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domenica 10 giugno 2018

Diario - 6-7 giugno 2018

Verso la selvaggia Montea 

Itinerario: Passo dello Scalone, Monte Cannitiello, Rifugio Belvedere, Monte La Caccia, Montea dal crinle sud-ovest, Montea cresta sud-est, Passo dello Scalone


 "Le parole di Tom mettevano a nudo il cuore e i pensieri degli alberi, che erano spesso cupi e bizzarri, pieni di odio per tutto ciò che cammina liberamente sulla terra e che rode, morde, strappa, rompe, sega e brucia: distruttori e usurpatori. Non a caso veniva chiamata Vecchia Foresta, poiché era estremamente antica, l’ultima superstite di immensi boschi dimenticati. In essa vivevano ancora, invecchiando insieme alle brulle colline, i padri dei padri degli alberi, memori dei tempi in cui erano ancora loro i signori. Gli innumerevoli anni li avevan riempiti di orgoglio, di profonda saggezza, ma anche di malizia."
(J. R. Tolkien, La Compagnia dell'Anello)



Primo giorno

Quando si parla di Parco Nazionale del Pollino ci si riferisce in realtà a tanti parchi, ovvero a gruppi montuosi anche molto distanti tra di essi. Si può conoscere bene una valle o un insieme di valli o un massiccio montuoso se lo si frequenta spesso. Ma conoscere il Parco del Pollino come le proprie tasche risulta un’impresa titanica, data la grande varietà di ambienti compresi in questa immensa area protetta. Da guide ed escursionisti navigati conoscevamo poco o niente i cosiddetti “Monti di Orsomarso” e da tempo con Maurizio avevamo programmato un’escursione di due giorni nell’area più a sud del Parco, ovvero quella che comprende monti come il Cannitiello, Monte La Caccia e Montea. Sapevamo che andavamo a compiere un’escursione in luoghi selvaggi e impervi, per noi ancora da scoprire.
Partiamo da Passo dello Scalone, non molto distanti da Sant’Agata d’Esaro. Un cane randagio gironzola presso l’imbocco del sentiero. Ha una grossa zecca sul muso e pare affamato. Gli do una delle piadine che fanno parte dei viveri che abbiamo portato in vista di due giorni di intensa escursione. Prendiamo una sterrata e i segni dell’uomo, presenti con dei rimboschimenti di pino nero attraversati in qualche tratto dai segni di un passato incendio, scompaiono e inizia la faggeta vera e propria, con alberi monumentali di faggio.


 Ciò che si nota subito di queste foreste è che sono caratterizzate da pendii ripidi e valloni molto affossati. La segnaletica dei sentieri è precaria e le deboli tracce di tanto in tanto scompaiono per riapparire più avanti. Ma è in realtà è un bene che esistano posti del genere, impervi e ancora non addomesticati dal turismo. Una montagna che mette subito in difficoltà ma che regala intensi momenti di avventura. Ma pur amando l’avventura, dato che abbiamo in programma la scalata di due cime dobbiamo, per non perdere tempo, aiutarci anche con il gps; anche perchè non conoscendo queste montagne sarebbe alquanto difficile procedere e del resto... cartine dettagliate dei monti di Orsomarso non ce ne sono!

 Procediamo lungo i ripidi pendii boscosi ascoltando i versi dei picchi: si nota il picchio rosso mezzano e il picchio verde… sono loro i padroni di casa di questa silenziosa foresta. Sbuchiamo infine sulla cresta del Cannitiello. La nebbia sulle montagne e i primi pini loricati si mostrano a noi come apparizioni quasi fantastiche. Non possiamo purtroppo ammirare il panorama dalle creste. Notiamo il verde intenso dell’erba alta e l’umidità che caratterizza la zona, nonché le belle fioriture. I pini loricati sono bagnati, sembrano carbonizzati per quanto sono scuri e passando sotto di essi sentiamo sulla testa le gocce che cadono dagli aghi. 



Speriamo che la nebbia se ne vada, ma è la stessa nebbia però a creare delle immagini suggestive. Le cose si mostrano anche nella loro assenza, si può dire. Le silhouette dei faggi monumentali, spesso secchi ma ancora in piedi, compaiono come fantasmi. 



