(Racconto premiato al concorso letterario Il Fauno d’Oro edizione
2010, di Contursi Terme, 3° classificato)
“I morti custoditi nella crosta terrestre, che girano ogni giorno la lenta ruota del mondo, in pace fra le eclissi, gli asteroidi, le polverose stelle nuove, con le ossa chiazzate di terra e le cellule del midollo che si trasformano in fragile pietra, le dita intrecciate alle radici, uniti a Thot e ad Agamennone, ai semi e alle cose non nate.”
(Cormac Mc Carthy)
Vista dalla valle la montagna appare come una grande piramide rocciosa, con un versante più dolce, ricoperto da un’estesa selva di faggi e abeti e un altro pauroso, selvaggio, che cade a picco sui pascoli sottostanti, abitato da alberelli di leccio abbarbicati sui dirupi rocciosi e percorso alla sua base dalla ferita di un torrente che scorre in mezzo ad un groviglio di rovi e di spine. La cresta rocciosa della montagna come un filo separa i due versanti e sale ripida fino alla cima, popolata in alcuni tratti da una grande varietà di piante e alberi delle specie più svariate; un luogo che sembrerebbe l’opera del capriccio di un ignoto giardiniere, che avesse deciso di far convivere su queste rocce così ripide piante e alberi recoprocamente estranei. E poi c’è quell’enorme fenditura nella montagna, che corre attraverso la foresta e spezza la sua ondulata armonia per la gola profonda scavata dal torrente. Abeti coraggiosi crescono lungo il corso del fossato, in mezzo alla roccia. C’è n’è uno ormai morto, che cadendo è rimasto accasciato alla parete rocciosa, destinato a marcire in piedi in quella posizione precaria, che gli ha impedito così di ricevere la degna sepoltura dell’acqua e della roccia. Il torrente è ghiacciato e desolato d’inverno mentre a primavera l’acqua spumeggiante corre giù lungo gli enormi massi; d’estate il torrente scompare, lasciando solo i relitti che si è portato con la sua corsa stagionale: tronchi marcescenti, rami secchi e pietre circondati dalla terra arida e un silenzio interrotto solo dal fruscìo delle foglie dei faggi che crescono lungo le sponde della gola. La gola è un corridoio nella foresta, che però non conduce da nessuna parte per chi non conosce i meandri di queste selve apparentemente innocue. Si può sbucare in un pianoro se si lascia il torrente guadandolo e salendo lungo il sentiero che si snoda sui pendii popolati dagli abeti. Oppure si possono incontrare “le Carceri”. E’ un luogo del bosco fitto e rappresenta il naturale prosieguo della gola; i pastori diedero al posto questo nome perché la gente qui si perdeva, e la foresta diventava una prigione che aveva alberi al posto di sbarre, cancelli vegetali che si perpetravano all’infinito in un’angosciosa attraversata. E poi v’è la cima con i segni della civiltà dei contadini: il santuario con la una chiesa povera e spoglia e le casette dei pellegrini, in onore della Vergine, la dea cattolica di quella montagna. Sotto la chiesa, tra gli alberi, c’è una piccola grotta, dove si dice che la Vergine fece la sua prima apparizione. Vi si accede tramite una scalinata scavata nella roccia. C’è sempre una grande frescura qui. Piccoli topolini di montagna si aggirano tra immaginette e candele e sembrano osservare curiosi i visitatori, pronti a scattare al minimo movimento brusco; con quegli occhietti neri che sembrano parlare di una saggezza ancestrale ma indecifrabile… Il santuario è il luogo delle feste, dei pellegrinaggi. La Vergine ha l’aspetto di una contadina, piccola, con un viso rotondo. Porta la corona e un vestito ricamato; è la regina dei pastori e dei contadini e in suo onore due volte l’anno si festeggia la prima volta la sua ascensione al santuario montano dopo il lungo inverno e la seconda il suo ritorno a valle, nella chiesa del paese. E poi c’è la grande festa di luglio sulla cima della montagna, con i pastori e i contadini di tutte le remote contrade della Lucania del nord e del sud, provenienti dalle montagne, dalle colline e dal mare. D’ inverno la chiesa è vuota e non ha più la sua madonna, e tutto il santuario resta avvolto dalla desolazione della neve e delle intemperie, come un avamposto di un’antica civiltà che abbia abbandonato sconsolata quelle montagne per fuggire altrove…
