Il buco di Frammartino,
tra natura e cultura
Finalmente, nella sala del cinema
Columbia di Francavilla in Sinni, con amici dell’associazione Gruppo Lupi, si è
potuto visionare l’attesissimo film di Frammartino Il buco, premiato al Festival
del Cinema di Venezia (Premio della Giuria). Il mio “incontro” con Frammartino
avvenne nel 2010, con la visione del film “Le quattro volte” in un cinema di
Roma, con pochi presenti in sala, film che mi colpì profondamente e al quale
dedicai una recensione sul mio blog. Pochi anni dopo ebbi modo di conoscere di
persona - tramite l’amico Antonio Larocca, speleologo e guida del Parco,
coautore del film Il buco - anche il
regista che partecipò al trekking “Natura e cultura sui sentieri dei briganti” in
varie edizioni, a cui collaborai come guida escursionistica. Ospitammo poi Frammartino
a San Severino Lucano al Festival dell’Escursionismo nel 2018, dove presentò il
suo documentario sugli “uomini albero” di Satriano. Ho citato questi aneddoti
personali non a caso, perché il film Il buco è un’opera che nasce dalla collaborazione del
regista con le comunità locali e con figure di spicco che vivono e promuovono
il territorio , come appunto possono essere guide escursionistiche e speleologi
come Antonio Larocca, senza il quale tale film non si sarebbe potuto
realizzare. Questo è il primo aspetto del film che va sottolineato e che si
ritrova anche nella scelta di alcuni attori, molti dei quali non professionisti
ma “presi” dai paesi del Pollino, come San Lorenzo Bellizzi e Terranova di
Pollino: tale è il protagonista “umano” più importante del film, l’anziano pastore
su cui si concentrano gli unici primi piani del regista. Ma ci sono altri
esempi, come il medico del film che è effettivamente il medico di San Lorenzo
Bellizzi (Leonardo Larocca). Una scelta che per certi versi ricorda il modo di
fare cinema di un “mostro sacro” come Pasolini, che metteva in scena attori
presi dalla strada. Un film perciò “collettivo” ma allo stesso tempo molto “individuale”,
perché dalla sua visione traspare lo stile unico che contraddistingue la
poetica cinematografica di Frammartino: per citare ancora Pasolini, parliamo di
un cinema “di poesia” più che “di prosa”, almeno secondo il mio punto di vista.
Essendo un’opera fortemente simbolica, Il buco si presta a varie
interpretazioni, pur in una cornice narrativa esplicata dalla trama: la storia di un gruppo
di speleologi che dal Nord Italia vengono ad esplorare le grotte del Pollino, e
in particolare l’Abisso del Bifurto, in aree “dimenticate”, toccate appena dal
miracolo economico, in un mondo agropastorale per certi versi ancora
ancestrale, nonostante le incursioni della “modernità” siano già evidenti (come
rappresentato dalle scene degli abitanti locali davanti ad una televisione, in una
piazzetta). E qui non si può non citare un altro grande regista del cinema
italiano, il Vittorio De Seta de “I dimenticati”, noto anche per aver girato sul
Pollino un documentario sull’antico rito arboreo della festa della Pita ad
Alessandria del Carretto, il cui cinema
per certi versi si avvicina all’approccio di Frammartino: i rimandi a questo
regista riguardano lo stile distaccato, documentaristico, quasi freddo, delle
riprese. Ma il carattere documentarista de
Il buco si ferma appunto agli approcci stilistici, perché il film presenta
ovviamente anche aspetti di finzione, ben evidenti in alcuni “fotomontaggi” del
film o nella scelta – assolutamente felice a mio avviso - di ambientare l’ingresso
dell’Abisso del Bifurto (profondo circa 700 m e situato nel comune di Cerchiara
di Calabria) ai Piani di Pollino, dove è invece localizzato l’inghiottitoio del
Trabucco che misura pochi metri . Il Trabucco, oggetto nel 2016 di un campo
speleo al quale partecipammo come Gruppo Lupi, rappresentò una specie di “sogno”
per gli speleologi locali, quello di trovare una via che portasse al mondo
sotterraneo delle alte quote del Pollino, ancora ignoto. Frammartino partecipò
al campo speleo con la curiosità dell’artista, che osserva e riflette: perché –
sono testuali parole del regista - con tutta la meraviglia dei Piani di Pollino
che li circondava, gli speleologi si infilavano in quel “buco”, pieno di
mosche? Cosa cercano, qual è il senso della speleologia e dei luoghi ignoti e
selvaggi? È questa una delle domande che hanno dato evidentemente vita al film,
che si sviluppa attraverso dei contrasti simbolici: quello tra il “miracolo
economico” della tecnica (la modernità dei grattacieli che appare nelle scene
iniziali) e i luoghi più selvaggi del pianeta, ancora inesplorati, che poi è
anche il contrasto tra la ricerca del progresso e la ricerca di un mondo
selvaggio e ancora ancestrale. Ma un altro contrasto simbolico è quello tra gli
speleologi e il mondo contadino, che vede con stupore e al tempo stesso
incomprensione quei giovani del nord che si accampano in montagna per dare
corso all’esplorazione di “un buco”, appunto. Non a caso tra speleologi e
pastori non viene mostrato alcun incontro, pur condividendo entrambi gli stessi spazi. La speleologia è cioè stata in qualche modo
essa stessa espressione del mondo moderno, come anche il trekking e il turismo.