Aggiriamo la cima del Cannitiello attraversando di tanto in tanto la faggeta, poi ci portiamo su una cresta popolata da esemplari monumentali di pino loricato, abbarbicati sulle rocce a strapiombo. Compare anche la cima del Cannitiello e i suoi dirupi spaventosi, avvolti dalla nebbia che va e viene. Poi ci portiamo su un cocuzzolo roccioso sotto cui vi è un altro profondo dirupo… e poi ecco il “miracolo”: la nebbia si dirada e compare, di fronte a noi, la maestosità selvaggia della Montea, in tutta la sua bellezza . Boschi estesi, pinnacoli di roccia, creste aguzze, canaloni spaventosi e pini aggrappati alla roccia o distesi a terra a formare un cimitero di scheletri bianchi.  Forse questo è il momento più emozionante del trekking. Di fronte a noi abbiamo una manifestazione di quel sublime di kantiana memoria, una bellezza che attrae e respinge allo stesso tempo; che quasi terrorizza al momento ma che poi la razionalità cerca di “conquistare”, programmando le tappe dell’escursione e il percorso per arrivare alla cima. 



Proseguiamo lungo il crinale e notiamo la presenza di monumentali pini loricati, o vivi e vegeti  o secchi, ancora in piedi o abbattuti, che resteranno a terra ancora per decenni e decenni prima di marcire. 




Superata la cresta notiamo che siamo arrivati alla chiesetta Santa Croce e al Rifugio Belvedere. Di fronte a noi le alte e selvagge pareti di Monte La Caccia sono avvolte dalla nebbia. Andiamo al Rifugio che apprendiamo essere gestito dall’ associazione Amici della Montagna di Belvedere Marittimo. Per usufruire del rifugio bisogna chiedere autorizzazione all’associazione, che chiamiamo e che gentilmente si mostra subito disponibile. Il rifugio è ben gestito e ordinato ed ha tutti i comfort, compresa la luce elettrica. Bella la cappelletta antica di Santa Croce, ma ciò che stona è la grande e brutta croce di ferro innalzata davanti alla chiesetta, illuminata di notte!



Posata la roba al rifugio ci avviamo verso la cima di Monte La Caccia seguendo una debole traccia di sentiero. La nebbia intanto rimane a valle e si forma il caratteristico mare di nubi che se si è fortunati si può ammirare in alcune giornate dalle cime. Si intravede anche il mare, che in linea d’aria è davvero a cinque o sei chilometri di distanza! Lontane in mezzo al mare, notiamo ad occhio nudo delle barche. “Noi vi stiamo vedendo, voi non potreste mai vederci” è ciò che noto. Ecco quindi quelli che per me sono diventati subito i pini loricati del mare, con le loro silhouette che si rispecchiano nell’azzurro della “parte acquea del mondo”. 


Monte La Caccia si rivelerà una montagna che ci  meraviglierà per la bellezza dei suoi paesaggi  e lo sfondo del mare, per i suoi pini loricati dalle forme contorte, i versanti dirupati e i faggi monumentali e fiabeschi che la caratterizzano in certi tratti. Il sole sta calando e la luce rossastra del sole comincia a rispecchiarsi nel Mar Tirreno, mentre un altro mare, quello di nubi, si estende sotto di noi da ovest a est, ricoprendo foreste e valli. Le montagne del Pollino sono lontanissime, anche se riusciamo a distinguerne qualcuna. La Montea, la grande regina che affronteremo domani,  si erge maestosa alla luce del tramonto, coi suoi pinnacoli di roccia e la foresta che l’ammanta. Dopo una pausa e le foto di rito ci affrettiamo a tornare al rifugio. Scalare questa montagna non è stato uno scherzo. Arrivati al rifugio è già buio e il mare è illuminato dalle luci dei pescherecci. Domattina dovremo svegliarci presto. Ci attende un’altra dura scarpinata.







