John Barleycorn”, racconterà il suo rapporto di amore-odio con l’alcool, dall’adolescenza fino all’età adulta. Jack London lungi dall’essere ideologicamente individualista era invece anche un militante socialista, uno scrittore che ha lottato per trasformare la società. Molti critici marxisti esalteranno London proprio per le opere di carattere sociale, incentrate sulla lotta di classe e sulla vita del proletariato delle metropoli. “Il Tallone di ferro” si colloca al primo posto in questa parte della narrativa di London. Tra i militanti di sinistra ebbe sempre molto successo; era uno dei libri preferiti di Lenin ed ebbe l’onore di essere pubblicato in un’edizione con l’introduzione di Lev Trotskij. La visione di Jack London sul futuro della società umana però non è ottimistica. Dirà in una sua lettera: “Vedo anni e anni di guerre e sofferenze per la classe operaia. Vedo una classe media ferocemente disposta a tutto per non perdere il potere”. In questo romanzo di fantapolitica riuscirà addirittura quasi a profetizzare, inconsapevolmente, l’avvento del fascismo e del nazismo, quando parlerà delle “Centurie Nere”, i mercenari pagati (nel romanzo) dal grande capitale per reprimere il movimento operaio organizzato. Altra opera di carattere sociale e di denuncia risulta essere “Il popolo dell’abisso”, una sorta di inchiesta sociologica basata sul resoconto di un’estate passata da Jack nei bassifondi più miseri e degradati di Londra. Viene subito in mente l’accostamento con un’altra opera di uno dei colossi del pensiero contemporaneo: “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, realizzata da Engels ad appena venticinque anni; una delle prime inchieste sociologiche basate sulla tecnica dell’ “osservazione partecipante”. Dirà Jack nella sua introduzione al libro:
“Sono sceso nei bassifondi di Londra, come un esploratore penetra in regioni inesplorate. Ero deciso a credere solamente a ciò che avrei visto, piuttosto che agli insegnamenti di coloro che avevano scritto senza vedere, o alle parole di coloro che avevano visto e se n’erano andati prima di capire. Inoltre portai con me alcuni semplici criteri per giudicare il mondo sub-umano. Tutto quanto produce maggiore intensità di vita, di salute morale e fisica, è buono; invece, tutto quanto ferisce la vita, la falsa e l’avvilisce, è cattivo.”
Anche questo libro, pieno di tensione morale, non è a ben vedere tanto dissimile da quelli dedicati allo Yukon e alla corsa all’oro. Nelle affermazioni riportate sopra egli fa, come si nota, il confronto con l’esploratore della natura. Cambia lo sfondo dell’azione ma l’intento è sempre lo stesso: non avere paura di confrontarsi col mondo, con le sue miserie e le sue avversità; non avere paura di cercare, di conoscere e di avventurarsi nei contesti ambientali più disparati. Jack denuncerà le terribili condizioni di vita di milioni di diseredati, causate da un sistema economico ingiusto e disumano com’è stato e com’è tuttora il capitalismo. Nel finale del libro, Jack procederà ad un confronto con la vita dei popoli “primitivi”, che egli aveva conosciuto bene in Alaska, e si domanderà se la nostra civiltà , quella industriale, abbia davvero migliorato la vita dell’umanità:
“Allora si pone quest’altra ineluttabile domanda: Se la civiltà ha realmente aumentato la potenza produttiva dell’individuo, perché non ha, contemporaneamente, migliorato le condizioni di vita di tutti? A questa domanda c’è una sola risposta: gestione cattiva. La civiltà ha reso possibile molto benessere materiale, molte gioie intellettuali, a cui l’uomo del popolo inglese non partecipa affatto. E se, per sempre, deve esserne escluso, la civiltà ha fallito la sua missione, e non c’è nessuna ragione perché continui un’organizzazione artificiosa che ha dimostrato in modo così flagrante il suo fallimento. Ma è impossibile che gli uomini hanno costruito invano questo tremendo artificio. Ecco quel che l’intelligenza si rifiuta ostinatamente di ammettere. Accettare una tale disfatta, significherebbe dare il colpo di grazia allo sforzo e al progresso umano. C’è una sola alternativa possibile: costringere la civiltà a migliorare le condizioni di vita del popolo.”
