mercoledì 15 dicembre 2010

"Deserto solitario", di Edward Abbey

Edward Abbey - sotto: la prima edizione di "Desert Solitaire"; uno scorcio degli "Arches"; Abbey mentre fa il tiro al bersaglio; nei pressi della diga Glen Canyon Dam; Brice Canyon.

“No, la natura selvaggia non è un lusso, ma una necessità dello spirito umano, vitale per le nostre esistenze quanto l’acqua e il buon pane. Una civiltà che distrugge quel poco che rimane di essa, di quello che si è conservato nel tempo, delle cose che erano in origine, si separa volutamente dalle sue radici e tradisce il principio stesso su cui essa si basa”

“Se riuscissimo ad imparare ad amare lo spazio con la stessa intensità con cui siamo ossessionati dall’idea del tempo, potremo scoprire un nuovo significato della frase ‘vivere come uomini’”
(Edward Abbey)

Desert solitaire. A season in the wilderness del 1969, pubblicato in Italia da Franco Muzzio Editore, è un libro di Edward Abbey, lo scrittore e ambientalista americano famoso soprattutto per The monkey wrench gang, romanzo cult che divenne un manifesto della controcultura americana degli anni ’70, e che precedette e ispirò l’azione diretta di organizzazioni ambientaliste come Earth First.  Abbey può essere considerato uno degli ultimi grandi wilderness visionaries americani del Novecento (accanto a nomi come Leopold, Douglas, Olson ecc.). Un pilastro fondamentale, quindi, del Movimento Wilderness.  Il libro è basato sull’esperienza che lo stesso Abbey fece negli anni Sessanta come guardiaparco, abitando per mesi in una roulotte, nel territorio degli Arches National Monument, un'area meravigliosa che purtroppo si preparava proprio allora a subire l’invasione del “turismo industriale su larga scala”. Il libro di Abbey è un inno al deserto e alla sua dignità di luogo selvaggio che merita di essere preservato nella sua integrità contro l’invasione della civiltà consumistica. Desert solitaire è insieme un diario di esplorazioni avventurose  ed esperienze solitarie nella natura, un racconto sulla vita di cowboy e indiani, un saggio di ambientalismo radicale e una riflessione sul rapporto tra la società industriale e la natura selvaggia.