Secondo giorno
  
Lasciato il rifugio ci dirigiamo verso la Montea. Il crinale da scalare è quello sud-est. Attraversamo dei boschi misti dove di tanto in tanto si nota la presenza di qualche pino loricato monumentale. Ne notiamo uno in particolare, veramente imponente. 

Si scende un po’, si superano in diagonale dei pendii scoscesi e poi si arriva all’imbocco del percorso per il versante sud-ovest della Montea, nei pressi di alcune ruote dell’antica teleferica. I pendii boscosi si fanno molto ripidi. Si sale piano, appesantiti dai grandi zaini. Il pendio si fa poi più scoperto, dominato da grandi pini loricati, spesso contorti . Non c’è un sentiero, ma solo qualche segnale che indica la direzione su cui mantenersi.



Arrivati sopra siamo al cospetto di un anfiteatro di pareti e pini loricati. Aggiriamo pinnacoli e crestine ripide fino a ritrovarci sotto la cima della Montea. Intanto il Monte La Caccia mostra anche l’altro versante, che non avevamo ancora visto: dirupi impressionanti  cadono a picco sulle valli sottostanti, mentre lo sfondo è dominato dal mare, tanto da indurmi a fantasticare su quella che sembra un’isola montagnosa in un’oceano sperduto…
Aggiriamo poi una crestina ripida per portarci sotto la cima e giungervi dopo un po’. Ci riposiamo e rifocilliamo ammirando i bei panorami. Di fronte a noi altre montagne selvagge, estese faggete, pianori, ripidi canaloni e dirupi rocciosi. La forma arrotondata del monte La Mula promette altre suggestioni wilderness; più lontano si nota anche Cozzo del Pellegrino. E poi paesi e valli lontane, e cime vicino alla costa del Mar Tirreno, che domina l’orizzonte ad ovest.





 Si riparte. Adesso ci tocca aggirare grandi pinnacoli di roccia seguendo uno stretto sentiero che si inerpica lungo i crinali rocciosi e aggira ogni tanto gli spuntoni rocciosi, popolati da colonie rade di piccoli e contorti pini loricati, e si affaccia su alcuni ripidi canaloni che si scendono sul versante nord della montagna; i boschetti di pini loricati giovani sono più frequenti, ma incontriamo anche esemplari monumentali dalle forme contorte. 




Il terreno è accidentato, ci sono tratti di pietrisco e ci si aiuta con i bastoni. I piedi cominciano a fare male, ma la discesa è ancora lunga. Le pendenze non accennano a diminuire, nemmeno adesso che il sentiero aggira serpeggiando la ripida crestina nei tratti boscosi. Arrivati giù aumenta la copertura boschiva. I pini loricati qui convivono addirittura con il leccio. Ci sorprende la varietà della vegetazione: attraversiamo prima una zona dominata dagli ontani e poi un bosco fitto di leccio i cui pendii ripidi ci mettono a dura prova.




Il sentiero è scomparso, esiste solo nella mappa del gps. Si procede seguendo una traccia virtuale, ma è quella che ci condurrà verso la macchina. Anche le tecnologie avanzate soccombono di fronte alla potenza di questa natura che a volte sembra  quasi ostile. La discesa è snervante, sembra di essere intrappolati in una giungla da cui è impossibile uscire. Queste montagne mettono a dura prova anche l’escursionista più esperto. Ciò che appartiene al sublime non è solo bellezza, calma e gioia: è anche fatica, spaesamento e irritazione. Ma è una fortuna che in Italia esistano luoghi dove si possa provare ancora il senso dell’avventura; dove sperimentare quella possibilità di perdersi nella foresta, che allo stesso tempo provoca repulsione ed attrazione. Superato il fitto bosco di leccio ci ritroviamo nella faggeta, lungo un crinale, e ci sorprendono gli esemplari monumentali di faggio con le grandi radici scoperte che incontriamo lungo il percorso. Poi prendiamo una traccia che ci conduce in uno stretto vallone. La foresta qui è caratterizzata da una vegetazione lussureggiante di edera, felci e rovi e gli ampi spazi sono dominati da esemplari secolari di faggio. Ci appare la cima aguzza e imponente del Monte Cannitiello. Facciamo una pausa  ci riprendiamo un po’. La bellezza di questo tratto di bosco ci fa dimenticare la stanchezza e il senso di irritazione che via via era andato crescendo nel bosco fitto attraversato precedentemente. Mi vengono in mente le descrizioni  fantastiche presenti nei libri dello scrittore  J. R. Tolkien, dove  le foreste non sono solo luoghi bucolici, ma anche oscure ed ostili, irriducibili nella loro forza selvaggia.