Faceva caldo quel giorno. Tutta la montagna era affollata di pellegrini. Muli, asini e cavalli coperti di roba e al loro seguito famiglie di contadini, donne, uomini, vecchi e giovani. Venivano a piedi dai loro paesi e percorrevano le strade polverose delle contrade di quelle valli e poi giungevano ai piedi della montagna e si inerpicavano sui sentieri che conducevano sulla cima del sacro monte. Pastori col completo di velluto, con le facce scolpite dagli elementi. Donne dalle mani tozze, con i volti bruciati dal sole delle campagne, con i loro fazzoletti chiari sulla testa. Bambini, ragazzi, famiglie intere. Soprattutto questa era la festa dei pastori, forse perché in essi più che in altri si avvertiva quel bisogno di una presenza divina che vegliasse su di loro nelle lande desolate di quelle aspre e anonime montagne. L’aria dei boschi si riempiva dei suoni delle zampogne, dei tamburelli e delle totarelle e degli organetti; un’atmosfera di sacralità e di gioia festosa al tempo stesso, accompagnata dalle urla dei suonatori e dal contorcersi dei corpi a quel ritmo che entrava nel sangue. Una melodia che era stata la colonna sonora della vita di quella gente, da sempre. Una musica che si perdeva nei millenni, che era legata a quella terra come le radici di un albero secolare. Sulla cima della montagna i pellegrini formavano accampamenti e si costruivano capanne di frasche con i rami degli alberi. Capre e pecore venivano portate fin lassù in pellegrinaggio per poi essere sgozzate, scuoiate e arrostite sul posto. Sembrava e forse anzi lo era, un rito sacrificale. Si sentivano belati delle bestie e il sangue sporcava le pietre, pelli e interiora giacevano su posto mentre i contadini si adoperavano a tagliare tendini e ossa con accette e con lunghi coltelli affilati. Scorrevano litri di vino, che ondeggiava nelle bottiglie per venire tracannato dagli uomini e finire nelle loro vene; vino che diventava sangue e arrossiva le facce di quegli uomini scuri, vino che diventava musica, movimento frenetico e urla euforiche. All’interno della chiesa non c’era aria di allegria. Donne si battevano il petto e il rumore rimbombava tra le navate. Qualcuna si accovacciava, e inginocchiata si muoveva per terra leccando il pavimento della chiesa. E dopo quell’atto di penitenza a volte si ritrovavano con la lingua piena di sangue. Poi c’erano le donne che indossavano il loro abito da sposa sopra i vestiti, che si toglievano davanti alla vergine in segno di devozione. Restava alla vergine quel vestito bianco che dentro di sé nascondeva i sogni e i rimpianti e il dolore o magari la gioia di quelle donne. E nel ripostiglio accanto alla chiesa quegli abiti da sposa, con il loro pallido biancore, si accumulavano e dentro di essi si potevano immaginare i volti e le anime che sembravano contenere. La chiesa era piena di tante facce commosse. Aspettavano il loro turno per parlare alla santa Vergine dei loro affanni, delle delusioni e delle loro speranze più profonde. Un ragazzo si avvicinò al volto della statua. Piangeva e aveva un fazzoletto in mano. Bagnava le dita nelle sue lacrime riportandole sul volto di legno della statua. Questo è il mio dolore, sembrava volesse dirgli, adesso lo conosci, è anche il tuo. Un altro atto di devozione era la danza in chiesa accompagnata dalle zampogne. Ma la tarantella che si eseguiva sotto l’altare non era festosa e gioiosa come quelle che continuamente andavano avanti sulla montagna per tutta la giornata. Si ballava con le facce serie e speranzose, con un atteggiamento quasi di ritegno. E poi c’erano quelle sculture realizzate con le candele, ex voto, che venivano portate sulla testa dalle donne, costruzioni architettoniche di devozione popolare, templi in miniatura della loro fede. E tutt’intorno a questo movimento di migliaia di uomini e animali, si stagliavano montagne imponenti, che rinchiudevano l’orizzonte a nord come a sud. Era come se da quella sommità gli uomini potessero penetrare, grazie alla Vergine, il caos del mondo che regnava sulle nude rocce affilate; come se in quell’angolo di montagna gli uomini tentassero di dare un ordine all’universo, con le gerarghie divine, le grazie e i miracoli. Gli uomini cercavano il conforto in una luce divina, ed era la speranza che la ruota del caos girasse per una qualche circostanza in loro favore. E quelle montagne erano sinistre forse perché non avendo dei santuari sulle loro cime parlavano di un mondo senza dèi, dove a decidere le sorti di tutti gli esseri erano il vento e il fulmine, la pioggia e la neve.