Dopo quasi cent’anni dalla morte di Jack, il progresso della civiltà umana continua ad essere segnato dalle ombre della distruzione e della morte, da guerre e carestie. Le tue domande restano attuali caro Jack, e la sensibilità, la passione che hai messo nella tua vita e in quei libri che noi ancora continuiamo a leggere, il tuo slancio vitale, restano per noi una fonte inesauribile di ispirazione . . .
Principali libri di Jack London:
Racconti dello Yukon e dei Mari del Sud – Mondadori;
Racconti del Grande Nord – Newton Compton;
Zanna Bianca – BUR; Il Richiamo della foresta – Mondadori;
Martin Eden – BUR;
La strada – Einaudi;
Il Tallone di Ferro – Feltrinelli;
John Barleycorn – Acquerelli;
Il popolo dell’abisso – Sonzogno;
mercoledì 5 settembre 2007
Amico e alleato
sabato 1 settembre 2007
Diario - 30/31 Agosto 2007
L’anello delle Aquile: Timpa di San Lorenzo - Lisci - Scala di Barile
L’itinerario, percorso assieme all’amico Vincenzo, ha richiesto due giorni di duro cammino con 11 ore di marcia per ciascun giorno. Questo trekking attraversa parte del settore orientale del parco, snodandosi tra enormi speroni rocciosi e gole dai dirupi spaventosi, in un ambiente profondamente suggestivo, aspro e selvaggio. L’itinerario è abbastanza faticoso e per certi versi anche rischioso. Siamo partiti da Acqua Tremola salendo per la strada che risale fino al Rifugio Segheria, passando per la fonte Chidichimo e che poi incrocia la strada di pastori che conduce alla Falconara. E’ un percorso ideale per la mountain bike, in quanto lo sterrato è ben praticabile. La strada dei pastori che risale a destra è stata ribattezzata da noi “il sentiero dei prugni”: infatti è tutta costeggiata di prugni selvatici. Questa strada porta alla Falconara, uno strano sperone roccioso a forma di dente di squalo che si erge per centinaia di metri dai pascoli sottostanti. Più avanti sorge la mastodontica Timpa di San Lorenzo, che adesso ci apprestiamo a scalare. L’ambiente tutt’intorno è spoglio e brullo anche se si trovano boschetti di pino nero e di cerro.
Più sopra, in direzione le cime del massiccio del Pollino, comincia l’estesissima foresta della Fagosa, che ammanta di verde le montagne dai versanti est. La zona è tutta caratterizzata da pascoli e seminati con solitarie masserie di pastori. E’ un ambiente che dà un’impressione di desolazione e persino di malinconia, ma forse in questo sta il suo fascino. Arriviamo alla base della Timpa e prendiamo il sentiero, ora segnalato (fin troppo) bene che porta alla vetta. Qui il panorama è eccezionale: sotto di noi, centinaia e centinaia di metri giù scorre il Raganello, che attraversa la gola di Barile, la quale separa Timpa di San Lorenzo dalla selvaggia e imponente Timpa di Cassano. Scendiamo lungo la cresta tenendoci sotto il filo nei pressi dei crepacci e dei punti più scivolosi.
Non si può seguire la cresta fino alla fine, perché diventa molto ripida; perciò ad un certo punto bisogna tagliare a sinistra scendendo in direzione delle masserie vicino al paese di San Lorenzo Bellizzi. La zona che bisogna attraversare, senza percorso obbligato perché non c’è sentiero, è quella dei Lisci di San Lorenzo, un ambiente caratterizzato da rocce scivolose e pietrisco e quindi anche un po’ pericoloso. Piano piano, procedendo a zig zag, e dopo circa due ore riusciamo a scendere lungo la dorsale arrivando alle masserie sotto di noi. Questa ha rappresentato la parte più difficile e rischiosa - e quindi anche snervante - dell’intera escursione. Arrivati alla frazione abbiamo bisogno di rifornirci di acqua e per questo la andiamo a chiedere a dei contadini che, molto gentili, ci riempiono subito le nostre bottiglie e scambiano quattro chiacchiere con noi. Procediamo lungo le stradine del villaggio dirigendoci in direzione del torrente Raganello, verso la Gola di Barile. Sono ormai le sette di sera ed è ora di allestire il campo. Ci accampiamo proprio sulla riva del torrente Raganello, così possiamo lavarci un po’, rinfrescarci i piedi e piantare la tenda in piano sulla sabbia. La Gola di Barile ci sovrasta con i suoi