Già in prima pagina Abbey comunica immediatamente la sua passione per “il deserto di rocce lisce”… che per egli si configura come “il più bel posto sulla terra”. Abbey mostra un aspetto che ricorre in molti altri naturalisti ed esploratori americani, quello di legarsi ad un luogo in particolare piuttosto che alla natura selvaggia in generale. Così, come per John Muir il luogo preferito era idealmente la Valle dello Yosemite, con Abbey entriamo invece negli scenari maestosi e desolati di canyon e archi di pietra.  “Ogni uomo, ogni donna, porta dentro di sé l’immagine di un posto ideale, quello giusto, la sua vera casa, conosciuta o sconosciuta, reale o immaginaria (…) Per quanto mi riguarda scelgo Moab, nello Utah. Non intendo la città in se stessa,  naturalmente, ma il territorio che la circonda - la terra dei canyon. Il deserto di rocce lisce. La polvere rossa e le rupi bruciate e il cielo solitario, tutto ciò che si trova aldilà della fine delle strade.” La propensione che questo luogo ispira ad Abbey è quella di un’immersione totale nella natura primordiale del deserto, di un contatto diretto e vissuto in solitudine, cercato non solo per evadere dal caos della civiltà urbana, “ma anche per confrontarmi, immediatamente e direttamente se sarà possibile, con gli elementi primi dell’esistenza, con il primordiale e il fondamentale, con la solida base che ci sostiene”... con una natura denudata delle categorizzazioni umane in cui “l’io nudo si mischia a un mondo che non è umano e che tuttavia, in qualche modo, sopravvive incontaminato, individuale, separato.” Un mondo che non tutti riescono a capire e che pertanto cercano di ridurre e “addomesticare” a dimensioni e categorie umane: anche perché forse, come suggerisce Abbey, questo mondo “spaventa non per i suoi pericoli e per la sua ostilità, ma per qualcosa di molto peggio, per la sua implacabile indifferenza”. Il territorio degli Arches per Abbey rimanda alla consapevolezza del “meraviglioso”,  dimensione reale, tangibile, così diversa dagli spazi in cui l’uomo vive abitualmente ma facilmente a portata di mano,  se  la si sa comprendere. “Un oggetto naturale strano, bello e fantastico come Delicate Arch ha la curiosa abilità di farci ricordare - lo stesso avviene con la roccia, la luce del sole, il vento e i paesaggi selvaggi - che laggiù c’è un mondo diverso, di gran lunga più vecchio, più grande e più profondo di quello in cui viviamo (…) Per un po’ siamo di nuovo capaci di vedere, così come vede il bambino, un mondo di meraviglie”. 
 Per Abbey il vero Paradiso è in terra, “se solo avessimo occhi per vederlo”... ed è l’unico Paradiso di cui abbiamo bisogno. 
Il mondo selvaggio, nella sua vastità, ridimensiona la necessità umana di vivere in società e seppure la solitudine conduca a momenti di sofferenza  (“ ci sono ore in cui ci si sente soli. Come posso negarlo?”), nella wilderness sembrano allentarsi i vincoli che ci  legano al mondo civile; la solitudine diventa così la via privilegiata per “ritrovare se stessi”: “ma in mezzo a tale estensione era impossibile pensare ad Albuquerque. Tutte le cose umane si mischiavano con il cielo e scomparivano oltre le montagne e sentivo, come sento ancora - che un uomo non può mai trovare, né avere bisogno di, compagnia migliore di quella di se stesso”. Abbey aggiunge anche che “meglio della solitudine, l’unica cosa meglio della solitudine, è la società”. Abbey riflette proprio sul rapporto tra natura e società, non rifiutando la società in sé, anche perché società non si identifica solo con il frastuono delle città e con tutte le limitazioni e imposizioni subite dai singoli, ma anche e soprattutto con “la convivenza umana in generale. Io intendo la compagnia di un amico o di più amici o di una donna affettuosa”. Per Abbey inoltre, lo stesso sentimento di amore per il selvaggio non è estraneo alla "civiltà": "come potrei essere contro la civiltà se tutto quello che difendo e venero come me stesso - incluso l'amore per la natura allo stato primitivo - è compreso in quel termine?" La questione non è porsi contro l'umanità, la teconologia e la scienza in sè, ma contro "la mania dell'uomo di considerarsi al centro dell'universo, all'antropocentrismo, all'opinione che il mondo esiste unicamente a suo beneficio; non avevo nulla contro la scienza, ma contro la scienza applicata male".  Abbey in un passo contrapporrà Civiltà contro Cultura, intendendo il termine civiltà in un'accezione positiva: "Civiltà è la forza vitale della storia umana; cultura è quell'inerte massa di istituzioni ed organizzazioni che si accumula intorno al progresso vitale e tende a farlo retrocedere..." . Si può dire in sostanza che la Civiltà, per Abbey, racchiuda ogni spinta critica e libertaria dell'individuo tesa a a resistere e far valere le proprie ragioni contro il "potere".
 L'uomo vive dunque in società, l’uomo è un “animale gregario” ma non si può accettare, per Abbey, che egli abbia bisogno  di vivere sempre a distanza ravvicinata con gli altri per sentirsi al sicuro. Altrimenti gli uomini dovrebbero essere equiparati agli ungulati, ad un “gregge di pecore”. E se non si può accettare questo, per vivere autenticamente come uomini  è allora necessario che esistano i luoghi selvaggi. Ecco così che la natura diventa una necessità imprescindibile per l’uomo... "vitale per le nostre esistenze come l'acqua e il buon pane" . Per Abbey abbiamo bisogno dei luoghi selvaggi anche se non entreremo mai in contatto con essi. L’importante però è che quella possibilità sia garantita a tutti. 
“Abbiamo bisogno di un rifugio anche se non ce ne serviremo mai. E’ possibile, per esempio, che durante la mia vita io non vada mai in Alaska, ma sono grato che sia lì. Abbiamo bisogno della possibilità di fuggire così come non possiamo sicuramente fare a meno di sperare…”. Abbey arriva anche a prospettare la funzione “politica” che i luoghi selvaggi potrebbero un giorno detenere, nel caso fosse necessario fuggire da regimi oppressivi ed autoritari: una tesi un bel po’ fantasiosa ma che in fin dei conti ha un fondo di verità... basti pensare, come dice Abbey riferendosi a Vietnam e Cuba, agli eserciti guerriglieri che "nei luoghi selvaggi hanno avuto la loro base logistica per la resistenza al potere centralizzato". 
La wilderness diventa uno spazio-limite,  “altro”, estraneo alle categorizzazioni della civiltà e per questa stessa ragione luogo di libertà per l’individuo che vuole ritrovare il contatto con gli elementi primordiali del mondo in cui vive. Abbey è uno spirito anarchico e ribelle, e sembra annoverare la distruzione e addomesticamento dei luoghi selvaggi come una delle tante manifestazioni del potere totalizzante della moderna “civiltà industriale”. In effetti questo libro di Abbey appare un po’ come il canto del cigno di un' area selvaggia che sta quasi per scomparire. E’ Abbey stesso a dirlo nell’introduzione: “la maggior parte delle cose di cui parlo in questo libro è già scomparsa o sta scomparendo in fretta. Questa non è una guida di viaggio, ma un’elegia. Una commemorazione. Avete in mano una pietra tombale”. I luoghi di cui parla Abbey in Deserto solitario cominciarono a subire l’invasione del turismo di massa e dell’industrializzazione. Nel territorio degli Arches verranno costruiti parcheggi e strade asfaltate per favorire il turismo di massa, mentre il corso del fiume Colorado sarà ostacolato dall'enorme diga di Glen Canyon. Un capitolo del libro (Giù per il fiume)  è proprio dedicato al racconto del trekking in canoa compiuto da Abbey assieme ad un suo amico, lungo le meraviglie del corso del Colorado. “Il mondo del canyon diventa ogni ora più bello, man mano che ci avviciniamo alla sua fine. Crediamo di aver dimenticato ma  non possiamo dimenticare - la coscienza alloggia come lo stronzio nel midollo delle nostre ossa - che per il Glen Canyon è stata pronunciata la condanna a morte”.