E appunto sono le comunità locali a fare da mediatori, con alcune figure
rappresentative come le guide di montagna o speleologiche che siano, che via via
nel corso dei decenni hanno cercato di conciliare gli aspetti del mondo agropastorale,
dal quale anch’essi provenivano con le esigenze della modernità, in un
equilibrio sempre precario ma indispensabile. Sono così sorte associazioni
speleologiche locali e quelli che erano figli di pastori, artigiani e contadini sono diventati guide
professioniste.
Nino Larocca a sinistra e Michelangelo Frammartino |
In alcuni articoli è stato detto –
con una sorta di retorica campanilistica che sinceramente si poteva evitare - che il film di Frammartino è un film sulla
Calabria e i calabresi: è questa un’interpretazione un po’ fuorviante, sia perché
le riprese si sono svolte anche in Basilicata e sia perché ad essere
protagonista è il Pollino in particolare e la natura selvaggia in generale, con i suoi
abissi, pianori, cime e pareti. Un film cioè integralmente “pollinesiano” , ma
contemporaneamente di carattere universale, dove gli stupendi paesaggi che si
vedono potrebbero fare riferimento ad un qualsiasi luogo” remoto” della Terra.
Un film dove a parlare sono le immagini, nei fatti privo di dialoghi… o meglio
privo di dialoghi comprensibili. Un film privo di musica, dove la colonna
sonora principale è rappresentata dal gergo ancestrale del richiamo del pastore
verso le sue vacche o dal rumore del vento e dai suoni che echeggiano nelle
profondità degli abissi sotterranei. Il buco si presta perciò essere visto da
chiunque, di qualsiasi nazionalità o lingua senza bisogno di sottotitoli o di
doppiaggio. Anche per questo è un film che potrà lasciare delusi molti
telespettatori, abituati al montaggio e alla sceneggiatura del cinema
convenzionale. È un film sicuramente che non piacerà a tutti, perché richiede
un approccio alla visione diverso: bisogna lasciarsi catturare dalle sue atmosfere scenografiche, concentrarsi sugli
aspetti visivi, sulle inquadrature, luci ombre e suoni… e sul simbolismo che
evocano, anche perché la trama da quel
che si è capito è abbastanza scarna. Assieme ai paesaggi e all’ambiente ipogeo,
come già accennavo è l’anziano pastore, interpretato da Antonio Lanza, l’altro protagonista del film: la macchina da
presa si concentra spesso sul suo volto, sulle sue espressioni. Il pastore è un
elemento del paesaggio e dell’ambiente e non a caso si vede spesso seduto ai
piedi di un pino loricato, le sue rughe evocano la corteggia del pino pluricentenario,
come un pino loricato vive in montagna
ed è in montagna che si compierà il ciclo della sua vita. Un uomo che richiama evidentemente quell’armonia antica con la natura propria dei popoli indigeni,
il cui impatto sugli ambienti naturali seppur presente non è mai stato devastante. Il patriarca arboreo
e l’anziano pastore convivono pacificamente, sono parte dello stesso paesaggio.
Anche qui c’è un sistema di rimandi, per
chi conosce a fondo l’opera di questo regista: il confronto con il film “Le
quattro volte” di Frammartino è spontaneo, si ritrova il senso di quella
connessione tra i regni viventi e tra il vivente e il mondo minerale, che era
il tema del suo primo capolavoro… e a dir la verità insuperato, visto che il
secondo lavoro più importante del regista non riesce a raggiungere quelle
altezze .