inquietanti dirupi rocciosi. Fa molto caldo e il sacco a pelo serve solo come materassino.La mattina dopo sgomberiamo il campo e ricominciamo a camminare. Adesso ci dirigiamo verso la sommità di Palma Nocera, per trovare l’imbocco del sentiero, che attraversa la spaventosa Gola di Barile. Il primo tratto del sentiero è scavato nella roccia e anche molto ripido. Non ci sono parole né basta qualche foto per descrivere lo spettacolo a cui assistiamo lungo il tragitto. In fondo scorre il torrente Raganello e davanti a noi si mostra in tutta la sua imponente maestosità il versante scosceso della Timpa di San Lorenzo, (sulla cui sommità eravamo stati il giorno prima) che si erge dal fondo della gola per centinaia e centinaia di metri. Come sfondo musicale per questo scenario andrebbe bene una delle musiche dei Popol Vuh per i film di Werner Herzog… Ci mettiamo a scherzare su questa nostra fantasia mettendoci ad imitare con la voce una delle loro colonne sonore… Qui crescono abbarbicati alle rocce alberi di leccio e di carpino. Soprattutto il leccio popola moti ambienti rocciosi del Pollino. In posti come questi la natura mostra il volto allo stesso tempo meraviglioso ed inquietante della sua grandezza e della sua supremazia … Poche volte e solo in posti come questi si possono avvertire quelle sensazioni estreme che ci fanno sentire al cospetto delle gigantesche forze naturali. Alla fine comunque, questo sentiero che visto da lontano faceva rabbrividire si rivela invece abbastanza comodo. Sicuramente bisogna stare attenti perché se si scivolasse si finirebbe direttamente in fondo alla gola, sui massi del Raganello. Il sentiero abbandona poi la zona rocciosa attraversando boschetti di leccio e di cerro. Si lascia la gola e si prosegue fino all’incrocio di una strada che scende da Colle Marcione.
All’inizio seguiamo, sbagliando, una strada che sembra portare sopra sulla strada asfaltata. Ma ad un certo punto siamo costretti a tornare indietro perché la stradina si perde in un groviglio di rovi e ginestre.
E’ solo uno dei tanti sentieri del Pollino che si sono perduti con la progressiva diminuzione del pascolo. Le mie povere gambe sono tutte graffiate e sanguinanti perché sono venuto coi pantaloni corti: la raccomandazione di portarsi sempre i pantaloni lunghi in montagna dovrebbe sempre essere rispettata! Alla fine decidiamo di seguire la strada che sale e che (da come posso notare sulla cartina) porta a Colle Marcione. Nel libro di Braschi l’itinerario dell’Anello delle Aquile prevedeva di scendere giù, attraversare il torrente e poi proseguire verso Sant’ Anna. Ma abbiamo ormai non molte ore di luce davanti e non sappiamo in che condizioni sono i sentieri. Da un giorno e mezzo inoltre, dato che non c'è linea telefonica, non siamo riusciti a telefonare a casa; perciò decidiamo di portarci sulla strada che sebbene lunga, ci condurrà direttamente sotto la Falconara, dalla quale dobbiamo prendere la via del ritorno. La strada, da Colle Marcione, attraversa belle masserie circondate da seminati molto estesi. Un altro pastore, nella sua casetta isolata difesa da due grossi cani neri, ci farà riempire di acqua le nostre bottiglie ormai vuote. Per arrivare alla Falconara ci vorranno tre ore e altre due da lì per scendere ad Acqua Tremola. Questa escursione è stata molto dura, ma la fatica è stata ampiamente ripagata. Di nuovo il nostro Pollino ci ha catturati con la sua possente, meravigliosa bellezza …
domenica 26 agosto 2007
Animali "vaganti"
mercoledì 15 agosto 2007
Diario 13 agosto 2007
Monte Pollino cresta sud-ovest - cima - versante nord-est