 Finalmente arriviamo a valle, a quota 600 m., in una zona di pascoli recintati e masserie abbandonate. Si sente l’abbaiare di un cane. Sopra di noi pareti ripide popolate di rade colonie di pini loricati che qui arrivano quasi a 700 metri  di altitudine. Incontriamo la strada sterrata che ci porterà alla strada asfaltata e alla macchina. Bisognerà ancora salire. Siamo stanchi, è da 12 ore che siamo in marcia. Arrivati finalmente alla strada asfaltata ritroviamo il cane randagio incontrato ieri. Non ha più la zecca sulla testa ma sembra sempre affamato. Gli lascio tutte le piadine avanzate. Stasera si mangia, la cena è assicurata. E anche per noi adesso ci vuole una buona pizza e un bicchiere di vino prima di rimetterci in macchina e tornare nelle montagne sorelle del Pollino, la nostra vera “Heimat...



 


venerdì 29 aprile 2016

Diario - 27/28 aprile 2016

"Sopralluoghi": dal Pollino all'Orsomarso (con Nino Larocca)

Colle Dragone, Campo Tenese, Piano di Masistro, Piano di Novacco, Tavolara, Valle della Sepe, Verbicaro

Uno scorcio dei Monti dell'Orsomarso, una wilderness meravigliosa

Sono circa le sette e mezza, sono sveglio ma ancora nel letto. Sento il telefono squillare. E' Nino, cosa vorrà mai? Rispondo e dice che sta venendo in macchina con Giustiniano da San Lorenzo, passeranno per casa mia per salutarmi. Mi invita anche ad andare con loro, vanno a fare un sopralluogo fin oall'Orsomarso per le prossime edizioni di "Natura e cultura sui sentieri dei briganti". Visto che sono libero gli dico di sì. Arrivano, prendiamo un caffè a casa mia, metto in fretta nello zaino un sacco a pelo e qualche ricambio e preparo l'equipaggiamento da escursione. Giustiniano, presidente dell'Associazione "I Ragazzi di San Lorenzo Bellizzi" (di cui faccio parte) farà da autista, ci accompagnerà agli imbocchi dei sentieri da percorrere e registrare sul GPS per poi attenderci a valle nelle strade e nei paesi. (Per chi non lo sapesse Nino Larocca è guida ufficiale del Parco nonchè speleologo del Gruppo Speleologico Sparviere)
Colle del Dragone, col Presidente Giustiniano Rossi - foto di Nino Larocca

La prima tappa è una vecchia mulattiera che da Colle Dragone conduce a Campo Tenese. Usciti dalla faggeta il panorama si apre a nord sulle rupi del Timpone Viggianello con magnifici pini loricati e verso sud sull'ampia vallata di Campo Tenese.  E' qui che siamo diretti. Notiamo nel paesaggio brullo e roccioso begli esemplari di ginepro e macchie di lavanda, che in queste rocce assolate cresce selvatica. 




La sorpresa più grande sono i ruderi di una struttura imponende che da quel che ipotizziamo, per la forma architettonica, i blocchi scolpiti con cura e le arcate, potrebbe trattarsi di un antico convento. Chiederemo a qualche guida di Morano dopo aver terminato l'escursione. Come saprò dopo grazie alla guida Roberto Angelo Motta, si tratta dei resti di una segheria a vapore, una delle più grandi del Pollino. La segheria Corice risale al 1890 e poi fu ampliata dalla Rueping;  Ce n'è un'altra in località Acquafredda di Campotenese più piccola e ormai del tutto perduta. Altri ruderi interessanti sono quelli di un ovile, di pianta quadrangolare, con le stalle e un'alta casetta dove viveva il pastore, struttura completamente circondata dai muri, tanto che ricorda un fortino. 