Nel capitolo “Una polemica”, Abbey farà il punto sulla gestione della natura nei parchi nazonali dell’epoca. Egli sottolinea come le politiche dei parchi siano dirette a mercificare i territori selvaggi, aprendoli a quello che egli chiama “turismo su scala industriale”. Il turismo di massa comporta la costruzione di strade asfaltate con parcheggi, biglietterie e sentieri attrezzati: tutte cose che sviliscono, deturpano e offendono la bellezza monumentale degli Arches. E i soldi per costruire strade asfaltate, dice Abbey,  saltano sempre fuori, mentre magari non esistono per il personale atto a garantire i servizi informativi e protettivi nel parco. Abbey non è un integralista e pone come alternativa un turismo diverso, che non comprometta l’ambiente integro dei luoghi selvaggi. Nel libro, Abbey faceva proposte concrete, che argomentava in alcuni punti: “1. Niente più automobili nei parchi nazionali. Che la gente cammini. O vada a cavallo, in bicicletta, a dorso di mulo, di cinghiale - qualsiasi cosa- purchè lascino fuori automobili e motociclette e qualsiasi altro veicolo a motore (…) 2. Nessuna strada nuova nei parchi nazionali (…) Dove ci sono già strade asfaltate quelle saranno riservate alle biciclette e ai mezzi necessari per espletare i servizi essenziali dentro i parchi, come i bus navetta…(…) 3. Mettere al lavoro i ranger (…) la gente avrà bisogno di guide. Ci sarà sempre una minoranza avventurosa ansiosa di procedere da sola, e nessuno dovrebbe porre ostacoli al suo cammino; che tutti si assumino i propri rischi, per l’amor di Dio, che si perdano, che si buschino qualche insolazione, che vaghino sperduti, che anneghino, che siano mangiati dagli orsi, sepolti vivi sotto le valanghe; sono tutti diritti e privilegi di ogni americano libero. Ma gli altri, la maggioranza, in gran parte nuovi a queste attività all’aria aperta, avranno bisogno di assistenza e la richiederanno, insieme a un’adeguata istruzione e guida (…) Oltre a questo tipo di aiuto pratico il ranger sarà anche un po’ naturalista, in grado di edificare il gruppo che gli è affidato con la storia umana e naturale della zona, nei dettagli e a grandi linee”. Gli ammonimenti e le proposte di Abbey suonano terribilmente attuali ancora oggi, a quarant’anni di distanza, perché i problemi che egli sollevava in questo libro non sono scomparsi nei parchi nazionali, dell’Italia e del mondo. Con tutta la sua lungimiranza,  l’amore e passione per la natura selvaggia, il suo irriducibile spirito libertario e anarchico, ma anche la sua ironia e simpatia, Abbey ci ricorda che per vivere autenticamente da “uomini” non possiamo non prendere a cuore il grido d’aiuto della natura che risuona dovunque anche oggi (per chi riesce a sentirlo) nelle ultime aree incontaminate del pianeta…



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