Il percorso che conduce da Colle Gaudolino alla cima del Pollino è uno di quelli più belli e “frequentati”. L’imbocco è nella parte alta del piano, nella direzione di un gruppo di faggi isolato. Il sentiero si snoda all’inizio in un tratto boscoso con grossi faggi che spesso affondano le loro radici nella roccia per poi sbucare in alto tra le rocce assolate dominate da alcuni caratteristici pini loricati. Da qui si sale in cima senza percorso obbligato. E’ preferibile mantenersi sulla dorsale rocciosa, a sinistra, per godersi lo spettacolo dell'anfiteatro di pareti rocciose popolate da colonie di monumentali pini loricati che sovrastano i boschi sottostanti. Mi allontano dalla sommità della dorsale aggirandomi tra le rocce sottostanti per fare qualche foto un po’ più originale. Per ritornare sulla sommità devo arrampicarmi su enormi massi dalla forma squadrata. In questi casi bisogna stare attenti per il pietrisco scivoloso e perché alcune pietre possono staccarsi e rotolare giù investendoci. Quando ci si aggrappa ad una roccia bisogna perciò assicurarsi che sia stabile. L’arrampicata libera è comunque sempre divertente. E’ una bella giornata oggi, ideale per fotografare il paesaggio. L’aria è tersa e il cielo è pieno di nuvole erranti. In cima sono accampati due escursionisti e altri tre giungono alla meta dopo di me. Dalla cima mi dirigo verso il versante nord – est che scende giù fino a Sella Dolcedorme. Lungo la facile discesa incontro un caratteristico gruppo di piccoli pini loricati. Su questa dorsale sono quasi del tutto assenti grossi pini loricati. Dalla sella (insenatura che separa il Pollino dal Dolcedorme) si prende il sentiero che porta ai Piani di Pollino. L’itinerario che ho scelto è ad “anello” e prevede adesso di percorrere non la strada dell'andata ma un altro sentiero che dai Piani di Pollino conduce alla località di partenza, Gaudolino. Il sentiero si prende dalla strada che conduce a Vacquarro la quale inizia all’estremità sud – ovest dei piani. Il sentiero è quasi pianeggiante all’inizio, poi si fa più ripido scendendo bruscamente al Colle Gaudolino. E’ uno dei tanti sentieri poco frequentati e conosciuti del Pollino. Da Gaudolino si discende fino a Colle Impiso…
mercoledì 1 agosto 2007
Diario - 29 luglio 2007
Da Celsa Bianca a Pollinello
In quest’escursione non ho voluto toccare nessuna cima. La mia curiosità si è soffermata sulla cresta di Celsa Bianca, crinale che delimita a sud ovest la Serra Dolcedorme, separandola dal Monte Pollino. Questa è probabilmente una delle zone più selvagge del massiccio. Pochi turisti saranno scesi (o saliti) su questo crinale aspro e molto ripido nell’ultimo tratto. Dato che avrei voglia di rivedere il patriarca, il pino loricato più longevo dell’intero Pollino, prendo un sentiero che conduce alla splendida Serra del Pollinello, dove si trova anche il pino “gemello” immortalato da Giorgio Braschi sulla copertina del suo libro capolavoro: “Sui sentieri del Pollino”. Il sentiero non è segnato sulla cartina e sembra all’inizio non essere disgiunto da quello che da Gaudolino conduce a Pollinello. Questo curioso nome è legato al fatto che questo luogo sembra un altro monte in miniatura attaccato al Monte Pollino…un piccolo Pollino insomma. E’ uno dei tanti toponimi curiosi della nostra montagna, la quale vanta una serie di nomi che spaziano da quelli più romantici (Dolcedorme), a quelli legati alla civiltà greca (Pollino, appunto) a quelli che evocano immagini bibliche e terrifiche o le gesta di antichi eremiti (Timone Salomone, Cozzi dell’Anticristo, Serra del Prete) ai nomi più rustici e popolari, che sono quelli più diffusi (esemplare è il Monte Grattaculo).Sarebbe interessante fare una ricerca sull’origine di questi toponimi, i quali dimostrano come il Pollino, a dispetto della sua immagine di regione aspra e selvaggia, è stato sempre popolato e attraversato dall’uomo. La segnaletica come ho spiegato più volte, lascia a desiderare, così un giorno mi sono ritrovato sbagliando la traccia, non a Pollinello, ma sopra di esso(sull’omonima serra). Arrivato alla serra, vado subito a far visita al Patriarca. E’ nascosto tra i faggi e da lontano si vede solo la cima; per osservarlo in tutta la sua maestosità bisogna scendere giù superando gli alberi che ostruiscono la sua visuale completa. Per fotografarlo tutto intero è necessario un grandangolo, altrimenti dovete scegliere tra il soffermarvi sulla cima oppure sul tronco … perché è così grosso che non entra nell’inquadratura. Il tronco misurerà circa più di tre metri di diametro e le radici sembrano