Il buco è anche l’esempio di un “cinema
d’azione”: girare le scene nell’Abisso del Bifurto, in una grotta profonda centinaia
di metri, ha richiesto mesi di lavoro ed
è stato possibile solo grazie all’ausilio di speleologi esperti come i soci del
Gruppo Speleologico Sparviere e altri, coordinati da Antonio Larocca. Una sfida
di natura “fisica” anche per il regista
Frammartino, il quale, per girare il film non ha fatto altro che diventare anch’egli
uno speleologo. Sempre per citare registi famosi, non può non venirmi in mente il
grande Werner Herzog, regista che trasformava i set cinematografici in imprese
avventurose, spesso in ambienti ostili, dove finzione e realtà si confondono,
in cui gli attori rivivono sofferenze, emozioni e difficoltà dei protagonisti
storici (nel caso de Il buco sono i pionieri della speleologia degli anni
Sessanta) che essi rappresentano. Un film che rappresenta un’impresa e contemporaneamente
una sfida per il cinema: il buio è l’antitesi del cinema, fotografia significa
appunto “disegnare con la luce”, mentre le riprese si svolgono in un regno
dominato dall’oscurità. A tal proposito non si può che sottolineare un’altra scelta stilistica
efficace del regista, ovvero l’aver voluto girare con la luce naturale, quella
delle lampade frontali al carburo o la luce delle pagine dei giornali delle
riviste come Epoca, accese per illuminare gli abissi sotterranei ancora ignoti.
Pochi sono i film rilevanti a tema speleologico, si potrebbe citare forse solo “Cave
of forgotten dreams”, del già ricordato Werner Herzog.
Come tutte le imprese umane, pure
quella speleologica è avvolta da un senso di finitudine. Anche la grotta più
profonda ha un suo termine, che negherà il passaggio all’uomo. E verso la fine
del film questo concetto si nutre ancora di parallelismi, come il paragone tra
la conclusione di una vita umana e quello di un’impresa speleologica. Ma l’essere
non è un apparire dal nulla per tornare nel nulla, l’esclusività di una vita è
in qualche modo eterna, è parte della ciclicità naturale. Il buco è un film “filosofico”,
ma negli aspetti pratici è un’opera che contribuirà a far conoscere il Pollino
e i suoi paesaggi, dando un contributo alla crescita culturale ed economica dei
territori. C’è da sperare che questo film sia anche occasione di
sensibilizzazione, si spera cioè che Il buco aiuti a comprendere il valore
della natura selvaggia del Parco Nazionale del Pollino e la necessità della sua
preservazione per le future generazioni. E la possibile candidatura del Pollino
come location cinematografica deve
indurci a considerare che la produzione di un film girato in natura deve essere
attenta ai possibili rischi derivanti
dall’impatto ambientale dei set cinematografici, proprio perché le riprese si
svolgono in ambienti delicati dal punto di vista naturalistico.
Il cinema non è slegato dalle
dinamiche sociali e il film di Frammartino ha mostrato che può entrare in netta
connessione con i territori e con le pratiche che in esso si svolgono. Il
cinema si alimenta di storie, suggestioni, aneddoti e le nostre stesse vite
possono trarre ispirazione dal cinema, come per qualsiasi opera d’arte. In
proposito vorrei concludere questa recensione con un significativo passo tratto
da uno scritto dello speleologo Beppe De Matteis, che fu tra gli speleologi
piemontesi che aprirono la strada alla scoperta delle grotte nel Meridione. Per
De Matteis la speleologia non era solo un fatto scientifico, ma rimandava a dei
significati culturali, al contributo che essa può dare all’arte: “Si tratta di
restituire il significato originario alla parola LOGOS, che entra nella seconda
parte di SPELEOLOGIA. Non scienza delle grotte, ma DISCORSO, cioè
comunicazione. Speleologo dovrebbe essere chi, vivendo a contatto con il mondo
sotterraneo, comunica ciò che, grazie a questa sua esperienza particolare, vede,
sente, pensa o prova, attraverso tutti i mezzi di espressione capaci di essere
capiti dagli altri. Il contributo dello speleologo non dovrebbe andare tanto a
beneficio della Scienza, quanto più in generale, della Cultura. Che ogni aspetto
della cultura possa essere arricchito dall'incontro con il mondo sotterraneo mi
pare ovvio: dalla meditazione sulla condizione dell'uomo (...), al reperimento
di materiali, suoni, forme nuove per la musica e le arti figurative, passando
per la fotografia, il cinema, il son-et-lumiere e via dicendo, comprese tutte
le forme letterarie di espressione, e in particolare la descrizione razionale
dei fenomeni naturali, cioè quanto va sotto il nome di speleologia scientifica
ed è rivolto ad appagare la legittima curiosità della mente umana (e niente di
più)”. (Beppe Dematteis, 1969 ). Un discorso valido per la speleologia e per
tutte le attività che consentono una connessione dell’uomo con gli ambienti
naturali…
Saverio De Marco
Presidente Gruppo Lupi San
Severino Lucano
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