Vediamo da lontano la panda di Giustiniano, ha capito bene dov'è il punto d'incotro stabilito...
Dopo aver mangiato un panino e un bicchiere di vino in un locale, Giustiniano ci accompagna all'imbocco della seconda tappa del percorso, quella che da Campo Tenese ci porterà al Piano di Masistro. La mulattiera, a tratti scavata nella roccia,  reca i segni dei greggi di migliaia di capi che probabilmente la percorrevano, è infatti molto larga. 

Sbuchiamo sopra Piano Masistro: il panorama è eccezionale, questo pianoro integro non percorso da strade è una meraviglia naturale e brilla del verde privaverile. Dalle "stelle", a poca distanza troveremo le "stalle": un brutto abbeveratoio di lamiera, due vecchie strutture di cemento abbandonate e una molto grande di recente costruzione, che ci pare un'altra cattedrale nel deserto, la quale stona incredibilmente con la bellezza di questi luoghi... 



Giustiniano intanto ci viene a prendere alla strada asfaltata e così andiamo al bel Piano di Novacco. Il rifugio è aperto, dormiremo e mangeremo qui. C'è ancora tanta luce e un escursionista di Saracena ci accompagna all'imbocco dei percorsi che portano a Tavolara. L'acqua dei torrenti costeggiati dalla strada forestale è cristallina, la ghiaia risalta nel letto e il fango è assente... Facciamo il sopralluogo a piedi dopo il cancello, la passeggiata risulta bella (a parte qualche brutto ponticello di cemento fatto forse all'epoca in cui il calcestruzzo aveva la forza del mito) ma lunga;  sceglieremo il percorso più breve che sale sulla sinistra prima del cancello. Al ritorno,  in macchina, notiamo un bel capriolo uscito al tramonto a pascolare, ancora con il mimetico mantello invernale. Ci ha visti ma non scappa e resta a mangiare le foglie tenere dei faggi.

Al mattino presto del secondo giorno, Giustiniamo parte con la macchina per Verbicaro, mentre noi ci avviamo a piedi. Avremo molto da camminare, per giungere a Verbicaro dovremo attraversare un'enorme foresta, cercando di non sbagliare strada per non perderci nella "prigione" di alberi. Lungo la strada notiamo esemplari monumentali di faggio e torrentelli dall'acqua limpida che attraversano la foresta. Saranno poche le occasioni in cui usciremo alla luce dal bosco, una di queste è la località Tavolara, un bel pianoro purtroppo sfregiato dal cemento di cunette, scalinate, edifici abbandonati assurdi, probabilmente frutto dei progetti speculativi degli anni Settanta... Da qui proseguiamo, in alto, ma dopo qualche tornante ci accorgiamo che il percorso che stiamo facendo non sembra corrispondere a quello della cartina, sia in termini di altitudine che di direzione. Capiamo che abbiamo sbagliato e torniamo indietro. Abbiamo perso un'ora... Nello zaino abbiamo qualche pacchetto di crackers e dei fichi secchi. Cosa si potrebbe mangiare nel caso ci perdessimo nella faggeta, mi domando. Le foglie tenere di faggio forse? Ne mangio qualcuna. "Mangi le frasche come le capre?" dice Nino. Eppure le foglie tenere non sono amare, ricordano vagamente il sapore dell'acetosella, perciò in casi estremi sarebbero buone... Intanto Nino ha chiamato il suo amico Antonio Brizzi di del gruppo speleologico "Mercurion" di Verbicaro, che ci dà delle dritte per arrivare al paese; ci raggiungerà più sotto col suo fuoristrada. Sempre proseguendo nella scura faggeta, usciamo finalmente al sole e incontriamo una radura erbosa popolata da migliaia di margheritine, che punteggiano di bianco il prato... 


Giunti ad una fontana, incontriamo Antonio. Per l'occasione, l'amico di Nino vorrebbe indicargli un inghiottitoio, posto in un pianoro d'alta quota, non tanto distante,  che si rivelerà il luogo più bello dell'intera traversata. Per giungervi saliamo lungo ripidi pendii popolati da monumentali esemplari di faggio, delle vere e proprie sculture viventi, alcune con le radici scoperte a causa delle pendenze. 