scorrere sulle rocce come un torrente. Dopo aver fatto qualche foto (insignificante, a dir la verità … ripeto, senza grandangolo non si fa niente), mi dirigo, seguendo il limite del Bosco Pollinello, verso Sella Dolcedorme,che separa Pollino da Dolcedorme. Poi vado a prendere la cresta di Celsa Bianca. Arrivato sulla sommità del crinale mi si apre subito uno scenario mozzafiato: centinaia di pini loricati fanno da anfiteatro ai crinali scoscesi del Dolcedorme, che da qui si osserva in tutta la sua possente bellezza… La cresta all’inizio è pianeggiante, poi comincia a scendere bruscamente; per brevi tratti è invasa da piccoli faggi. In alcuni punti si aprono sotto di me burroni spaventosi: i crinali scendono bruscamente nella foresta sottostante, per centinaia e centinaia di metri. Anche in questo caso ci vorrebbe un bel grandangolo per immortalare gli scenari che si rivelano allo sguardo passo dopo passo. Sento tra i faggi il rumore di un animale che, avendo avvertito la mia presenza, s’è messo a correre giù per il bosco. Sicuramente sarà un grosso cinghiale … La cresta scende sempre di più e la sommità del Dolcedorme non si vede più. Scendere per la cresta è stato facile; salire, facendo il percorso inverso sarebbe molto faticoso, ma anche accattivante. I prati di Pollinello sono sotto di me ormai. Devo solo attraversare il fossato che divide Celsa Bianca dal Pollinello ed il gioco è fatto. Non resta che proseguire per il sentiero (uno dei più belli del parco) che taglia i versanti meridionali della montagna arrivando al Colle Gaudolino, il pianoro che sta alla base del Monte Pollino… Caratteristico è il tratto di sentiero scoperto, scavato nella roccia, dal quale si possono ammirare le pareti rocciose della montagna a cui sono aggrappati monumentali pini loricati. Da Gaudolino si prosegue scendendo fino a Colle Impiso…
mercoledì 25 luglio 2007
Diario - 24 luglio 2007
Monte Alpi - foto by Indio
Il giardino del Monte Alpi
Il monte Alpi non fa parte del massiccio del Pollino, ma è compreso comunque nel comprensorio del parco nazionale. Da casa mia la sua sagoma maestosa fa da cornice a tramonti spettacolari… L’occasione per un’escursione sul Monte Alpi, che da tempo volevo fare, è venuta con l’amico Vincenzo, che mi ha proposto ll'ascensione a questa montagna. Non conosciamo la zona, per cui dobbiamo aiutarci, arrivati nei pressi di Latronico, con la dettagliata cartina realizzata dal grande Giorgio Braschi e con le indicazioni delle persone. La gente forse pensa, da quello che dice, che siamo dei tecnici venuti ad ispezionare l’incendio che ieri ha bruciato buona parte della macchia mediterranea che circonda le pendici della montagna. Un sentiero dovrebbe iniziare da una fantomatica contrada Salicone che nessuno sembra conoscere. Alla fine ci indicano un’altra strada, che sale dalla frazione Calda formando una serie di tornanti e poi da asfaltata diventa sterrato. Percorriamo un tratto di bosco bruciato, dove ancora resistono dei focolai. Procediamo ancora e il territorio comincia ad assumere i tipici caratteri del paesaggio montano. Siamo nella località Canale del Grillone. Notiamo curiose rocce rossicce che sembrano essere(non so il nome specifico, data la mia ignoranza in geologia) rocce laviche. Troviamo fortunatamente una fontanella da cui esce appena un filo d’acqua: per riempire le borracce ci vuole un quarto d'ora. Non troveremo altre sorgenti a parte questa. Il sentiero prosegue nel bellissimo bosco di faggio che ammanta i crinali della montagna. Il sentiero poi ad un certo punto si interrompe e sbuchiamo in un pianoro che si trova proprio sotto la cima del l’Alpi. La parola che ci viene in mente subito per definire questo posto incantato è “giardino reale”. Delle basse macchie di faggio che punteggiano la radura somigliano proprio a quelle siepi che si vedono in TV nei giardini delle grandi regge. Popolano il giardino numerosi faggi dall’aspetto slanciato. Fiori ed erbe di montagna dappertutto. Questo è il posto più bello che ci regala l’escursione. Puntiamo dritti all’avvallamento tra la cima e la Timpa di