venerdì 20 marzo 2009

Il taglialegna e l'albero


Sembra che la natura obbedisca ad una logica imperscrutabile. “In montagna c’è il freddo, allora all’uomo che vive nelle sue valli è stato dato il bosco e quindi la legna, e così egli può scaldarsi…” Questa era una riflessione di mio padre che era un grande boscaiolo e conosceva bene gli alberi e la loro personalità. Fin da piccolo lui mi portava nei boschi (di nostra proprietà ovviamente) a fare la legna. Lui si metteva a lavorare e io mi allontanavo un po’ per i sentierini che si snodavano tra i cerri e gli agrifogli che apparivano di tanto in tanto con il loro verde luccicante. E’ in queste occasioni che mi avvicinai al bosco e alla natura. Sono quasi laureato e perciò nella mia vita ho praticato più che altro l’attività intellettuale, ma sono contento di avere appreso, anche se non in maniera completa, l’arte – durissima e faticosa – del taglialegna. Già dai quindici anni mio padre cominciò a insegnarmi come si lavora la legna. All’epoca facevamo tutto a mano. L’abbattimento dell’albero era un’operazione delicata e pericolosa. Si studiava l’albero e la direzione della sua pendenza e poi si cominciava a segarlo con la motosega. Quando l’albero era caduto si divideva in pezzi da circa un metro e mezzo. Alcune volte poteva capitare che, nella caduta, restasse appoggiato ai rami degli altri alberi e allora bisognava o tirarlo con la corda per farlo cadere oppure cominciare a tagliarlo così come era rimasto appeso. Quando era stato tagliato a pezzi, bisognava poi ad uno ad uno alzare i ceppi, a volte davvero grossi e pesanti, e farli stare in equilibrio in verticale. Se il ceppo era lungo di diametro si utilizzavano due cunei contemporaneamente e con la mazza pesante di cinque chili si dava un colpo ad uno e poi all’altro. I cunei non si inserivano a caso… bisognava sfruttare le piccole lesioni già esistenti nel legno: era il segno che il cuneo poteva penetrare all’interno del ceppo. Il cuneo poi non va mai inserito nel cuore, perché quest’ultimo è molto duro, ma nella parte più vicina alla corteccia, in dialetto “la vilinga”. Se i legamenti del legno resistevano si utilizzava un grosso cuneo di legno, la cui funzione è quella di allargare le spaccature che non si aprono. Quando la spaccatura si era allargata abbastanza si spingeva a terra il tronco e si finiva il lavoro con l’ascia. Si rialzava poi una delle metà del tronco e si ricominciava il lavoro, fin quando i pezzi che si erano ricavati risultavano non troppo pesanti per essere maneggiati. Ricordo che all’inizio quando portavo sul cuneo il colpo della mazza, non riuscivo a prendere la mira. Sembra facile, ma ci vuole esercizio. A volte eravamo costretti a tagliare alberi che crescevano sui pendii anche ripidi. Mio padre non amava la comodità a tutti i costi e la sua regola era sempre tagliare (e mai nellos stesso posto!)li alberi “adulti”, anche quelli che crescevano nelle zone più ripide, per fare spazio a quelli più giovani, che potevano così vedere la luce e crescere. Così il bosco sopravvive, si mantiene sempre, diceva. Mai nello stesso posto, sceglievamo ogni anno una zona diversa del bosco.La cosa più aberrante per lui era tagliare le piante giovani, disboscando un'intera area. Lo considerava un vero danno, perché così facendo il bosco scompariva. La vecchia cultura contadina è stata presentata a volte come antiecologica, ma in realtà c’erano dei criteri che venivano sempre rispettati nel taglio della legna. E poi in passato nemmeno esistevano le motoseghe per cui mio nonno e altri ad esempio si procacciavano il legname soprattutto con i muli e gli asini, caricandosi cioè la legna secca, che è sempre abbondante tra i boschi. I veri responsabili dei disboscamenti del Pollino e delle foreste di alta montagna sono state le aziende di legname, che sfruttavano in aggiunta il duro lavoro della manodopera degli operai del posto. Durante gli anni del fascismo fu una ditta tedesca, la Rueping, ad arrecare i maggiori danni ai nostri boschi (pubblici). Quando tagliavamo un albero su un costone dovevamo far ruzzolare tronchi rotondi lungo il pendio, facendoli cascare sulla strada. Ma se la distanza tra il luogo dove sorgeva l’albero abbattuto e la strada era troppo lunga, oppure se la strada era a monte rispetto all’albero, bisognava spaccare la legna sul pendio, accatastarla, e poi portarla sulla strada con una carriola. I tronchi possono essere fatti ruzzolare, ma è una dannazione se si impigliano tra i piccoli alberi e i rovi. Ricordo che a volte dovevamo scavare dei sentierini con il piccone per far procedere la carriola piena di legna. Un giorno d’estate di tanti anni fa portai sulla strada tonnellate di legna con questo metodo, tra gli sciami di tafani che mi avevano infestato! Così “cacciavamo” la legna, che veniva poi accatastata ai margini della strada in “canne”. Una canna di legna è se non ricordo male quattro metri di lunghezza, un metro di larghezza e circa un metro e mezzo di altezza. Anche mettere i pezzi uno sull’altro senza lasciare spazio richiedeva abilità. Mio padre diceva che era come l’arte dei muratori, o meglio dei “mastri”, che un tempo costruivano i muri grazie all’abilità del gioco ad incastro delle pietre rotonde, tenute assieme solo dall’argilla dei fossati. La legna andava poi caricata sul trattore o sul motozappa e scaricata dove di dovere. Spaccare la legna era e ancora è un lavoro molto duro, e spesso ammiravo la forza di padre che maneggiava ceppi enormi e sembrava non si stancasse mai. Anche adesso, quando c’è da sistemare la legna, spaccarla e accatastarla non mi pesa farlo. E se oggi ho una schiena molto robusta, capace di reggere i molti chili di un trekking di più giorni, è anche grazie a questo lavoro... Ho sempre ammirato gli alberi e ricordo che tanti anni fa si ergeva un quercius cerris secolare nei nostri terreni, altissimo e dal tronco di due metri di diametro. Mio padre diceva che non l’avrebbe mai tagliato. Ma un giorno lo ritrovammo squarciato dalla ferita di un fulmine, che lo aveva sbucciato dalla base fino alla cima. I fulmini uccidono gli alberi come il cerro, perché è come se gli bruciassero il cuore. Posseggo ancora la foto dell’albero ferito a morte. Mio padre allora decise di abbatterlo, perché era ormai destinato a rinsecchirsi. L’albero produsse tantissima legna da ardere, ma che si rivelò non buona per il fuoco, perché il fulmine l’aveva resa fradicia e poco infiammabile. Noi lo avevamo risparmiato, ammirandone la bellezza, ma non era servito, perché la natura aveva deciso già il suo destino…

2 commenti:

  1. Caro Indio
    grazie per l'etichetta di escursionista-poeta, ma tu a quanto pare sei il Mauro Corona del Pollino.
    Bravo. Continua a scaldarci con i tuoi racconti scolpiti nel legno.
    Un abbraccio.
    Nuwanda

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  2. Preziosa testimonianza per un racconto molto significativo.
    Ciao!

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