venerdì 10 gennaio 2014

Un cuore tra i lupi – di Antonio Iannibelli


Una visione wilderness: Tempo da lupi - foto di A. Iannibelli
“Ogni mattina, quando mi affacciavo sul crinale, il bosco mi appariva sempre più grande e meraviglioso e appena perdevo di vista le case mi sembrava di entrare in un mondo magico, il mondo incantevole dei lupi”.

“Benchè il mio ululato sembrasse un soffio insignificante a confronto con quei cori, dentro di me sentivo sprigionarsi una forza sovrumana che si fondeva alla perfezione in quell’affascinante ecosistema montano. Cinque, sei, forse otto lupi ulularono insieme a me, nel sielenzio completo della notte più bella della mia vita. Vibrazioni primordiali che mi trasformarono nel bambino che ero stato, riaccendendo nella memoria i meravigliosi racconti di mio nonno”.

(Antonio Iannibelli, dal libro: "Un cuore tra i lupi")

 Ho conosciuto Antonio Iannibelli l’estate scorsa per caso, in un bar di San Severino e in quell’occasione ho preso direttamente dall'autore “Un cuore tra i lupi”, libro che adesso figura nella mia biblioteca, tra i pochi – e significativi - libri sul Pollino e la sua gente. Qui non si parla solo del Pollino, anzi, propriamente il libro è dedicato in gran parte agli aneddoti di un cacciatore fotografico nella sua ricerca dei lupi e del contatto con il loro habitat; e più che altro si parla di incontri con lupi nelle montagne dell’Emilia Romagna...  Come tanti altri anche Antonio è infatti emigrato dalla sua terra per cercare lavoro altrove. Ma come molti la sua infanzia è stata segnata dal mondo arcaico e contadino e dalla natura selvaggia del Pollino, pronto ad affiorare anche nell’esistenza di una grande città come Bologna. A mio giudizio per capire il senso di questo libro proprio da qui bisogna partire, per seguire un percorso esistenziale legato da un unico filo... Come afferma Iannibelli infatti: il lavoro, il servizio militare, la famiglia, i figli, l’esistenza in città avevano riempito la mia vita, ma avevano messo da parte per molto tempo il mio mondo. Forse avevo pensato per qualche tempo di farne a meno, ma era solo un’illusione”. Soprattutto la prima parte del libro è ricca di aneddoti che rievocano il mondo dell’infanzia,  le esperienze di scoperta nell’ambiente fiabesco di Bosco Magnano, i racconti e gli insegnamenti del nonno, una figura che appare centrale nella stessa formazione naturalistica di Iannibelli. 
Antonio Iannibelli
Ciò che risalta subito all'inizio di questo libro è che nell’infanzia dell'autore il contatto con la natura era diretto, genuino, non mediato come avviene oggi dagli strumenti multimediali dell’ “educazione ambientale”. Come scrive  Iannibelli stesso: “io ho appreso gran parte delle mie conoscenze dalla natura selvaggia, dal bosco, dagli animali e appena possibile correvo tra gli alberi; era come entrare nelle pagine di un grande libro”.  Questo amore spontaneo per il mondo naturale si nota nella rievocazione di ricordi legati agli animali e al tempo passato in libertà nei boschi con gli amici d’infanzia: 
“uno dei maggiori divertimenti era quello di arrampicarci fino in cima ai giovani alberi, per poi buttarci nel vuoto tenendoci stretti alla cima: i più alti e flessibili ci permettevano salti di quasi dieci metri, una specie di primitivo bungee jumping. Ma la nostra specialità era catturare ghiri e pescare con le mani e trote nelle acque del torrente Peschiera. Il bosco era in pratica la palestra, la scuola e persino la famiglia, ogni piccolo e grande albero aveva un ruolo importante anche per le nostre attività”.  
“…Quando il vento soffiava forte i cerri si trasformavano nelle nostre giostre, dalle cime più alte ci facevamo dondolare come in un mare in tempesta. Aggrappati alle esili punte restavamo in balia del vento urlando fino a sgolarci”.