Ciò che ci colpisce di questo tratto di faggeta vetusta è la particolarità del muschio, scuro, che copre a chiazze i faggi, tali da farli apparire come "maculati", un aspetto che desta in noi meraviglia...



Lungo il sentiero si apre un punto panoramico da cui possiamo ammirare la selvaggia Valle dell'Abatemarco di cui avevo sentito parlare, e più lontano lo spettacolare Monte Trincello


Sbuchiamo in un pianoro molto panoramico, detto Valle della Sepe: appena mi affaccio capisco che sono giunto forse in uno dei luoghi più spettacolari del Massicci dell' Orsomarso, dal valore wilderness indiscutibile. Un luogo comunque abitato anticamente dai pastori, come si evince dai ruderi degli stazzi: uno di essi è stato ristrutturato con criterio in modo da ricavarne un piccolo e spartano bivacco per gli escursionsiti. Anche qui margheritine a non finire... 




L'impressione che si tratti di un posto unico diventa certezza quando Antonio ci conduce sull'orlo di un dirupo spaventoso, dove crescono abbarbicati monumentali pini loricati; sullo sfondo dominano Cozzo dell'Orso, gli impressionanti canaloni del Cozzo del Pellegrino e più lontana la Montea. Anche i faggi qui sono magnifici. Come fa notare Nino scherzosamente, sono già un tipo di poche parole e di fronte a tanta bellezza sono rimasto davvero ammutolito: il pensiero si perde in questi angoli di natura inviolata, è là, sui ripidi canaloni che d'inverno si ghiacciano, nei fitti ed impenetrabili boschi. Vago immaginariamente in solitudine per perdermi negli anfratti più aspri e selvaggi di questi monti... In fondo, a valle, si notano bene i ruderi di quello che doveva essere un esteso villaggio di pastori e contadini. La valle dell'Abatemarco è davvero maestosa...  In base ad una prima impressione, i Monti dell'Orsomarso da quel poco che ho potuto vedere hanno un'anima a sè, un'anima direi selvaggia e irriducibile. Mentre il Pollino fa pensare ad una wilderness maggiormente vissuta dall'uomo, ad una montagna più accessibile, qui le infinite faggete, i valloni e i crinali delle montagne colpiscono per la loro austerità, danno l'impressione di una montagna ancora tutta da esplorare... Ma si sbaglia forse a fare confronti, come dicevo prima queste entità territoriali hanno due "anime" diverse, pur se comprese nello stesso Parco...





Se abbiamo potuto godere di questi panorami è anche merito di Antonio Brizzi: come afferma anche Nino, per scoprire la meraviglia di certi luoghi e non perdersi è sempre preferibile affidarsi, come del resto dappertutto,  alla gente del posto che li conosce... in una parola alle guide; la duplice funzione della guida è quindi tecnica ma (soprattutto aggiungo io) culturale e di conoscenza del territorio, intendendo non solo gli itinerari classici o le cime, ma anche quei posti meno gettonati ma altrettanto meritevoli di attenzione e tutela. 
 
Nino Larocca e Antonio Brizzi

Ritorniamo sui nostri passi e Antonio ci accompagna col suo fuoristrada a Verbicaro, facendoci risparmiare parecchie ore di cammino lungo la strada sterrata che dalla montagna scende a valle snodandosi nelle belle campagne, con terrazzameti e qualche orto ancora coltivato. Prima però Antonio ci conduce in un altro belvedere, da cui si apre un panorama verso boschi e pareti rocciose in parte ancora inesplorate... 


I "sopralluoghi" che abbiamo fatto ieri ed oggi si sono rivelati una bella traversata a piedi che ci ha permesso di scoprire località ancora inedite per noi. Il "Presidente" Giustiniano ci aspetta al paese, dopo una mezz'ora passata in compagnia di altri amici di Nino ci avviamo verso Campotenese, passando per il paese di Orsomarso, diretti a casa mia, dove ci aspetta una meritata e lauta cena...


by Indio - foto di Nino Larocca