La vecchia era arrivata quassù assieme ai figli e i nipoti. Era stata a messa, era andata a salutare la sua madonna e alla sua vista il cuore gli si era riempito di commozione, come sempre. Forse perché in questa madonna di legno erano accumulate tutte le speranze della gente di queste valli. Essa dava il volto alle generazioni dei pellegrini passate e future, ai vivi come ai morti. La speranza incoronata di un popolo intero. La vecchia s’era riposata nell’erba, all’ombra delle capanne di frasche e poi s’era allontanata fino al margine dei boschi, dove cominciava un altro mondo, un mondo fatto di alberi e pietre e silenzio, conosciuto solo dal lupo, dallo scoiattolo o dal colombaccio e da tutti gli esseri che là nascevano e morivano. Era andata nei boschi e da lì non era più ritornata. Erano andati a cercarla ma sembrava inghiottita dalla foresta. Forse, per la curiosità si era spinta troppo avanti e la luce gli si era chiusa alle spalle, come una immensa porta evanescente, e non era riuscita più a capire in che direzione dovesse andare. Per quasi un anno non si seppe più niente di lei, né si riuscì a ritrovare il suo corpo.
Il giovane pastore risaliva la gola scavata dal fossato mantenendosi sopra la sponda destra. Una densa vegetazione di faggi e di lecci ricopriva le rocce della montagna. Arrivò ad uno spiazzo nella foresta, dove alberi secolari di faggio e pareti di roccia ripida erano gli elementi più vistosi di quel giardino primitivo. A seguirlo c’era il suo cane che esplorava i dintorni del pianoro. Aveva lasciato le pecore più indietro, che si spostavano uniformemente da un promontorio ad un altro senza mai interrompere quel brucare che durava tutta la giornata. Più sopra la vegetazione finiva e si incontrava uno strano terriccio rosso, con delle pietre che avevano dei fori al loro interno, strani contenitori di un vasellame preistorico della natura. Sopra c’era un avvallamento tra due costoni di roccia grigia e dura che da lontano davano l’impressione della presenza di una gola che gola non era, perché in mezzo non scorreva alcun torrente. Da lì si poteva raggiungere poi la cresta che proseguiva la sua parabola ascendente fino alla cima, fino al santuario della Vergine. Il cane stava rovistando al di là di alcuni massi rocciosi. Il pastore notò da lontano che teneva qualcosa in bocca. Il cane si avvicinò al pastore scodinzolando felice con quella cosa che pendeva dalle sue mascelle. Era una testa umana, ridotta ad un teschio. Ancora v’ erano attaccati brandelli di pelle rinsecchita e capelli. Il pastore ebbe un fremito alla vista di quella macabra apparizione e il cuore cominciò a battergli forte. Invocò la Vergine della montagna. Carcasse di animali ne aveva viste sempre, ma mai avrebbe pensato di trovare le ossa di un essere umano. Si ricordò della vecchia scomparsa l’anno prima e pensò che di sicuro il cadavere appartenesse a lei. Doveva subito fare qualcosa. Il cane intanto aveva lasciato la testa per terra ed egli osservò le orbite vuote, senza più lo sguardo su quel mondo, oscure come oscura era la morte. Doveva avvisare qualcuno, prima di tutto i carabinieri e quindi doveva tornare al paese. Ma non poteva lasciarla là dov’era. Doveva nascondere la testa in un luogo sicuro per poi venire a prenderla assieme alle guardie. Prese dalla tasca uno dei sacchetti di plastica che portava sempre addosso. Poi afferrò un rametto secco di faggio con la mano destra, mentre con la sinistra teneva la busta di plastica. Si chinò e fece rotolare lentamente la testa spingendola col rametto nella busta. Una volta che fu dentro afferrò le estremità della busta e si avviò lungo la sponda del torrente con quel macabro resto umano. Qualcuno da lontano lo avrebbe preso per un cercatore di funghi. Conosceva un posto dove nelle pareti di roccia si aprivano dei buchi a forma di caverna, dei ripostigli primordiali scavati dagli elementi. In uno di quei buchi nascose la busta con la testa. La sera ritornò al paese col suo gregge e andò ad avvisare le guardie del ritrovamento. La mattina dopo tre carabinieri arrivarono assieme al pastore nel posto dove egli aveva nascosto la testa. Misero un carabiniere a piantonarla mentre gli altri procedettero nelle ricerche. Il carabiniere rimase là fermo a fare la guardia a quel teschio che nessuno avrebbe voluto, se non la nuda terra per nasconderlo tra le sue viscere. Il pastore si unì alle guardie e fece loro da guida. Gli altri resti non erano lontanissimi dal posto in cui il cane aveva ritrovato la testa. C’erano ossa e c’erano brandelli della veste che la vecchia aveva indossato il giorno della grande festa in onore della Vergine, il giorno in cui lei si era persa in quella prigione di alberi e rocce. Vicino ai suoi resti trovarono una fascia di ramaglie secche. Aveva tentato di farsi un fuoco, anche se non esisteva nessuna cosa quella sera con cui potesse accendere la legna. E poi l’aria gelida della notte calò su quella foresta e il buio inghiottì ogni cosa, e così anche lei…