La copertina del libro - particolare
Spettacolari gli aneddoti su animali del bosco come ghiri e poiane, dai quali il piccolo Antonio apprende comportamenti e caratteristiche sempre in maniera spontanea; è il caso ad esempio del “doloroso” incontro con un ghiro che lui cerca di catturare ma che gli  addenta un dito senza lasciarlo (“riflettendo sull’accaduto capii che il povero animale aveva messo a rischio la sua vita pur di mettere in salvo la sua famiglia”). Del resto anche il suo primo incontro con i lupi, oggetto del libro,  è tutt’altro che idilliaco, perché i primi esemplari che avvisterà sono carcasse di lupi uccisi e abbandonati nel bosco. Il lupo del Pollino è una presenza selvaggia e quasi sfuggente, ma prepotentemente reale: “era come se ognuno rifiutasse di credere che quegli animali così mitici, così sfuggenti e nello stesso tempo ritenuti come una sorta di pericolo soprannaturale, fossero davvero lì, a pochi passi dalle nostre case”. E’ comunque la figura del nonno pastore che si staglia imponente, e introduce Antonio alla conoscenza della vita dei lupi e della natura selvaggia. Si delinea la personalità di  uomo “saggio” che non odia i lupi, ma li conosce bene e li considera per quello che sono, animali con le loro abitudini, da cui difendersi per salvaguardare il gregge, ma meritevoli di rispetto come qualsiasi altra creatura.
“…Fu mio nonno a catapultarmi nel mondo selvaggio della natura e avviarmi al lavoro del pastore. Trascorsi gran parte della mia infanzia in compagnia di animali, quasi sempre nei boschi”.
Bosco Magnano - foto by Indio
“Con molta calma mi spiegava che i lupi si spostano nelle montagne cercando di non invadere i territori dei propri simili, se ricevono risposta da altri lupi dello stesso branco, possono decidere di incontrarsi oppure  cambiare direzione (…) Ricordo perfettamente come mi chiamava mio nonno: << Nd’oniuuuu, oi nd’oniuuuuuuu.>> E se non rispondevo, l’ululato’ si faceva più lungo e profondo. Inoltre mi spiegava che i pascoli venivano delimitati dagli abbai dei cani e che un albero caduto poteva essere marcato con l’accetta, così come i lupi marcano il territorio con gli escrementi . Anche per noi umani esisteva un linguaggio non scritto ma ben codificato”.
 Nella seconda parte del libro, abbandonate le atmosfere di un  mondo pastorale ormai in declino, ci proiettiamo nel mondo moderno delle città e nella (dura) realtà degli  operai meridionali emigrati. Le cose cambiano, ma il filo che lega Iannibelli al mondo naturale non si spezza, e anche un fenomeno tragico come la strage alla stazione di Bologna diventa l'occasione per riandare con la mente al mondo dell’infanzia, al “mio mondo selvaggio dove non c’era posto per violenze cieche e distruzioni insensate”. “All’improvviso capii che per allontanare dalla memoria l’angosciante episodio della strage della stazione dovevo rituffarmi nelle meraviglie della natura”.
Subentra la ricerca di una vita in campagna e la passione per la fotografia; col tempo Iannibelli si sposa e diventa papà. Molto bella la rievocazione di un trekking fatto assieme al figlio nell’epoca in cui il Pollino si apprestava  a diventare Parco nazionale, con tutti i benefici e le contraddizioni che si portò dietro questo evento. Ma è l’Appennino bolognese che diventa lo sfondo nuovo per l’immersione nel mondo naturale, alla ricerca del magnifico predatore: “potevo finalmente ricercare il mondo perduto della mia infanzia. Trovai che per molti aspetti, l’ambiente naturale dell’Appennino bolognese e anche la gente che vi abitava era molto simile a quella del mio paese nativo. Dopo quasi dieci anni, con due figli e tanta voglia, ricominciavo la mia nuova vita tra i boschi”.
In fila indiana sulla neve - foto di A. Iannibelli
Qui comincia la parte in cui Iannibelli, ormai diventato un appassionato fotografo naturalista, va alla ricerca di branchi di lupi, studiandone i movimenti e le abitudini, fotografandoli nelle più disparate occasioni. I contatti diventano così stretti che l'autore non ha difficoltà ad avere incontri ravvicinati con i lupi: in una scena del libro si descrive un lupo desideroso quasi di giocare con il fotografo... sembra rivedere la scena del famoso film “Balla coi lupi”! 
La ricerca del lupo, ormai animale “totem” per l’autore è anche l’occasione però per conoscere altri aspetti dell’habitat del lupo e dei suoi componenti: sono infatti presenti numerosi aneddoti, anche curiosi, riguardanti animali del bosco come cinghiali, volpi, cervi, beccacce, sparvieri...
Le descrizioni non sono quelle “aride” dello studioso, ma appunto quelle di un appassionato naturalista, che apprende “praticamente” gli aspetti della vita selvatica, vagando nei boschi alla ricerca di scatti originali da fare ai lupi. Vi sono poi anche pagine dove vengono descritte con precisione le abitudini del lupo, la vita in branco e la sua biologia e  che sfatano anche certi miti, come quello di un lupo esclusivamente predatore, il quale in realtà non disdegna carcasse di animali e persino di dare la caccia ai topi… sfruttando inoltre l’aiuto involontario dato dall’uomo. Ne esce delineato il ritratto di una specie affascinante e suggestiva da sempre per l’uomo, tuttora perseguitato e ucciso, ma le cui popolazioni continuano a prosperare. “Ma che cosa rende veramente invulnerabile il lupo? Secondo la mia esperienza, oltre ad avere i cinque sensi più sviluppati di tanti altri animali, il lupo ha almeno un’altra formidabile arma: l’intuito prodigioso”.
Il libro è corredato da belle tavole a colori con fotografie molto suggestive dei lupi e del loro habitat. Inoltre, un capitolo finale è dedicato a consigli e suggerimenti per chi voglia affrontare il mondo della caccia fotografica… sulle orme dei lupi!