St. Croce, percorrendo un sassoso sentiero che prosegue, all’uscita dal bosco, fin sotto la cima. Arrivare alla vetta è facile. Il panorama sarebbe eccezionale, se non fosse per la dannata foschia di questi giorni. Si nota comunque la massiccia bastionata del Pollino, i monti della Calabria e a Nord quelli della Campania; i vari paesini della zona e il bel Lago Cogliandrino. Ci spingiamo poi giù, seguendo la linea del crinale, sul quale notiamo allineate curiosamente un gruppo di mucche caratteristiche del Pollino, capaci di arrampicarsi sui luoghi più impervi delle montagne. Per il ritorno prendiamo una scorciatoia che ci riporta direttamente al giardino reale. Arrivati qui, ci riposiamo un po’ e continuiamo ad ammirare questo posto che non può non farci pensare alla meditazione e ad esperienze mistiche. Mi faccio fare da Vincenzo una foto sotto un grosso faggio, mentre sparo la posa di un Buddha sotto l’albero dell’Illuminazione! Sarebbe bello venire qui in primavera, in pieno risveglio della natura, quando la montagna si colora di un verde intenso e i prati si riempiono di fiori. Chissà, un giorno forse ci ritorneremo…
sabato 21 luglio 2007
Diario - 17 luglio 2007
Da Fosso Iannace alla Manfriana
L’escursione è cominciata da Fosso Iannace, percorrendo il sentiero che segue l’imponente gola dove scorre a primavera tumultuoso il torrente omonimo . E’ un bellissimo sentiero, realizzato dalle guide del parco di San Severino Lucano, il quale si può percorrere tutto l’anno, in quanto dei caratteristici ponticelli permettono di aggirare i passi più impervi della gola, procedendo ora sul lato destro ora sul lato sinistro. Il sentiero porta a Piano Iannace, dove arrivo dopo un’ora. L’erba è alta e secca. La giornata è afosa e il sole picchia parecchio. Faccio rifornimento d’acqua alla fonte “Pittacurc” e procedo verso la Piana del Pollino, scendendo per i pascoli dominati dalle rocce di Serra delle Ciavole. Mi dirigo poi verso il Piano di Acquafredda e da qui prendo un sentiero, non ben segnalato a dir la verità, che conduce a passo del Vascello, tra Dolcedorme e Manfriana. E’ uno dei sentieri più belli, che taglia trasversalmente il lato nord-est della montagna. Ad un certo punto il sentiero attravera una zona di pietrisco, piena di macchie di lamponi, con un gruppo di maestosi pini loricati, con le forme modellate dai venti impetuosi. Un pino loricato abbattuto dal fulmine intralcia il sentiero. Me lo ricordo… era alto e slanciato e adesso è a terra, letteralmente spezzato in due. La debole traccia del sentiero si nota appena tra l’erba e le pietre ed in certi tatti è invaso da piccole macchie di faggio. Basterebbe un piccolo lavoro di manutenzione per aggiustarlo e valorizzarlo... anche perché il panorama è bellissimo da qui: di fronte a me si erge la parete della Timpa di San Lorenzo e verso nord-ovest si nota la lunga dorsale della Serra delle Ciavole. A est si vede la lunga cresta della Manfriana che si congiunge alla Timpa del Principe (è stata chiamata la cresta dell’infinito), e sotto di me, l’immensa foresta della Fagosa. Dal Passo del Vascello seguo la cresta rocciosa della Manfriana. Anche da qui si ammira un paesaggio splendido: il Dolcedorme si osserva in tutta la sua maestosità. Sono presenti numerosi pini loricati secchi, aggrappati alle rocce. Verso Mormanno , sulla piccola montagna che lo sovrasta noto i fumi di un incendio. Vedo gli aerei dirigersi verso il mare per rifornirsi di acqua…Con questo caldo il rischio è alto! Al ritorno seguo la strada dell’andata: il percorso è obbligato. Di regola, per un'esursione in tutta calma alla Manfriana converrebe partire dal versante calabrese, nei pressi di Colle Marcione. Comincio ad essere molto stanco, anche perché il sole picchia forte e la borraccia è ormai vuota. Arrivo finalmente alla sorgente del Frido dove posso dissetarmi... mi sembra di rinascere! Ci sono molte mucche che si abbeverano e scambio due chiacchiere con un giovane pastore a cavallo che vedendomi si avvicina. Mi dirigo alla Grande Porta e poi via, comincia la lunga discesa fino a Fosso Iannace!