Saverio De Marco (Indio)

(per informazioni su come acquistare il libro e altre attività di Antonio Iannibelli, visitare il  sito dell'autore: www.antonioiannibelli.com)

domenica 5 gennaio 2014

Diario - 4 gennaio 2014

 U Cacch'v" - esplorazione
" 'U Cacch'v" ... un grande buco nella roccia - foto by Indio

Con l'escursione di oggi ho voluto esplorare un versante ripido, selvaggio e inospitale, ma un tempo conosciuto bene da pastori e pellegrini. 
piccola caverna incontrata nella discesa
Proprio parlando con un vicino di casa che un tempo pascolava, da ragazzo, su questa montagna, mi è stato confermato che "U Cacch'v" è la caverna verticale che avevo avvistato e fotografato da lontano: fin da quando son piccolo ne ho sentito parlare dalla gente di Mezzana. Cacch'v  in dialetto significa "buco" (Cacch'v era anche un grande recipiente a forma di cono rovesciato, che veniva usato dai massari per bollire grandi quantità di latte), e in effetti appare come un grande budello, una caverna verticale tra ripide pareti rocciose dove solo il leccio riesce a vivere abbarbicato ai dirupi.  La dea di questa montagna ha due volti: uno rassicurante, ben rappresentato dai ricoveri dei pellegrini, dallle croci e dalla strada che arriva in cima... e uno orrido e selvaggio, che è appunto il versante ovest: ma c'è da dire che "selvaggio" è soprattutto una condizione ascrivibile al presente... perchè nel passato questi posti erano conosciuti e frequentati dall'uomo, da pastori e cacciatori. Un tempo, come mi dice Zio Vincenzo che nel Cacch' v andava  a caccia di piccioni selvatici,  esistevano sentieri di capre e passaggi sui versanti più impervi della montagna.
in arrivo al torrente
Quando arrivo nella zona della grotta vado in giù per vedere com'è il terreno: nella mia testa si è insinuata anche l'idea di raggiungere "U Cacch' v" da sopra, seguendo le suggestioni degli antichi percorsi dei pastori. Ma qui c'è poco da scherzare: ci sono salti verticali e spaccature nella roccia che richiederebbero l'uso di attrezzatura alpinistica (e la tecnica della discesa in corda doppia) e di non procedere ovviamente in solitaria. Come dice Zio Vincenzo i pastori buttavano dall'alto le pietre nel budello di roccia e le sentivano rotolare fino al Frido! Arrivo alla cima del Santuario e poi comincio a scendere. La discesa è all'inizio praticabile, anche se si svolge su terreno roccioso scoperto. Bisogna comunque stare attenti nella progressione... Poi raggiungo una zona in piano occupata dai faggi. Successivamente la discesa si fa più ripida: incontro parecchi salti rocciosi di diversi metri, che mettono a dura prova i miei nervi,  e dove la vegetazione è più intricata.
Visione selvaggia
La soluzione è aprirsi la strada cercando di aggirare i salti rocciosi. Dove ci sono i lecci significa che i pendii sono ripidi e rocciosi, dove si incontrano i faggi si ha un po' di sollievo, perché vuol dire che la discesa è più sicura. A volte è proprio grazie ai rami degli alberi che riesco a scendere; mi aggrappo ad essi, corde vegetali primordiali a cui fare affidamento. Si sente l'acqua del torrente, è sotto di me, appare vicino, ma ci sono ancora dei salti impegnativi da superare con cautela...  Arrivo finalmente al letto del ruscello, al sicuro, e non mi resta che costeggiarlo, fino a raggiungere le pareti, per tentare di esplorare "U Cacch' v". Ed ecco che mi appaiono le pareti rocciose verticali: salgo sulla riva sinistra del torrente per avere una visuale migliore, poi risalgo sulla riva destra e comincio a scalare il ripido pendio. Ho come la sensazione di dirigermi verso la caverna di un Sacro Graal che esiste solo nella mia testa... un Graal pastorale senza valore, inesistente, che vive come un'illusione di pietra tra le rocce e la vegetazione intricata. 
Arrivato all'imbocco della "caverna" capisco che potrei procedere in arrampicata sul pendio roccioso e scivoloso, ma che poi in discesa rischierei di scivolare e cadere. Basterebbe qualche altra ginestra o leccio  in più e aggrappandomi ai loro rami potrei sostenermi. Invece ci sono solo corde di rovi che mi ferirebbero. Tento due  volte la salita poi, la mia prudenza di escursionsita solitario (prudente proprio perchè da soli è necessario esserlo) e l'ora tarda mi convincono a desistere e a tornare indietro. Oltrepassato il buco comunque non si potrebbe procedere oltre... questo è poco ma sicuro. Ridiscendo al torrente, lo costeggio fin dove si può e poi vado sulla riva sinistra. Salgo negli ex pascoli oggi invasi da rovi, rose canine, meli selvatici e prugnoli, aprendomi la strada  a colpi di machete. Ci sono delle piccole piantine di leccio... ne cavo una, la voglio portare a mia madre per trapiantarla; glielo avevo promesso tante volte... Prossimamente porterò con me una corda , arriverò al buco e tenterò di vedere cosa c'è oltre... Oppure un giorno si potrebbe tentare di scendere direttamente da un altro versante.   "U Cacch' v", come merita,  ritornerà alla magnificenza dei racconti dei pastori...












 Il Video






giovedì 2 gennaio 2014

Invictus




Pino loricato sul versante sud di Serra delle Ciavole - foto by Indio

Dalla notte che mi avvolge,
nera come la fossa dell'inferno, 
rendo grazie a qualunque Dio ci sia
per la mia anima invincibile.

La morsa feroce degli eventi 
non m'ha tratto smorfia o grido.
Sferzata a sangue dalla sorte, 
non s'è piegata la mia testa.

Di là da questo luogo d'ira e di lacrime 
si staglia solo l'orrore della fine, 
ma in faccia agli anni che minacciano 
sono e sarò sempre imperturbato.

Non importa quanto angusta sia la porta, 
quanto impietosa la sentenza, 
sono il padrone del mio destino,
 il capitano della mia anima.

...............................................
 Out of the night that covers me,
 Black as the Pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds, and shall find, me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll.
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.


 William Ernest Henley

(versione italiana tratta dal film "Invictus" di Clint Eastwood (2009) con Morgan Freeman e Matt Damon)